“Green River” è un disco americano. Di musica americana. In tutto e per tutto. Dalla bucolica cover, rievocante un’immagine rurale e genuina, fino ai microsolchi che odorano di swamp, mangrovie e jambalaya. Dopo l’ottimo “Bayou Country”, trascinato dal successo del tormentone “Proud Mary”, i Creedence Clearwater Revival sono chiamati a confermare il grande momento di forma che li ha portati, nel breve volgere di due anni, a diventare uno dei gruppi più richiesti d’America. Capitanati da un ispiratissimo John Fogerty (che, come si vede nella copertina dell’album, assume un ruolo sempre più prominente all’interno della band relegando gli altri componenti nell’ombra) i ragazzi di El Cerrito trovano, in questo disco, la loro dimensione e il loro sound. Non c’è più spazio per maratone chitarristiche o cavalcate dal vago sapore psichedelico, ma solo per canzoni brevi, orecchiabili, incentrate sulla vita di frontiera e insaporite da quel pizzico di impegno socio-politico che non guasta mai. Dal punto di vista strettamente musicale, poi, i Creedence sono di una semplicità disarmante. Giri armonici elementari, arrangiamenti scarni, chitarre asciutte e graffianti, una vocalità ruvida e urticante fanno del disco la colonna sonora ideale per un barbecue all’aperto o per un viaggio in macchina lungo la Route 66.
La ricetta è perfetta. La formula è vincente.
Inciso nell’arco di tre mesi, dal marzo al giugno del 1969, presso i Wally Heider Studios di San Francisco, “Green River” spianerà la strada tanto al grunge quanto al garage-rock, permeato com’è di suoni sporchi e grezzi che, forse, solo gli Stones di “Sticky Fingers” ed “Exile On Main Street” sono riusciti a ricreare. Pochissime sovraincisioni, zero post-produzione; i Creedence incidono quasi in presa diretta, riuscendo a catturare fino all’ultima nota la loro essenza di ragazzotti di provincia capaci di suonare più col cuore che con le mani. Ebbe a dire John Fogerty, produttore e demiurgo del disco: “Tutta questa sovrapproduzione mi fa ridere! Non è che migliora se ci aggiungi della spazzatura!”. Il risultato è un album compatto, dolce e amaro allo stesso tempo, dove a grandiosi e spensierati riff di chitarra si alternano sofferte ballate che mettono in evidenza il lato oscuro della “Summer of love”, fatto di reduci, musicisti falliti e scenari apocalittici. A dispetto dell’apparente leggerezza e del notevole appeal radiofonico di molti dei suoi brani, è un lavoro permeato da una notevole vena di tristezza (basta vedere i titoli della tracklist per rendersene conto) che lascia presagire l’imminente fine della stagione dell’amore e del sogno hippie. Lo stesso Bruce Springsteen deve aver preso appunti quando, attraverso la potenza e l’energia del rock (vedi le varie “Born In The Usa”, “Glory Days” o “Born To Run”) canta il dolore e la frustrazione di innumerevoli loser e il tramonto del sogno americano.
Il viaggio comincia con la splendida title track dove, in un vortice di pesci-gatto, rane-toro e ragazze a piedi nudi che danzano al chiaro di luna, i Creedence offrono la loro personalissima rievocazione della Louisiana e della cultura cajun (peraltro già ampiamente anticipata nel superclassico “Born On The Bayou”). Il rullante gonfio e profondo di Doug “Cosmo” Clifford sostiene implacabilmente il brano, mentre la Rickenbacker di John Fogerty fa faville fornendo il miagolio acuto e penetrante che contrasta col suo cantato caldo e roco. Uno stridulo riff di chitarra accompagnato da una grancassa cadenzata apre “Commotion”, velocissima invettiva dal sapore country sull’alienazione cittadina, fatta di gente che si ignora, traffico impazzito e caos generalizzato. La ritmica poderosa composta dal basso pulsante di Stu Cook e dal drumming torrenziale di Clifford relega quasi in secondo piano le chitarre dei fratelli Fogerty, che si limitano ad abbellire una performance vocale impareggiabile. Il tocco finale è rappresentato da un sapiente uso dell’armonica a bocca che rinforza la struttura nella seconda parte del brano.
Il tema classico della sfortuna, tipico del blues, torna a far capolino nella sferzata elettrica di “Tombstone Shadow”. La chitarra distorta di Tom Fogerty raddoppia efficacemente il basso di Cook, formando una solida base ritmica su cui si innesta alla perfezione il canto rabbioso di John, che cerca di esorcizzare la malasorte che non lo molla un attimo. Zingari, portafortuna, polveri magiche da mettere sul cuscino e sulla porta, vacanze forzate: nulla si può quando si ha un’ombra di morte sulle spalle. L’unica è cantare con tutta la disperazione che si ha in corpo, sperando che la sfiga, mossa a compassione, se ne vada via.
Il reduce del Vietnam, inascoltato, arrestato e imprigionato, costretto a scrivere canzoni per far sentire la sua voce (“Wrote a song for everyone – and I couldn’t ever talk to you”) è il protagonista della splendida “Wrote A Song For Everyone”. Niente assolo folgoranti e ritmi al cardiopalma, ma solo una cupa e implorante ballata in cui John Fogerty, con voce straziante, canta la disperazione di una generazione tormentata e devastata da una guerra non sua. La presa di coscienza, e la conseguente rabbia che ne deriva, portano il protagonista a urlare tutto il suo dolore al fine di far aprire gli occhi della gente (“Saw the people standin’ thousand years in chains. Somebody said it’s diff’rent now, look, it’s just the same”). I suoni si attutiscono, i tempi si dimezzano per cercare di trasmettere quell’idea di impotenza che scaturisce dalla constatazione delle continue ingiustizie sociali e dal crollo degli ideali in cui si è sempre creduto.
Dopo tanta tristezza e splendore, il ritmo indiavolato torna a prendere il sopravvento. Il lato B del disco si apre con uno dei cavalli di battaglia dei Creedence, quella “Bad Moon Rising” protagonista di tutti i live del gruppo e di innumerevoli colonne sonore negli anni a venire (“Un Lupo Mannaro Americano A Londra” e “Il Grande Freddo” tanto per citarne due), oltre che ispirazione per i Sonic Youth dell’omonimo album-cult del 1985. A dispetto del country semplice e spensierato che caratterizza la melodia, il testo è quantomai pessimista ed apocalittico. Le forze della natura si scatenano (“I hear hurricanes a blowing/ I know the end is coming soon/ I fear rivers over flowing/ I hear the voice of rage and ruin”), per punire il genere umano dei suoi peccati (“Hope you are quite prepare to die/ Looks like we’re in for nasty weather/ One eye is taken for an eye). Un vero e proprio giudizio universale, mentre la band continua imperterrita a suonare per divertire noi poveri dannati!
Il pessimismo continua nel ritratto del musicista fallito protagonista della ballata “Lodi” (pronuncia “Low-die”, cittadina californiana nei dintorni di Berkeley), una delle canzoni più popolari del disco. Chitarre affilate e un basso particolarmente asciutto aiutano Fogerty a tratteggiare il ritratto di questo tenero perdente che, dopo aver visto il suo sogno andare in frantumi, si trova costretto a suonare nei locali di una piccola città di provincia per sbarcare il lunario. Il bridge e il cambio di tono all’inizio della terza strofa aiutano a enfatizzare il dramma e l’empatia nei confronti di uno dei tanti sconfitti di cui è piena l’America nixoniana, orgogliosa e nazionalista.
Le radici country dei Creedence si fanno, se possibile, più evidenti nella sincopata “Cross-Tie Walker” che, come suggerisce il titolo, ha nel tema del viaggio il suo fulcro. Un vagare senza meta, senza motivo, senza rimpianti, senza soldi, senza qualcuno da lasciare né qualcuno da trovare, salendo su treni che solcano il paese per il solo gusto di andare. Lo spettro di Woody Guthrie e degli hobos è più presente che mai, sia nell’ispirazione che nella voce di Fogerty, che si trasforma da scatenato performer in un novello Hank Williams. La base strumentale del brano vede la sezione ritmica del gruppo intenta a ricreare l’andatura cadenzata di un convoglio ferroviario (con tanto di scala tonale discendente) mentre la chitarra solista, puntuale e pungente, fornisce una perfetta risposta alla linea vocale principale. Le visioni apocalittiche tornano protagoniste nel rock viscerale di “Sinister Purpose”, il cui titolo lascia ben poco spazio all’immaginazione. Le chitarre si distorcono, la voce si arrochisce per cantare l’amore come unica speranza di salvezza di fronte a un tetro futuro (“Sinister purpose/ knockin’ at your door-come and take my hand”).
Chiude il cerchio un omaggio al blues degli esordi: “The Night Time Is The Right Time”, già portata al successo da Ray Charles e unica cover dell’album. L’arrangiamento e l’interpretazione di questo standard, composto da Napoleon “Nappy” Brown, Ozzie Cadena e Lew Herman, sono straordinari. La chitarra distorta di John apre il brano con un vigore incredibile, mentre la chitarra battente di Tom Fogerty riproduce il percussivo accompagnamento di un pianoforte. Il boogie fornito dal basso di Cook e dalla batteria di Clifford fa il resto. La voce, altissima e potente (praticamente inarrivabile per qualsiasi altro essere umano) è supportata dal coro “wha-doo-day”, in pieno stile doo-wop, cantato all’unisono dal resto della band. Cuore pulsante del brano, lo sfolgorante assolo centrale che vede il suono tagliente della Rickenbacker di John Fogerty distorto e arricchito dal feedback e dall’uso della leva.
Come tutti i grandi gruppi della storia, anche i Creedence Clearwater Revival, hanno avuto degli alti e bassi nella loro produzione. Stabilire quale sia il disco migliore, il più bello, il più famoso o il meglio riuscito è un’operazione assolutamente soggettiva. Faranno ancora faville nei loro lavori successivi quali “Willy And The Poor Boys” o “Cosmo’s Factory”, ma si può senz’altro affermare che “Green River” sia il loro album più sincero. Quello che, più di ogni altro, ha contribuito a diffondere il suono e lo stile Creedence in tutto il mondo. Amore a prima vista… anzi, al primo ascolto!
Antonio Santini for SANREMO.FM