Fruit Tree, Fruit Tree
Open your eyes to another year
They’ll all know that you were here
When you’re gone
(“Fruit Tree”, 1969)
Il nome di Nick Drake negli ultimi anni è stato fin troppo pronunciato, molto spesso a sproposito. Ogni settimana un nuovo nome del firmamento folk anglo-americano si vedeva preso di mira dal fuoco incrociato di paragoni. Bastava pochissimo: una sfumatura malinconica nella voce, una tecnica chitarristica insolita, un aspetto taciturno o silenzioso. Inesorabilmente veniva tirato fuori quel nome, sorta di spada di Damocle sul capo dell’artista di turno. Con il risultato di inibirne la dignità musicale e scoperchiare vasi di Pandora che potevano essere maneggiati con molta più cautela.
Riempirsi le orecchie, la bocca e la penna con il defunto cantastorie inglese è diventato uno sport internazionale, da almeno dieci anni a questa parte.
Diversi tentativi di rivalutazione e riscoperta del catalogo Drake sono stati tentati dagli anni 70 a oggi: il cofanetto antologico/retrospettivo Fruit Tree, contenente l’opera omnia e l’album di rarità e inediti Time Of No Reply; antologie di materiale già edito e bootleg di registrazioni casalinghe dall’audio incerto. Tutto ciò ha lentamente sedimentato e prodotto i primi frutti negli anni Novanta, anche grazie a un costante, sotterraneo passaparola.
Un consistente e inaspettato risultato divulgativo arriva con gli spot pubblicitari Nike, BMW e Wolkswagen, i quali propongono brani estratti da Pink Moon come accompagnamento alle immagini. Iniziano a essergli dedicati ampi articoli di copertina, come quello del mitico mensile britannico Mojo.
Nel 2000 è la volta di “A Skin Too Few”, bellissimo documentario a opera dell’olandese Jeroen Berkven, pieno di testimonianze preziose.
L’emittente radiofonica inglese BBC2, quella stessa che trasmetteva frettolosamente i suoi brani, per poi perdere i master, gli dedica un lungo speciale con la voce narrante di Brad Pitt. Fino alla scorsa primavera, con il miracoloso ritrovamento di “Tow The Line”, nuovo brano inedito scovato dall’engineer John Wood alla fine di una bobina lunga mezz’ora. La canzone è il fiore all’occhiello dell’ultima antologia “Made To Love Magic”. Insomma, una vera altalena mediatica che ha rischiato di svilire il personaggio. Curioso, perché la storia di questo ragazzo non ha nulla di febbrile e rumoroso. Drake non sapeva che farsene di vip, chiacchiere e distintivi.
La sua storia comincia con il silenzio di una bella casa in campagna… “Far Leys”: una villetta in mattoni rossi, a due piani. È qui che Rodney Drake, ingegnere a servizio di una ditta di legnami, decide di stabilirsi con la famiglia: la moglie Molly, casalinga con un grande amore per musica e teatro, la figlia maggiore Gabrielle e il piccolo Nick, di quattro anni. Dopo spostamenti e peregrinazioni tra Birmania (dove Drake nasce, il 19 giugno 1948) e India, il clan sceglie di tornare in Inghilterra, stabilendosi a Tanworth in Arden, un antico bucolico villaggio del Warwickshire, a sud di Birmingham. Nick cresce felice in quest’ambiente silenzioso e incontaminato, nel cuore verde di boschi che ricordano la tolkeniana Terra di Mezzo. Entra in contatto con la natura, con i suoi ritmi e segreti: questa pace costituirà negli anni tanta parte della sua poetica descrittiva.
Gli anni della scuola passano spensierati: Nick è un alunno ricettivo e socievole. Eccelle nello sport (pratica il rugby e l’atletica leggera: suo il record delle 100 yards a lungo imbattuto) e tra medie e liceo è addirittura eletto capoclasse. La sua avvenenza fisica non guasta: lunghi capelli neri, figura snella, look ricercato. Per ora Drake è un ragazzo riservato: magari un po’ in disparte, con aria seriosa o vagamente fra le nuvole, ma essenzialmente sano. Ha inoltre un rapporto tenero con i genitori e la sorella, che lo coccolano e lo assecondano, creando un idillio che perdurerà fino alla fine. È proprio la madre a trasmettergli l’amore per la musica: al liceo impara a suonare sassofono, clarinetto e pianoforte.
Il suo interesse si sposta però sulla chitarra acustica, strumento prediletto alla cui pratica dedica ore di studio. La radio intanto è sempre accesa e in quel periodo si forma un gusto musicale ben definito: tanto folk (Martin Carthy, Davey Graham, Bert Jansch e John Renbourn, Donovan), blues (Odetta) e jazz (Miles Davis), ma anche le nuove leve del rock, Beatles e Rolling Stones in testa.
Il desiderio di libertà nascosto tra i solchi di quei vinili offre lo spunto per i primi viaggi con gli amici: dalle fughe clandestine a Londra fino agli autostop in Belgio, Germania e Francia. Inizia a far uso di droghe: durante una visita in Marocco sperimenta l’Lsd e canta in un locale di Marrakesh, davanti a Mick Jagger. Nell’autunno ’67 si iscrive all’università: il prestigioso Fitzwilliam College di Cambridge. Segue con qualche interesse i corsi di letteratura inglese, ma pare già avere altro per la mente. Di fatto, è la musica stessa a bussare alla sua porta nelle sembianze di Robert Kirby, giovane compagno di studi: suo coetaneo, Rob diverrà l’arrangiatore ufficiale dei suoi primi due album. Una coppia vincente. Sono tempi di scarsa vita sociale e poco studio: la lontananza dal nucleo familiare comincia a creare i primi fastidi. Viene a mancare un referente privilegiato, un confidente. Nick comincia a coltivare un senso di auto-isolamento.
Primi mesi del 1968. L’evento che cambia per sempre la vita del nostro è un concerto alla celebre Round House di Londra: l’occasione per farsi ascoltare è preziosa. Nascosto tra il pubblico c’è Ashley Hutchings, bassista dei Fairport Convention, una band tra le nuove promesse del folk britannico.
Il colpo di fulmine è immediato: colpito dalla personalità, dal modo di fare e dall’ottima tecnica chitarristica di Nick, Ashley corre dal manager Joe Boyd e gli parla del promettente ragazzo. Basta un nastro con quattro pezzi per convincerlo del suo talento. Il frutto dell’apprezzamento vale a Drake un contratto discografico con l’etichetta Island, un compenso fisso settimanale (20 sterline) e l’ingresso nel club di talenti Witchseason Productions, sottoetichetta gestita dallo stesso Boyd.
In un lampo tutti i desideri di Nick sembrano avverarsi.
In estate iniziano le sedute di registrazione del primo album, Five Leaves Left, che si protrarranno per quasi un anno. Nel frattempo decide di lasciare l’università, senza laurearsi. In quel periodo Joe Boyd diviene il mentore di Nick e, insieme al fidato tecnico del suono John Wood, il fulcro della sua vita professionale. Joe è saggio, spigliato e carismatico: tutte qualità che a Drake sono sempre mancate.
Settembre 1969: decide di trasferirsi definitivamente a Londra. Il suo appartamento è spoglio ed essenziale: non ha neanche il telefono. Nello stesso periodo vede la pubblicazione l’agognato primo album.
Five Leaves Left è un esordio folgorante. Il suo autore ha solo ventun’anni, ma una maturità espressiva, una sicurezza nei propri mezzi da far invidia anche ai più esperti. La musica comincia con la solarità di “Time Has Told Me” e i sottili intrecci di chitarra elettrica (suonata da Richard Thompson dei Fairport) e acustica. Una linea di piano (Paul Harris) in sottofondo e il contrabbasso di Danny Thompson dei Pentangle. Atmosfera asciutta ed essenziale, in cui svetta la sublime tecnica del ventenne Richard, uno dei migliori chitarristi in circolazione.
Dopo la spensieratezza del brano precedente segue “River Man”, uno dei simboli della malinconia in musica di Drake. Lo scenario evocato è nebbioso e impalpabile, come l’orchestra d’archi, del resto, suggerisce. Il cantato è perfetto per la situazione: vago, delicato, lontano. La chitarra si limita a un ruolo essenzialmente ritmico, ripetendo gli accordi e lasciando che siano i violini a creare l’atmosfera. Ad arrangiarli c’è per la prima e unica volta Harry Robinson.
“Three Hours” parte dagli stessi paesaggi, ma rivela stavolta l’estro di Drake alla chitarra, eccellente nel padroneggiare accordi insoliti senza mai peccare di virtuosismo e anzi, riuscendo anche a cantare. Il pezzo, con i suoi sviluppi e falsi finali, sembra quasi una suite. Decisivo l’apporto ritmico di Danny Thompson e Rocky Dzidzornu (congas). Lo spleen, il mal di vivere hanno un apice con “Way To Blue” e gli archi arrangiati da Robert Kirby (anche lui alla prima esperienza lavorativa). Stavolta non c’è nulla che separi l’orchestra dalla voce di Nick, neanche l’amata sei corde. Difficile esprimere a parole la pesante leggerezza di questo brano. Basta ascoltarlo una sola volta, però, per rimanerne affascinati: un mondo intero di dubbi e speranze sviscerate nella voce, gli archi che si fanno strada indomiti attraverso le pericolose pieghe dell’anima. In “Day Is Done” torna l’acustica e sono ancora lezioni di tecnica impartite da Mr. Drake. Stupendo il lavoro di Kirby, che fa andare gli archi a braccetto con la melodia, con vette di assoluto lirismo quando un solista esce allo scoperto e viaggia insieme a voce e chitarra. Due minuti praticamente perfetti.
Finalmente le nuvole sembrano schiarirsi all’orizzonte con “Cello Song”. Come suggerisce il titolo, qui Drake lascia spazio al violoncello (Clare Lowther), che si ritaglia brevi ma lirici spazi da solista. La canzone la fanno gli intrecci tra quest’ultimo e la sei corde, con la voce meditabonda, sussurrata di Nick e le congas in sottofondo. “The Thoughts of Mary Jane” è dolcezza pura: il flauto apre al sole la melodia, mentre Nick fantastica estasiato di stelle, pioggia e cielo. Gli archi entrano nel brano discreti e lentamente crescono assieme al flauto, in un crescendo agreste. Bello il finale, con l’accelerazione improvvisa in dissolvenza. La saltellante filastrocca “Man In A Shed”, con il pianoforte di Paul Harris a ricamare le strofe, è l’ultimo sprazzo di autentico svago prima del ritorno alla malinconia. “Fruit Tree” è il capolavoro, riassunto e apice della cifra stilistica di Drake. C’è la chitarra che intarsia riff in apertura, l’ensemble orchestrale che regala vertici insuperati di lirismo, seguendo magicamente i testi: dolente come uno squarcio nel cielo, triste come un bacio mai dato. Fa rabbrividire il messaggio/presagio espresso nel testo: “La fama non è che un albero da frutto molto malato/ non potrà mai fiorire finché il fusto rimarrà sottoterra/ E così gli uomini famosi/ non troveranno mai una strada/ finché il tempo non volerà lontano dal giorno della loro morte”. E’ come se Nick conoscesse già il suo destino e fosse al corrente della sua fine precoce, accettandola di buon grado. Una confessione autentica, che ha pochi altri esempi nella storia della musica.
“Saturday Sun” riesce a stemperare un po’ i toni: Nick siede al pianoforte per una ballata da luci soffuse, con il contrabbasso e il vibrafono (Tristan Fry). Si riflette sul tempo che passa, le stagioni dell’uomo che cambiano così come il sole del sabato che lascia il posto alle piogge del giorno successivo. Una leggerezza naif che ha molti più significati nascosti di quelli che racconta e che chiude splendidamente un disco senza punti deboli, avvincente e unico.
Purtroppo, della bellezza luminosa di quel vinile si accorgono in pochi: le vendite sono assai modeste. A fine anno Nick abbozza anche un tentativo di promozione, esibendosi alla Royal Festival Hall (26/09/1969) di spalla ai Fairport Covention: è un trionfo, lui è applauditissimo, ma lascia il palco con imbarazzo. Non è questa la cosa giusta: il pubblico vociante lo indispone e lo atterrisce. E’ la vita in studio di registrazione il vero stimolo, il lavoro certosino alle canzoni. Il resto gli interessa pochissimo: la promozione, i cartelloni pubblicitari, i concerti, le interviste. Nulla di questo teatrino mediatico sembra procurargli il minimo interesse. Se potesse, Nick sparirebbe perfino dalle copertine dei dischi, lasciando parlare solo ciò che vibra all’interno.
Il passo cruciale dell’esordio è comunque compiuto: sia Drake sia Boyd hanno messo in conto una parziale delusione. Parziale, perché nel frattempo la critica si occupa di lui e osanna il suo operato. Anche la radio, nella persona del celebre dj della Bbc John Peel, non si lascia sfuggire il nuovo personaggio. Il fiasco emotivo autunnale si replica nei primi mesi del 1970: Nick suona ancora di spalla ai Fairport Convention, alla Queen Elizabeth Hall. Stavolta è davvero nervoso, sembra che stare lì gli costi un dispendio di energie eccessivo. Parla pochissimo, bofonchia qualche ringraziamento e fugge via, dietro le quinte. Disastroso il tentativo di far seguire il tutto con otto concerti nel nord d’Inghilterra: piccoli club di provincia, un pubblico rumoroso e francamente poco interessato a questo sconosciuto dall’aria torva e antipatica.
Joe Boyd a questo punto getta la spugna: niente più concerti. Risale a questo periodo l’avvio di una tormentata love-story platonica con Françoise Hardy, bella e famosa cantautrice francese: forse i due si incontrano, forse lei propone a Nick una collaborazione. I dettagli della storia rimangono nell’ombra.
Sul versante nuovo album non c’è tempo da perdere: Nick ha a disposizione materiale fresco scritto negli ultimi mesi. Ha in mente un’opera di respiro più ampio. Un lavoro ragionato e ambizioso, che finalmente possa donargli la meritata considerazione. Il Nostro sceglie personalmente i musicisti da coinvolgere: confermato Richard Thompson alla chitarra e Paul Harris al piano, si opta per la nuova sezione ritmica dei Fairport (Dave Pegg, basso; Dave Mattacks, batteria), jazzisti esperti come Ray Warleigh (sax, flauto), Chris Mc Gregor (piano) e Lyn Dobson (flauto), addirittura coriste (Pat Arnold e Doris Troy). La vera sorpresa però arriva con l’interessamento di John Cale, ex Velvet Underground. L’intesa fra Nick e John è immediata e proficua: il gallese suonerà alcune parti di viola e tastiere. L’ultimo colpo è messo a segno.
Bryter Layter parte con una breve introduzione strumentale, in cui la chitarra esegue un ostinato, coadiuvato dall’orchestra (alla conduzione di archi e fiati c’è il solito Robert Kirby). Stupisce la successiva “Hazey Jane II”, un brano praticamente pop, con un testo/scioglilingua e ammiccamenti melodici quasi “commerciali”. Sarebbe un singolo perfetto se solo Nick non si rifiutasse di produrne. Segue la morbidissima e introversa “At The Chime Of A City Clock” che, con la successiva “One Of These Things First” forma una coppia di ballate vincenti: languide tessiture di sax alto per la prima, dolce valzer pianistico nella seconda. Drake non abbandona certo l’adorata acustica, e con “Hazy Jane” punteggia un’altra suadente, barocca romanticheria folk per archi e sottile accompagnamento ritmico. Dopo il mid-tempo strumentale “Bryter Layter”, esercizio flautistico di folk/pop da camera, è il momento di “Fly”. Apre la melodia il dialogo tra la viola di John Cale e la chitarra di Nick, seguite da un tappeto estatico di clavicembalo (sempre Cale) e basso. “Ti prego dimmi il tuo secondo nome/ gioca per me la tua seconda partita/ sono caduto così lontano da qui/ per la gente come voi/ ho solo bisogno della tua stella per un giorno”. Per Drake “è davvero troppo difficile volare”, eppure la sua musica riesce a commuovere, innalzare lo spirito. La sua purezza è inebriante, l’angelica debolezza del personaggio non può che far innamorare.
Insolita la scelta latin jazz di “Poor Boy”, con tanto di soli di sax e voci femminili. La sfida è affascinante ma il risultato credibile: Nick riesce ormai a cimentarsi con qualsiasi forma musicale con disinvoltura e una musicalità che fa spavento.
“Northern Sky” è l’altro vertice assoluto dell’album. E non è casuale che sia di nuovo coinvolto John Cale: l’accompagnamento di organo, gli spruzzi di celesta, i guizzi di pianoforte rendono memorabile il brano. Ancora una volta, tuttavia, la parte del leone spetta a Nick: “Non mi sono mai sentito così folle e incantato/ non ho mai visto lune, conosciuto il significato del mare/ non ho mai tenuto l’emozione nel palmo della mano/ o sentito brezze delicate sulla cima degli alberi/ a illuminare il mio cielo del nord”. Poesia. Non c’è molto altro da aggiungere su una canzone che un celebre quotidiano inglese ha (tardivamente) definito “la più bella canzone d’amore inglese dei tempi moderni”. Con il cuore ancora pieno d’emozione, finiamo l’ascolto del disco, con lo strumentale conclusivo “Sunday”.
Bryter Layter compare nei negozi nel novembre del’70. L’accoglienza purtroppo è ancora troppo tiepida: 15.000 copie. Un numero superiore all’esordio, ma nettamente inferiore alle aspettative.
Questa mancanza di interesse è imperdonabile: l’album è perfetto in ogni sua parte, perfettamente arrangiato e suonato. Tutte le persone coinvolte sono estremamente soddisfatte del lavoro: l’engineer John Wood (uno che ha lavorato a diverse centinaia di dischi) afferma oggi che Bryter Layter è l’unico album cui a posteriori non apporrebbe miglioramenti. Ma il risultato purtroppo non cambia. Nick ha perso anche questo treno per la celebrità e cade profondamente in depressione. Serve a poco quell’unica intervista (per Sounds, febbraio 1971) concessa in carriera: lui è confuso e più abbattuto che mai. Come se non bastasse, in quello stesso periodo Joe Boyd cede alle lusinghe della Warner Bros. e decide di tornare negli Stati Uniti, suo paese natale, per occuparsi del settore colonne sonore. Per Nick è un colpo durissimo: l’uomo che più credeva in lui, il consigliere, l’amministratore, l’amico, adesso non è più della partita.
Forse scoraggiato dalle aspettative deluse, in disaccordo sui progetti futuri (Nick già medita un disco di sola voce e chitarra) o semplicemente bisognoso di cambiare aria, Boyd lascia comunque per iscritto come clausola contrattuale che i dischi di Drake rimangano sempre nel catalogo Island.
Iniziano le frequenti visite psichiatriche decise dai genitori preoccupati: la macabra danza di antidepressivi e medicinali che lo porterà a una lenta, ma implacabile assuefazione. Le droghe faranno il resto.
Il presidente della Island, Chris Blackwell, con un gesto d’amicizia offre a Nick le chiavi della sua villa ad Algeciras, nel sud della Spagna, per un rilassante soggiorno estivo. Anche se la pausa dallo stress londinese non offre immediato sollievo psichico, serve a Drake per portare mentalmente a termine il progetto sul nuovo album. Come aveva programmato, si tratta di una nuova dimensione solitaria in cui lui solo (e la sua chitarra) è il protagonista. Di ritorno a Londra contatta il “solito” John Wood e gli spiega il da farsi. Passano pochi giorni ed è in sala di registrazione.
Pink Moon, sua ultima fatica, nasce in due sole notti di lavoro. Spoglio, essenziale, asciutto, quasi scheletrico, questo album svetta nella sua già splendida discografia come il titolo più personale e sincero. Un disco in cui l’autore si guarda allo specchio e si racconta. Non cerca neppure di paragonarsi col passato. Lo sforzo nel vincere i dubbi, gli spettri che ormai abitano la sua anima, deve essere stato immane. Tante ombre e qualche spiraglio di luce per un album che rimarrà testo base per il sound di tanti cantautori “noir” nei decenni successivi.
Qualcuno lo ha definito (con un po’ di cinismo) “lo zombie gentile, barcollante sull’orlo dell’abisso”. Di certo Drake ha smesso di credere nella gente, è rassegnato nel considerarsi incompreso, parassita di quella società del dopo-Woodstock che non crede più in alcun sogno, che rigetta gli “outsider”. Nessuno ha più voglia di vedere la luna o conoscere il significato del mare. Tutte le dolci brezze e i cieli del nord si sono persi o hanno assunto il sapore dolciastro della California di James Taylor o degli Eagles. Forse la grazia di Nick è veramente fuori dal tempo, destinata a essere apprezzata col passare degli anni. Quel che è certo è che la luna rosa sembra tramontare.
Le undici canzoni di Pink Moon vedono la luce nel febbraio del ’72. Nonostante la pubblicità della label, l’enigmatica copertina dell’ultimo lavoro (un dipinto di Michael Trevithik) rimane seminascosta nelle vetrine dei negozi. Non vende quasi nulla, nonostante l’artista vanti ormai un seguito di culto disposto a tutto pur di avere sue notizie. Purtroppo Nick non fa nulla per migliorare la sua situazione, anzi: dopo la consegna dei nastri a una segretaria della Island, scompare nel nulla. Non si fa vivo, nessuno sa dove sia, dove abiti.
Passano i giorni e giunge qualche notizia: il cantautore ha mollato, è tornato per sempre ad abitare dai genitori, nella campagna di Tanworth. Non riceve quasi mai amici, passa le giornate a leggere e ad ascoltare vecchi vinili di Bach. L’amata chitarra giace in un angolo, trascurata. In questo stato d’animo di rassegnazione e isolamento tutte le voci e le critiche extra-musicali sembrano lontanissime. Due lunghi anni trascorrono in questa maniera, tra ricoveri per collassi nervosi e viaggi in macchina solitari.
Nick non c’è più, è sparito all’orizzonte come le nuvole che un tempo dipingeva. Il 25 novembre 1974 il suo corpo si addormenta per sempre, disteso sul letto. La madre è la prima a trovarlo. Il funerale si svolge pochi giorni dopo. Suicidio o errore nel dosaggio di antidepressivi: particolari mai chiariti. Tornano alla mente i versi di “Fruit Tree”, immagini che si mescolano nella memoria per poi confondersi e scolorire. Avremmo voluto un finale migliore.
Io stesso non vorrei che questa storia sfortunata finisse per oscurare l’inestimabile valore dell’artista. Drake ha prodotto tre album meravigliosi. Al loro interno c’è la passione. L’ambizione di un uomo che avrebbe voluto, nonostante la cronica timidezza, raggiungere il cuore di tutti gli ascoltatori. La recente riscoperta del suo lavoro l’avrebbe certamente reso molto felice.
Al di là delle considerazioni oggettive e personali, la cosa migliore che sento di dire è solo questa: comprate quei dischi. Le sue canzoni sono capaci di cambiare la vita.
Antonio Santini for SANREMO.FM