È uscita ieri in digitale e su vinile la colonna sonora che Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, ha composto per Iddu – L’ultimo padrino, lungometraggio prodotto da Indigo Film, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza e liberamente tratto dall’autentica relazione epistolare che legò per quattro anni Matteo Messina Denaro e l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino.
Colapesce riesce ad armonizzare le due anime apparentemente dissociate del film: commedia e dramma, Toni Servillo e Elio Germano, Catello e Matteo. L’uno ex preside di scuola dilettante, poi traffichino professionista, appena tornato in libertà; l’altro ex enfant prodige di Cosa Nostra, poi erede di un impero malavitoso, ma latitante da una vita.
Così come Vaccarino – agendo per conto dei servizi segreti – cercò di conquistare la fiducia del feroce boss a colpi di cultura umanistica velleitaria ed emotività paterna surrogata e malriposta, così Colapesce avvince la sensibilità dello spettatore del film orchestrando un eccezionale numero di sfumature di malvagio che si dissolve nell’umano e di umano che si palesa nel malvagio.
Il talento di Colapesce sta nell’insieme e nei dettagli. Per insieme si intenda il messaggio generale che ogni sua nota restituisce: anche la malvagità più atroce può e deve essere, in qualche modo, arrangiata. Per i dettagli: non passano inosservate raffinatezze come il pezzo che accompagna il lungo processo di produzione e smistamento delle missive clandestine. Ci sembra di vederli viaggiare come per magia, ma in realtà è solo per mafia. La traversata del pizzino (traccia 7) sta a Colapesce e alla comunicazione ai tempi della latitanza come Il tema di Edvige sta a John Williams e alla posta ai tempi della magia.
Questo è il primo lavoro importante firmato dal solo Colapesce che esce dopo l’annuncio (anticipato a Rolling Stone quasi un anno fa) della prospettiva di una pausa per il duo formato quattro anni fa con Dimartino.
Riascoltando le musiche per Iddu col loro autore è venuta fuori questa intervista.
L’arte della colonna sonora affascina particolarmente quando non è solo un accompagnamento per il film, ma è uno specchio attraverso il quale le immagini montate possono dirci anche altro. La tua qui sembra rientrare decisamente in questa forma di seduzione.
Comporre una colonna sonora oggi è principalmente un lavoro di supporto, funzionale a qualcos’altro. Con Iddu ho provato a fare un’altra cosa: creare un ulteriore universo narrativo, fratello della materia cinematografica e figlio di una lunga tradizione italiana, di altissimo livello, che troppo spesso viene risolta solo citando un gigante come Morricone, ma che conta figure come Egisto Macchi, Piero Umiliani, Riz Ortolani. Ciascuno di questi autori ha lavorato molto sulla parte tematica delle sue musiche: tendenza che, nel tempo, un po’ si è persa.
Cosa ti affascina di più del rapporto tra cinema e musica?
Gli scambi tra scrittura musicale e sceneggiatura. Per Iddu ho cominciato a scrivere mentre gli sceneggiatori erano alla seconda stesura. Così ho potuto isolare alcuni elementi che poi sono diventati fondamentali nel prodotto finale. Per il personaggio di Catello, che è di fatto una maschera, quasi una macchietta, ho potuto giocare, musicalmente, sull’aspetto tematico, mantenendo un aspetto sonoro molto stabile per le sue apparizioni sulla scena. Invece per Matteo la difficoltà è stata opposta: ho dovuto procedere per sottrazione, con l’obiettivo di non mitizzare il suo personaggio. Avevo in mente un tema anche per lui, ma l’ho messo da parte, perché rischiava di sottolineare troppo le sue attrattive all’interno di un solco già ben tracciato di iconografia mafiosa cinematografica e televisiva.
Matteo in esterna col Barbour e i Ray Ban Aviator… La tua colonna sonora cospira dietro le quinte per evitare che il cattivo sia troppo accattivante, equilibrando il lavoro di costumisti e scenografi. A quali maestri ti sei ispirato, in questo?
Primi tra tutti Jon Hassell. Ma anche i Popol Vuh, per alcuni film di Herzog, quando riescono a creare un’atmosfera materica, a tratti tribale, senza troppi agganci melodici. Le pause mi hanno aiutato quasi più delle note. Ovviamente, quando le note non erano quelle della tromba atonale di un bravissimo musicista come Alessandro Bottachiari. Il suo è stato uno strumento quasi smontato, passata allo harmonizer per creare una sensazione di smaterializzazione. Su altri brani ho spaziato molto. Per la scena iniziale del funerale ho usato addirittura delle campionature di recite di rosari tradizionali siciliani: una sorta di mantra per esorcizzare il lutto. Una pasta musicale molto oscura.
Non sempre un compositore ha il privilegio di poter lavorare alla colonna sonora mentre la materia del film è ancora magmatica. Anche se si potrebbe dire che, rispetto ai registi, qui il privilegio può essere reciproco. Ma hai mai dovuto modificare radicalmente una traccia che avevi ormai registrato, quando non funzionava con una scena?
Certo. C’è una scena che alla fine è stata tagliata. Era una festa con un mio pezzo house inedito! Un altro brano, che accompagnava una scena automobilistica, ricordava un po’ troppo i film polizieschi anni ’70. Ci stava benissimo, per carità, però quando componi una colonna sonora devi avere una visione un po’ più larga e tutto deve tornare a un insieme più coerente, non episodico. Dunque quel pezzo, che funzionava nella singola scena, non funzionava nell’economia generale del film. L’effetto polpettone era dietro l’angolo.
Guardando il resto del panorama di cinema e tv, in tanti, troppi casi, una bella playlist da piano bar è più impattante, ma non sempre resta. Come hanno interagito i registi con te?
La fiducia è stata reciproca e straordinaria. Pensate a questa intuizione di Fabio Grassadonia. Sia Matteo che Catello godono, inizialmente, di un’indipendenza sonora: a ciascuno il suo tema. Verso la fine del film i due temi convergono, così come le storie dei rispettivi personaggi. L’aspetto della commedia, che aveva caratterizzato più Catello, viene fuori anche in Matteo e, viceversa, la malvagità di Matteo è sempre più evidente anche in Catello. La musica, di pari passo, finirà per presentare i due temi che prima si contaminano vicendevolmente e, infine, viaggiano all’unisono.
La tua terra di origine ha sempre avuto un ruolo centrale nella tua creatività, anche se spesso si limita a impreziosire di citazioni brani di respiro concettuale più ampio (come dimenticare i capitelli barocchi di Sesso e architettura). Ma in Iddu sei talmente ipersiciliano che sembri omaggiare l’ispiratore del tuo nome d’arte, Colapesce; colui che, nel mito, sorregge fisicamente la Sicilia dal profondo del mare come tu, per dieci anni, hai fatto musicalmente da Milano. Anche le musiche che hai scritto per La primavera della mia vita e per la serie The Bad Guy sono molto siculofone. È il cinema che tira fuori questo tuo lato?
In questi anni di Milano, guardando le cose da lontano, spesso sono riuscito a cogliere meglio alcune sfumature della Sicilia. Nella mia musica gli elementi “isolani” ci sono sempre stati, anche inconsciamente. Sono nato e cresciuto in Sicilia e il mio immaginario, per forza di cose, si è formato in questa terra. Ma quello che ho sempre cercato di evitare è stato cadere nella trappola dei cliché della sicilianità, che proprio non sopporto. Ho amato tantissimo Battiato perché nei suoi testi si percepisce sì la Sicilia, ma potrebbe anche essere un’isola nel mare del Giappone: il suo è un linguaggio talmente universale che non lo puoi collocare geograficamente.
Battiato era su una dimensione planetaria anche quando cantava in dialetto…
Io provo a riferirmi alla Sicilia cambiandone sempre qualcosa. Come quando ho passato e ripassato ai sintetizzatori le lamentazioni funebri delle donne siciliane in Iddu, cercando di contaminarle il più possibile con altre sonorità. Ciò che conta per me è sfuggire al cosiddetto folkloristico, alla cartolina, al pezzo da museo. Forse è uno dei motivi per cui la musica popolare in Sicilia (a differenza di quella napoletana, che è molto più contaminata e dunque viva), sembra tanto morta.
In quale Sicilia musicale ti trovi più a tuo agio: in quella da realismo magico on the road della Primavera della mia vita o in quella impastata di verismo di Iddu?
Sono due film agli antipodi e dunque lo sono anche gli approcci che andavano tenuti per le loro rispettive musiche. La primavera della mia vita è un film che ho scritto con Antonio, e su cui avevamo un controllo creativo totale. Era un prodotto leggero e trasognante, nonostante i momenti di grande emotività che pure comprende, e la sua dimensione musicale lo ha assecondato. In Iddu serviva rappresentare il male, ed è stata tutta un’altra storia.
Come per tanti siciliani, come del resto per anche tanti italiani, il tema della mafia deve avere un significato particolare per te. Quanto delle tue esperienze personali o delle storie che hai sentito nella tua terra ha influenzato le musiche per Iddu?
La mafia è è un argomento che conosco, ahimè, molto da vicino, almeno rispetto a un compositore che deve crearsi un immaginario da zero. Sono nato all’inizio degli anni ’80 e dunque nei ’90 ero già piuttosto cosciente: ricordo esattamente l’atmosfera tetra e terrorizzata in cui vivevamo tra i tanti morti ammazzati, anche nelle mie zone. Il vero cambio di passo è stata l’uccisione di Falcone e Borsellino. Ricordo la sensazione che si fosse andati oltre e il forte desiderio di dire basta. Da lì in poi si può parlare di una nuova percezione della mafia in Sicilia. Chi ha vissuto in prima persona le emozioni di quel periodo non può che interiorizzarle e, se ne ha l’occasione, trasmetterle poi agli altri.
C’è un genere cinematografico o un regista con cui sogni di lavorare in futuro come compositore?
Sono tanto appassionato di cinema. Se, nel rispondervi, potessi spaziare a livello globale direi subito un nome: Herzog. Certo, la concorrenza dei colleghi esteri è bella importante. Penso subito a Ludwig Göransson, che adoro. Per restare nell’ambito italiano sogno Garrone e Sorrentino, due grandi registi; così come Pietro Marcello e i D’Innocenzo. Fortunatamente, anche in Italia abbiamo una riserva di bravi autori di cinema e, anche con loro (ride) sento che potrei fare un buon lavoro. Ma la più grande curiosità che vorrei un giorno soddisfare sarebbe lavorare per una grossa produzione televisiva seriale. Pensavo a una cosa come The Mandalorian: mi prenderebbe molto bene. In più sono piuttosto appassionato di horror e, per quel genere, vi direi senza pensarci troppo: Ari Aster.
Sei molto concreto nel sognare! Con questa colonna sonora hai già vinto un premio importante: il Soundtrack Star Award 2024 come miglior colonna sonora della Mostra del Cinema di Venezia 2024. Per La primavera della mia vita avevi già vinto il Nastro d’argento. Invece, una canzone come Musica leggerissima arriva quarta a Sanremo dopo i Måneskin e Fedez. Domanda a risposta multipla: 1) il cinema d’autore tiene botta meglio rispetto alla musica d’autore? 2) C’è qualcosa che non va nel panorama musicale o c’è qualcosa che ancora va nel mondo del cinema? 3) Oppure, più semplicemente, i premi e le gare canore non contano granché?
Difficile scegliere. I premi non sono tutto. Se non li vinci non vuol dire che non sei bravo. Però, quando te ne danno uno come quello di Venezia, è ovvio che fa piacere. Che ti rendi conto che quei sei mesi spesi in studio sono stati apprezzati. Detto questo, con Antonio siamo contenti del percorso che abbiamo fatto negli ultimi anni, anche se la musica pop in Italia sta andando in una direzione diversa rispetto a quella che abbiamo proposto noi. Siamo riusciti a fare quello che ci piaceva ed è stato apprezzato anche al di là delle nostre aspettative. Oggi sono felice delle mia situazione, perché continuo a fare quello che mi piace, senza obblighi o contratti discografici che mi dettino le scadenze. Mi autogestisco sia da un punto di vista creativo che produttivo. Se questo approccio non corrispondesse al gusto o alla moda del momento, ecco, non mi farei influenzare più di tanto.
Certo è che il tuo approccio sembra funzionare al cinema. Senza essere andreottiana la canzone inedita che chiude il film, La malvagità, postula l’inevitabilità del male nell’equilibrio del mondo. Per melodia e contenuto è la nemesi di Musica leggerissima, che postulava invece la necessità della leggerezza davanti a mostruosità come la guerra o l’indifferenza, per non parlare dell’atteggiamento riformista del clero. La malvagità è un pezzo che avresti potuto scrivere anche senza “iddi”?
Le parole “la malvagità appartiene all’uomo” le avevo appuntato a matita sulla seconda stesura della sceneggiatura. Dunque il pezzo è nato col film. Eppure la malvagità è certamente precedente alla scrittura di Fabio e Antonio: vedi Caino e Abele. Questo concetto aleggia su tutta la storia dell’uomo. In occasione della sua laurea honoris causa in architettura David Cronenberg (aggiungiamo anche lui alla lista) ha parlato di arte come crimine. Questo è evidente nei suoi film come nella realtà. La sua riflessione mi ha portato a scrivere quel verso finale: “La malvagità serve al mondo intero”. Per superare un problema la prima cosa da fare è averne coscienza. Nel giorno in cui l’abbiamo pubblicata sulle piattaforme il Libano veniva bombardato. Bisogna accettare il male, per cambiarlo.
Fin dai tempi degli Albanopower sei sempre stato molto eclettico. Lavorare più per conto tuo ti renderà ancora più multiforme e duttile? O il tuo desiderio è concentrarti più su te stesso e sul tuo modo specifico di sentire?
Mi piacciono entrambe le cose. Da una parte vorrei sempre lavorare con persone molto diverse da me, perché credo che le differenze aiutino a superare le proprie certezze. Non amo restare nella mia comfort zone. Dall’altra so che per me adesso comincerà una fase in cui potrò anche fare molte collaborazioni da ospite ma, più intimamente, so anche che aprirò una fase di ricerca, volta allo scrivere cose per me. Ho l’esigenza di ritirarmi per un po’ nella riflessione, per provare a capire innanzitutto me stesso, riappropriandomi della mia musica. La stessa musica, che mi ha sempre aiutato ad affrontare le mie insicurezze, le mie paure e le mie gioie, è stata ed è un’analista che non devo pagare. Negli ultimi quattro anni non credo di aver avuto questo spazio per Lorenzo perché con Antonio abbiamo lavorato tantissimo: due Sanremo, tre dischi, un film, quattro tour.
Collaborare così intensamente con un altro artista porta inevitabilmente a condividere visioni e creatività. Qual è stato il momento più significativo della vostra esperienza insieme, sia in termini artistici che umani?
Con Antonio abbiamo la fortuna di essere grandi amici prima che collaboratori. Abbiamo condiviso tantissime giornate e nottate. Per me il nostro momento più significativo è stato il primo Sanremo e non solo per il successo di Musica leggerissima. Eravamo in piena pandemia e suonare davanti ai palloncini che sostituivano il pubblico ha confermato un legame indelebile. Anche il tour dell’estate successiva, che fu tra i pochi tour nel vero senso della parola di una stagione molto dolorosa, con le sue tante restrizioni obbligatorie, con i suoi tanti drammi e disagi. Anche se è un ricordo malinconico quel ricordo me lo porterò dietro per sempre. Siamo stati davvero fortunati io e Antonio.
Una volta in un’intervista tu e Antonio avete dichiarato che avreste fatto un programma in televisione, se ve lo avessero proposto. Che programma sarebbe stato?
Confermo: lo abbiamo scritto ed è pronto. Era pensato per la Rai, anche se con la situazione politica attuale la vedo veramente difficile.
Sarebbe un two men show?
Comprende sì una parte musicale fondamentale, però non posso spoilerare altro. Non sia mai che si faccia. Chissà, magari, tra dieci anni. Vediamo!