Dopo avere ascoltato Now And Then – dopo averlo fatto per almeno cinque volte, se non ricordo male – il primo impulso è stato riascoltare Free As A Bird, uno dei due pezzi inediti a firma Beatles – l’altro è Real Love – pubblicato in occasione delle Anthology (il primo volume uscì nel novembre del 1995). Casomai lo aveste pensato, sì, era mia intenzione confrontare le due canzoni, ma non da un punto di vista melodico, armonico oppure di arrangiamenti, insomma non volevo metterle in fila su una scala di gradimento in modalità Nick Hornby. Cercavo di verificare la consistenza e l’attrito di una vecchia sensazione, di riportarla al qui e ora e ascoltare cosa aveva da dirmi.
Free As A Bird venne confezionata quasi tre decenni fa con la tecnologia disponibile all’epoca, a partire da un demo di John Lennon su cui i tre ex-Fab Four superstiti lasciarono germogliare la loro beatlesianità residua. Il risultato fu una canzone che poteva credibilmente essere inserita nel catalogo della band, anche se conservava l’evidenza della sua origine, come dire, anomala. Sì, perché in Free As A Bird la voce di Lennon è un fantasma di voce: bellissimo, suggestivo, struggente, ma comunque un fantasma. Manca di corpo, di nitore, di definizione. Tradisce la sua natura di bozzetto. Quella canzone, che per inciso adoro, non fa niente per nascondere la sua natura di “as if”, di ucronia nostalgica e giocosa. Sembra dirti: “ecco un piccolo esempio di quello che i Beatles avrebbero ancora potuto fare se solo le cose fossero andate diversamente”.
Non credo che si trattasse di una cosa voluta. Non del tutto, almeno. È che all’epoca non si poteva fare di meglio, e già quel risultato sembrò eccezionale. Non era possibile resuscitare Lennon più di quanto riusciva a fare Free As A Bird (e Real Love, ovviamente, che ho sempre trovato un pizzico più fiacca). Il risultato è che quelle due canzoni ipoteticamente beatlesiane non hanno mai preteso un livello di credibilità, di naturalezza tale da aspirare a un confronto reale con il repertorio dei Beatles. Semplicemente, non potevano. La tecnologia imponeva il segno della sua presenza, ovvero dei suoi limiti, del gap tra artificiale e naturale.
Free As A Bird e Real Love erano due esperimenti funzionali all’operazione Anthology, quasi un invito subliminale a non considerare come reperti quel materiale ma di valutarne l’incidenza nel presente, l’intatto valore artistico/espressivo, pur restando fondamentalmente reperti. Ed erano anche dei costrutti progettati per entrare furbescamente in ridondanza coi circuiti della commozione, del rimpianto. Infine, una volta metabolizzati, lasciavano emergere qualità melodiche di eccellente livello (gli autori, del resto, erano quelli che erano). In ogni caso, in quelle canzoni Lennon rimaneva un fantasma.
Now And Then invece ci racconta quanto oggi il gap tra artificiale e naturale sia colmabile. E che quindi, se lo si vuole, possa essere colmato. Nel caso dei Beatles, qualunque cosa significhi oggi questo termine, si è voluto e potuto. In Now And Then la voce di Lennon suona limpida, definita, corposa, presente. Se la confrontiamo con il demo casalingo della stessa canzone, la sensazione che si prova è di uno sconcertante “inveramento”. Un po’ come quando inforchi un paio di occhiali della giusta gradazione o togli un alone opaco dalle finestre: la realtà acquista un livello più alto di percezione e quindi di appercezione. Nel caso specifico però è una sensazione paradossale, perché come è ben noto il risultato è ottenuto grazie a un processo algoritmico. Un inveramento artificiale, quindi.
Certo, in quella voce resta un residuo di perturbante, a confermare la teoria dell’uncanny valley, quando ciò che non è umano arriva a somigliargli moltissimo pur lasciando capire, in zona quasi subliminale, che non lo è. Ma probabilmente è una sensazione portata in dote da un processo razionale, più frutto di consapevolezza e riflessione che non dell’ascolto in sé.
I media, foraggiati dalle cartelle stampa, hanno sottolineato il ruolo giocato nel restauro della voce di Lennon dall’Intelligenza Artificiale, vero e proprio tema-chiave di questi mesi. Ma l’IA non è un ritrovato tecnologico, una proprietà, un espediente, una “cosa”, è semmai una tecnologia, non la puoi circoscrivere in un ambito fisico o tematico, è destinata ad avere ricadute estese e trasversali (le ha già) su più o meno ogni aspetto del vivere (tu chiamalo, se vuoi, iperoggetto). È del tutto gratuito puntualizzare a destra e a manca che è stata utilizzata l’IA per ottenere come risultato una canzone come Now And Then, suona scontato un po’ come puntualizzare che è stato utilizzato un computer o l’elettricità. Quello che mi pare davvero importante è tutto ciò che Now And Then postula alla luce di ciò che pretende di essere: l’intervento sulla voce di Lennon pone questa stessa voce su un piano di presenza, le assegna un corpo nel qui e ora, rendendo quindi del tutto plausibile e congruo l’agire umano di McCartney e Starr, con Harrison omaggiato da un assolo (di Paul) suonato nello stile del compianto George.
Ma il punto è Lennon, così intensamente presentificato, riportato nell’oggi da una originale dimensione – anche piuttosto precaria – di documento. La quota di artificio che sappiamo far parte del Lennon che sentiamo (possiamo solo supporre in quale dosaggio la voce sia ricostruita e quindi artificiale, se ha senso parlare di dosaggio in un caso del genere) non ha praticamente peso nell’esperienza di ascolto. L’artificio è trasparente, impercettibile. Non c’è. Si tratta di un passaggio fondamentale.
L’impatto di Now And Then sulla platea di ascoltatori e utenti di piattaforme di streaming è stato, prevedibilmente, molto forte (nel momento in cui scrivo, tra clip audio e clip ufficiale su YT siamo sui 6 milioni di visualizzazioni in circa 24 ore). A giudicare dalla mia bolla social, le reazioni e le discussioni si sono concentrate perlopiù sulla qualità della canzone. Solo una parte, significativa ma minoritaria, ha tirato in ballo senso, sostanza e motivi dell’operazione. Non sono dati che autorizzino a trarre sentenze, ma la sensazione è quella di un momento paradigmatico, di un cambiamento che si sta consumando, di un turning point storico. Quale?
I Beatles rappresentano un fenomeno pressoché unico in ambito pop-rock. In loro la celebrità più diffusa e l’apprezzamento profondo – i favori di pubblico e critica, se preferite – trovano un diapason con pochi eguali. Non ne esistono veri e propri corrispettivi, tuttavia non credo di sostenere una bestialità affermando che un ruolo simile in Italia potrebbe essere attribuito a Lucio Battisti. Tiro in ballo il musicista di Poggio Bustone per un motivo ben preciso: devo raccontarvi un aneddoto personale. Nei primi anni Novanta, col Lucio nazionale ormai scomparso dai riflettori e alle prese con la straordinaria fase dei cosiddetti “album bianchi” del sodalizio con Pasquale Panella, la band degli Audio 2 (un duo formato da Giovanni Donzelli e Vincenzo Leomporro) ottenne riscontri commerciali notevolissimi con canzoni che in maniera del tutto scoperta imitavano lo stile (e persino il timbro canoro) del Battisti periodo Mogol.
Eccoci all’aneddoto: poco prima della morte di Battisti, ebbi una discussione abbastanza accesa con un amico che non nascondeva di apprezzarli. Non mi capacitavo che potesse farlo, non con quell’impostazione così volutamente derivativa anzi imitativa. Come dare un qualunque credito e merito a quella specie di Battisti-fake che neppure si preoccupa di nasconderlo? Lui, molto serenamente, espose le sue ragioni: mi manca il Battisti del periodo Mogol, mi manca da morire, e gli Audio 2 sono bravi a farmi sembrare che quel Battisti lì ci sia ancora. Cosa, come ribattere?
Mentre il rock sta imboccando la sua maturità sempre più avanzata, con i protagonisti della prima ora ormai ottuagenari, mentre media e social a ospitano con regolarità commemorazioni dei rocker che hanno lasciato questo stanco pianeta (una folla che si irrobustisce mese dopo mese, ahinoi), la musica documentata costituisce un repertorio sterminato che assicura una persistenza, la conservazione dell’immaginario sonoro e delle sue vaste ricadute culturali, la possibilità che tutto ciò possa essere tramandato. La tecnologia sta però introducendo un aspetto nuovo: è possibile intervenire sull’immaginario, dissociarlo dalla parabola fisica, terrena degli autori, avviare un processo di reimmaginazione. Ovvero, rimettere in moto i meccanismi che si sono interrotti per un fastidioso inconveniente caratteriale (tipo un ritiro dalle scene, o una drastica svolta espressiva, o un litigio che ha scassato una band) o biologico (malattia, vecchiaia, morte).
Il pullulare di clip con l’IA che “si inventa” nuove canzoni di band gloriose (spesso facendo interagire elementi umani e digitali, quasi fossero dei tributi automatizzati, come ad esempio il progetto AISIS) o riletture ipotetiche di vecchie canzoni “nello stile di” altri autori (ad esempio una Come As You Are interpretata dai… Beatles) fanno pensare – tenuto conto degli scarsi esiti dal punto di vista artistico – più che altro a dei giochetti curiosi ma sostanzialmente orientati a rastrellare più click possibile, capitalizzando l’effetto attrattivo del già citato trend-topic IA (un tag che non manca mai nella descrizione di questo tipo di video). Ma si tratta della cresta di un’onda che nasconde forze assai profonde. Pratiche di questo genere, se condotte con modi, conoscenze e tecnologie professionali, possono ottenere risultati validi, forse perfino validissimi. Provate a immaginare: un intero nuovo album dei Beatles, come se si fossero riformati nel 1981, o nel 1990, oppure oggi. E che ne direste di un “lost album” ripescato nelle more del 1969? E perché limitarsi ai Beatles? Quanto sareste disposti a fingere di crederci, se l’ascolto fosse credibile?
Now And Then è, a mio modesto e inutile parere, una bella canzone. Contiene quel dipanarsi malinconico e al tempo stesso indomito, lo sfrigolare del favoloso nel quotidiano, l’insidiarsi dell’inconsueto nel familiare, la possibilità del colore che si allarga nel chiaroscuro, come era tipico nella fase tarda beatlesiana o nel Lennon solista. In più, ribadisce come quei due, Paul e John, con le loro peculiarità anche stridenti, tendevano a sovrapporre la calligrafia, a far convergere le divergenze, in una scivolosa e ammaliante stratificazione/compensazione espressiva. Non credo che Now And Then possa competere con i pezzi migliori del loro canzoniere, ma ha le stimmate della loro canzone.
Tuttavia, penso che finirà per essere ricordata più per la sua carica simbolica, per la sua capacità di riassumere e additare una vera e propria frattura tra futuro e passato, dove ciò che è stato non ha ancora finito di generarsi e potrebbe non finire di generarsi mai (più). Non credo che sia necessariamente un male, non più di una prassi creativa “umana” che si sta appiattendo sempre più sull’applicazione di pattern e schemi, e non solo – non sempre – con l’intento di massimizzare gli streaming.
Come è già stato detto a proposito delle IA generative, uno dei loro aspetti più interessanti è quello che rivelano sull’intelligenza (umana e non), sulle affinità tra il metodo stocastico alla base dei LLM e il formarsi dei pensieri nel mistero gelatinoso del cervello. Forse quello che ci sta dicendo Now And Then è che alla base e sul fondo dei nostri desideri c’è quello di infrangere lo specchio del tempo, a qualunque costo, con qualunque mezzo.
Con qualunque canzone. Da ovunque arrivi.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM