Ian Anderson è stato uno dei personaggi più originali nella storia del rock: plandrana, sguardo indemoniato, movimenti folli sul palco che si armonizzavano alla perfezione con la musica. Era sbracato, sboccato, esagerato (chi ha detto punk ante litteram?), faceva piccole acrobazie (come quella di suonare su una gamba sola). Indossava i cenci di un barbone, interpretava un uomo in cerca di un riscatto morale e cantava testi colmi di doppi sensi, giochi di parole, satira sociale, religiosa e politica. E poi quello strumento in mano: non la chitarra da sempre essenza del rock, Anderson sovverte tutte le regole e col flauto traverso fa quello che nessuno aveva mai fatto prima. Quel flauto lui lo fa genere, urlare, ci soffia, ci sputa e lo strapazza. Lo usa come simbolo fallico.
Lo affiancano musicisti creativi e versatili. Eh sì, fino a un certo punto i Jethro Tull sono stati una vera band, non solo un gruppo di accompagnamento. E che band, nei giorni migliori Martin Barre, John Evan, Barriemore Barlow e Jeffrey Hammond erano incendiari quanto il leader. Poi la musica: i Tull hanno operato una vera rivoluzione. Prima di loro a nessuno era venuto in mente di fondere rock, folk, jazz, blues e musica classica. Esattamente gli stili che il prog si è occupato di amalgamare. Per questo i Jethro Tull vanno visti come i veri antesignani del rock progressivo. Chiaro, come sempre i Beatles lo avevano fatto prima o avevano dato la visione di ciò che si poteva fare (vedi il folk-pop di Norwegian Wood), ma i Jethro Tull aggiungono un’energia senza pari e a volte spingono la loro musica al limite dell’hard. Folk e hard rock sono due correnti opposte che la band di Ian Anderson ha saputo armonizzare in maniera egregia, trovando modo album dopo album di rendere il suono sempre più ricco e sfaccettato.
Come tutti sanno, la parabola dei Tull trova massimo fulgore nel periodo che va dalla fine dei ’60 a tutti i ’70. Ecco quindi una classifica che mette in ordine i loro dischi dell’epoca, da quello eccellente a quello super essenziale.
All’inizio il partner in crime di Anderson è il chitarrista Mick Abrahams, il cui stile blues influenza non poco il primo album. Si avverte distintamente la passione che quel genere porta con sé, ma il disco è tutt’altro che avventuroso. E siccome i Tull ci abitueranno a tanta avventura, il debutto rimane un simpatico preludio di ciò che verrà, che si può presagire nella cover di Serenade to a Cuckoo del jazzista Roland Kirk.
Too Old to Rock’n’Roll: Too Young to Die!
1976
Il nono album dei Tull è un concept su una rock star che non si sente più al passo coi tempi, nonostante l’ancor giovane età. Specchio dell’Anderson ventinovenne dell’epoca che non deve avere mandato giù tanto facilmente il sentirsi dare del vecchio scoreggione dai punk. Se ne fa una ragione e tira fuori una storia piena di ironia, ma di poco interesse per chi desidera brani più articolati. Detto ciò il disco conserva ancora una certa freschezza e la title track, pop song in stile Jethro, è ancora un bel sentire.
Per molti estimatori dei Tull la storia (ovvero i dischi più interessanti) finisce qui, con l’ultimo album degli anni ’70 e l’apparizione finale del bassista John Glascock (che morirà nello stesso anno dopo aver subito un intervento a cuore aperto). Stormwatch, terzo capitolo di una trilogia più folk-prog iniziata con Songs from the Wood, è il lavoro più oscuro e tormentato della band, suona come una minaccia incombente – specchio delle tensioni della Guerra fredda – ben focalizzata in Orion o nei nove minuti di Dark Ages.
I Tull alleggeriscono la musica, si allontanano dai concept prog e tornano a una forma più diretta di canzone. Lo si sente sin dai primi istanti della title track e di Bungle in the Jungle che, molti anni prima che diventasse impellente, affronta il problema del cambiamento climatico. Molti lo considerano leggero, eppure Anderson dimostra di essere enormemente maturato come autore, dando vita a una forma-canzone ricchissima di dettagli.
Il suono si fa più duro e Anderson affina le sue composizioni. Entra il tastierista John Evan (anche se è ancora accreditato come turnista) e la tavolozza si arricchisce di nuovi colori. La sognante With You There to Help Me ricorda quanto i Tull possano essere magici, ma subito dopo ci pensa Alive and Well and Living In a spingersi in trovate ritmiche di stampo prog che troveranno una precisa connotazione da lì a poco.
Minstrel in the Gallery
1975
È l’ultimo album con il bassista Jeffrey Hammond e tenta un mix tra la ritrovata voglia di concisione e le tessiture dei momenti più prog. In questo può essere visto un po’ come un ibrido, non ha la forza delle canzoni di War Child e nemmeno si immerge nel maturo folk-prog come succederà nell’immediato futuro. Riesce però ad ammaliare lo stesso con ballate acustiche e una bella suite arzigogolata come da copione.
Esce Mick Abrahams (che va a formare i Blodwyn Pig) ed entra Martin Barre, destinato a essere la spalla del leader per oltre quarant’anni. Il blues viene messo un po’ da parte a favore del folk. Stand Up si fa ricordare per la straordinaria copertina apribile, con figurine pop-up dei musicisti che si alzano, e per l’aura medieval-prog che tanto piaceva in Italia. Pezzo forte è il riarrangiamento della Bourée di Bach, ma qui dentro c’è anche un piccolo gioiello dimenticato chiamato Reason for Waiting, una delle più struggenti canzoni dei Tull.
Heavy Horses continua nel solco prog-folk di Songs from the Wood, l’ex leader dei Curved Air Darryl Way aggiunge il suo violino frizzante in un paio di brani e lo stile vocale di Anderson si fa tendenzialmente più graffiante. Un paio di numeri più intricati come …And the Mouse Police Never Sleeps e One Brown Mouse fanno la gioia dei proggettari.
Mentre nel Regno Unito imperversa il punk, Anderson e e i suoi fanno i bastian contrari e se ne escono con il disco più folk-prog della loro carriera. Un’opera agreste nella quale si avverte il profumo dei boschi e della legna dopo la pioggia. Come si sa il folk è sempre stato il pane quotidiano dei Tull, ma mai come in questo disco l’influenza si amplia in maniera così esaltante, con 10 brani densi di invenzioni strumentali e l’ausilio di mandolino, liuto e organo a canne.
Un album spesso bistrattato ma unico. Un’opera contorta, oscura e simbolica. Un concept dantesco che narra delle vicende di tale Ronnie Pilgrim alle prese con la morte e il conseguente viaggio ultraterreno tra purgatorio, inferno e paradiso. A Passion Play è composto da una suite in quattro atti divisa in 16 movimenti che si dipanano senza pause. Il flusso è interrotto solo dal bizzarro intermezzo di The Story of the Hare Who Lost His Spectacles, surreale vicenda narrata da Jeffrey Hammond riguardante un gruppo di animali alle prese con lo smarrimento degli occhiali di una lepre. Un Thick as a Brick più enigmatico ed esoterico, ma non meno esaltante.
Con Aqualung va in scena il perfetto amalgama che permette ai Tull di essere credibili sia nei momenti più tesi, sia in quelli delicati, che vengono impreziositi dagli arrangiamenti orchestrali di David Palmer. Ma è sul versante elettrico che il sound del gruppo fa un bel balzo in avanti rispetto ai dischi precedenti. Non a caso il disco è stato registrato negli studi della Island Records di Londra mentre i Led Zeppelin stanno lavorando al loro quarto album. La vicinanza ispira non poco i Jethro Tull che irrobustiscono diverse tracce (vedi la title track) con riff destinati a stamparsi per sempre nella storia del rock. Fanno fede i sette milioni di copie vendute in tutto il mondo.
Se si leggono i testi di questa monumentale canzone lunga 45 minuti ci si ritroverà dento un magnifico tourbillon a base di religione, droga, critica sociale e sesso. Tutto dietro metafora, con ghirigori strumentali tra sezione ritmica, chitarra, tastiere e flauto che sono veri rompicapo. A ciò si alternano oasi melodiche destinate a stamparsi irrimediabilmente nel cuore. Thick as a Brick è in grado di rapire l’ascoltatore e non fargli fare più ritorno sulla terra, tanto è alto il grado di perfezione dal punto di vista di testi, musica, tecnica, arrangiamenti. Occhio infine alla copertina che si apre come un quotidiano, con un sacco di notizie farlocche piene di doppi sensi.
Antonio Santini for SANREMO.FM