Ascoltare un disco di Sinkane è come attraversare decenni di diverse culture musicali, un melting pot colorato e multiforme dove riflessioni sociali, politiche e razziali si fondono con una ricerca sonora che ad ogni pubblicazione si fa sempre più curata e progettuale. E non poteva che essere così, viste le origini di Ahmed Gallab – vero nome dietro al moniker – nato a Londra ma di origini sudanesi.
“We Belong”, settimo album di inediti edito per City Slang, conferma quanto di buono prodotto da Sinkane a partire da “Mars” del 2013, dove già si intravvedeva quel mash-up diventato col tempo vero marchio di fabbrica dell’artista. Qui però c’è di più, perché invece di starsene tranquillo nella sua comfort zone, il nuovo disco si spinge verso territori musicali insoliti, in cerca di un suono globale. Non è pop, o meglio non è solo pop: è elettronica, è funk, è reggae, è dance, è gospel in un caleidoscopio sgargiante di colori (la copertina è esaustiva in merito), dove note e parole assorbono stili e influenze più disparate. C’è tanta Africa, in questi 46 minuti, ma vista e raccontata con un linguaggio universale.
Si ode persino qualche traccia del punk della New York ribelle e alternativa degli anni 70 che fa capolino tra atmosfere più eteree e poliritmie africane, e ci sono dentro tutte le vibrazioni che scatenano il groove, quelle che nascono dall’anima e liberano nel ballo l’energia contagiosa di queste canzoni.
Sinkane piazza il ritmo al centro del villaggio, e parte subito in quarta: un vocoder kraftwerkiano introduce lo sgargiante electro-funk di “Come Together”, pezzo che ha tutto per diventare un classico della sua discografia. Cinque minuti di euforia contagiosa e un testo che sintetizza già nella prima strofa il concetto portante di “We Belong”, e cioè una collettività intesa non tanto, o solo, come ascoltatrice e fruitrice finale del prodotto, ma come una sorta di comune, anche spirituale prima ancora che musicale, tra i tanti artisti e collaboratori che hanno partecipato alle registrazioni. E lui, Gallab, a fare da capopopolo nel privilegiato ruolo di supervisore e produttore al servizio delle canzoni.
Ne viene fuori così un album che esalta la libertà in tutte le sue forme. Libertà di creare, improvvisare, muoversi, suonare, ballare. È, in definitiva, l’immagine di un artista che si ritrova (il precedente “Depayse'” risaliva infatti al 2019) travalicando se stesso e allargando il concetto di io:
Pezzi del puzzle su una mappa
siamo più di quello che vediamo
venite insieme, venite insieme
maggiore di una somma di parti
c’è una vita migliore da vivere
venite insieme
“Come Together” è un mix riuscitissimo di funk, rock e soul, una sinfonia che trascende i generi sul solco tracciato da Sly & The Family Stone e attualizzato al 2024 col basso a trascinare, la chitarra elettrica mai invadente a supporto e delicate coreografie elettroniche a cesellare un suono che stupisce nel suo essere contemporaneo e retrò allo stesso tempo. I più attenti non faranno fatica a scorgere nel pirotecnico finale le influenze tipicamente disco di Roosevelt, suo labelmate e vero maestro del groove più elettronico.
Se in “Another Day” Sinkane dimostra di aver assimilato alla perfezione i dettami melodici di Stevie Wonder (e non è certo la prima volta, basta andare indietro negli anni e riascoltarsi quell’autentico gioiello che è “Jeeper Creeper”), “Rise Above” è caratterizzata da un incedere ipnotico imperniato su ritmi afro, mentre “Invisible Distance” è un bignamino di minimal soul elettronico che parte in sordina per poi esplodere in un ritornello world music e un finale strumentale che abbraccia sinuose atmosfere acid jazz.
La componente black ovviamente risulta essenziale e dominante, per esempio in “Everything Is Everything”, che provoca sopite emozioni soul e potrebbe tranquillamente far parte della colonna sonora di un blaxploitation come lo fu “Shaft” di Isaac Hayes, che diede via al filone. L’atmosfera torna bollente con i ritmi disco inferno di “How Sweet Is Your Love”, altro episodio di punta che recupera da qualche polveroso scantinato strobo fiati e synth orchestrali di accompagnamento a una sezione ritmica pompatissima e pulsante. Paillettes, Studio 54 e danze sfrenate, supportate da un cantato melodico in pieno Donald Fagen style.
Sul finire, dopo questa galoppata imbizzarrita in territorio seventies, il disco torna a più rilassati ritmi afro in “Liming” e quasi reggae dub in “Home”, prima della chiusura affidata a “The Anthem”, delizioso pezzo soul-pop nonché inno di una rivendicata appartenenza, il mantra “I love being black” in loop e una melodia che ricorda il già citato Wonder, ma soprattutto il primo Michael Jackson solista.
Paragone scomodo, se vogliamo, ma che ben rappresenta le potenzialità di un disco che ha tutto per arrivare in alto ed elevare Sinkane a una notorietà globale che merita già da tempo.
12/04/2024
Daniel D`Amico for SANREMO.FM