Appena lo vedi nella schermata Zoom, dalla sua casa londinese con (ovviamente) una muraglia di dischi e libri alle spalle, pensi “accidenti, anche lui sta invecchiando”. Poi incomincia a parlare – e chiunque lo abbia conosciuto di persona sa quanto può parlare, Thurston Moore – e il signore sessantaseienne con l’aria un po’ stanca e gli occhi segnati torna subito quell’eterno giovane sonico che abbiamo visto in innumerevoli foto, copertine, concerti, video.
L’entusiasmo incontenibile di Thurston Moore quando parla di musica – la sua o di chiunque altro – è la stessa di quel ragazzo diciottenne new in town che pianta le tende nella New York della rivoluzione punk, inaugurando un viaggio che in quasi mezzo secolo lo ha reso uno dei Bodhisattva dell’immaginario noise/alternative/indie rock. Un ragazzo che evidentemente vive ancora dentro di lui, e con il quale si è riconnesso scrivendo il torrenziale memoir Sonic Life (688 pagine nell’edizione italiana di Baldini+Castoldi, traduzione di Fabrizio Coppola). In questi giorni esce anche il nuovo album, Flow Critical Lucidity, l’ennesimo eccellente lavoro che alle sfuriate rumorose e all’atonalità preferisce i toni umbratili di ballate-mantra scritte sul confine tra introversione, riflessività e empatia con l’altro da sé. Inevitabile che la prima domanda – dopo esserci fatti rassicurare sul suo stato di salute: “sto bene, ho questa patologia cronica della fibrillazione atriale ma la tengo sotto controllo, devo limitare spostamenti in aereo e viaggi faticosi ma per il resto tutto ok” – riguardi il rapporto tra parola scritta e quella suonata, ovvero su quanto il libro abbia influenzato, e in un certo senso indirizzato, il lavoro sul disco.
Thurston ci pensa un attimo, guarda in alto, scuote il ciuffo. E parte.
Il disco l’ho composto mentre stavo terminando la stesura del libro. Oddio, “terminando” per modo di dire, poi ci è voluto quasi un anno per l’editing dopo che ne avevo impiegato uno soltanto per scriverlo, era venuto fuori un malloppo da duemila pagine! I brani sono nati tutti sulla scorta di uno stato d’animo contemplativo, in effetti, e questo dipende dal luogo in cui mi trovavo mentre scrivevo sia il memoir che i brani. Sono stato per diversi mesi in una specie di resort per scrittori a La Becque, sul lago di Ginevra. Mi trovavo immerso in questo meraviglioso panorama naturale, stavo per ore al pc chiuso nel mio chalet poi aprivo la finestra e vedevo le montagne, il lago, gli alberi. Adoro posti del genere. Mentre ero lì ho invitato un po’ di gente a lavorare sui demo che stavo buttando giù: Deb Googe, James Sedwards, Wobbly (John Leidecker, nda).
Poi tutto è stato rifinito a Londra, al Total Refreshment Centre. E anche quello è un luogo con vibrazioni particolari, che alla fine sono penetrate nell’album e gli hanno dato forma. Sai, è uno studio small but funky (lasciamo la definizione in inglese perché rende perfettamente l’idea, nda), è stato utilizzato spesso da artisti della International Anthem come gli Irreversible Entanglements e da altri musicisti di area jazz/avantgarde. In quella zona di North London spira quest’aria particolare, c’è una cultura dub sperimentale che sta prendendo piede e che mi ha influenzato parecchio. C’è molto dub nel modo in cui sono state trattate le chitarre, soprattutto in pezzi come New in Town. Volevo sperimentare con suoni un po’ alla Dennis Bovell, quel genere di cose. L’altro plus nel registrare al Total Refreshment Centre è che ho lavorato con Margo Broom (ingegnere del suono e componente delle Big Joanie, band che ha inciso per la Daydream Library Series di Moore e della moglie Eva Prinz, nda). Lei è fantastica, ha una intuitività musicale incredibile.
Hai detto che il suono ha influssi dub, ma ci sono anche diverse suggestioni orientaleggianti, e proprio in brani come New in Town che citavi prima. Non solo per la ripetitività o la circolarità della musica, anche per il timbro del suono che a tratti sembra una tua personale versione della musica cinese…
Capisco cosa intendi. Non che abbia cercato consapevolmente di replicare modalità espressive della musica cinese, ma è un tipo di suono che mi affascina, ha un riverbero dolce e pacificante. In realtà dipende dalle frequenze sulle corde della chitarra quando le suoni sul ponte. Specialmente se stai usando una Jazzmaster! Se poi ci metti sotto un piccolo cilindro o una bacchetta della batteria quell’effetto è ancora più nitido. Ma è tutta questione di frequenze, se suoni le corde in quel modo viene fuori questa specie di alto soprano che è agli antipodi del tipico suono di chitarra indie rock.
Dal punto di vista dei testi, invece, c’è un tema sotteso alle canzoni? Uno mi pare essere quello della memoria, del ruolo della musica negli anni formativi e dell’importanza di condividere questa esperienza con altre persone simili a te…
Sì, certo, quello c’è e ovviamente è un riflesso del libro. Ma c’è anche altro. In ogni disco che ho fatto, da solo, con i Sonic Youth o con altri musicisti, non ho mai cercato di definire in anticipo un filo conduttore. Il tema di un disco viene da sé, in modo spontaneo. Lo riconosci, forse, solo alla fine. Dipende dalle circostanze in cui ti trovi, da chi sei in quel preciso spazio e in quel preciso momento, dalle persone che hai intorno e con le quali stai lavorando e scambiando esperienze. Quello che posso dirti è che non ho quasi mai avvertito un identico rapporto di collegamento totale, e assolutamente spontaneo, con altri musicisti come per questo album. E sono fortunato ad avere Eva come partner nella stesura dei testi, lei riesce a tradurre in parole e in sintesi efficaci quello che mi ronza in testa e che io finisco sempre per spiegare in modo troppo logorroico (ride, nda). In generale, Flow Critical Lucidity parla di connessione tra gli esseri umani, di contemplazione della natura e degli insegnamenti che possiamo trarne, di resistenza e pensiero critico.
Il brano apparentemente più politico è Sans Limites, in cui alla fine compare la voce di Laetitia Sadier
Più che politico direi umanistico, è un invito a non porsi barriere nel pensare il mondo, la nostra relazione con gli altri. Naturalmente i limiti sono anche quelli che la società, questa società capitalista, ci impone, e quindi sì, da quel punto di vista assume anche una connotazione politica. Siamo tutti soldati in una battaglia che dobbiamo combattere, ognuno con le sue armi. La principale, appunto, è la lucidità razionale, lo spirito critico. Per quanto riguarda l’apporto di Laetitia, ero un po’ titubante nel convocarla per farle cantare giusto quelle due parole, “sans limites” nel coro finale, non avrei voluto si offendesse! Ma alla fine sono contento che abbia partecipato, a me il suo contributo sembra essenziale nel dare tono alla canzone.
E poi siamo amici , ci conosciamo da trent’anni, da quando gli Stereolab vennero in tour con i Sonic Youth. Vive a Londra anche lei, ogni tanto ci si vede, è una artista che ammiro molto. È qualcosa che a che fare con il concetto di comunità, di famiglia allargata di musicisti e musiciste dell’area sperimentale, avantgarde, indipendente o come vuoi chiamarla. Ci si dà una mano gli uni con gli altri, insomma. Io stesso ho partecipato al disco di Gina Birch delle Raincoats (I Play My Bass Loud, nda), avrò suonato due note in croce ma nelle note stampa leggevi “featuring Thurston Moore!” come se avessi fatto chissà che.
L’arte della collaborazione e dell’incontro con altri musicisti e artisti è qualcosa che hai sempre praticato. Ce n’è qualcuna che ti ha deluso?
Qualcuna che non ha funzionato e che non ha sviluppato il suo potenziale come avrebbe dovuto sì, non faccio nomi ma c’è stata. A volte penso che mi piacerebbe ripeterle, quelle collaborazioni, per vedere se oggi andrebbero meglio. Ma quello che conta è comunque averci provato. Il dialogo con altri musicisti è fondamentale, tanto più nell’ambito della musica, chiamiamola così, di libera improvvisazione, freeform. Lì è tutto imperniato sul concetto di collaborazione, non ci sono band o gruppi stabili. Esistono regole non scritte: non devi suonare troppo forte o in modo solipsistico, zero virtuosismi altrimenti non riesci a sintonizzarti con chi sta suonando con te. Si compone in tempo reale, non c’è niente di scritto prima. Tutto questo mi ha insegnato molto, è un meccanismo di relazione artistica che amo profondamente. Lo scambio di idee, l’incrocio e quando va bene la fusione dei vocabolari personali, sono cose che mi hanno sempre stimolato ed è sostanzialmente quello che ho sempre cercato nel fare musica.
Poi va bene anche l’approccio opposto, per carità. Puoi chiuderti in soffitta da solo per tre mesi con un 4 piste, o Pro Tools o Garage Band o quello che vuoi, e tirarne fuori cose splendide. Va benissimo. Ma non è il mio approccio. Che poi è l’ideale che mi ha guidato fin da quando ero un ragazzino punk appena arrivato a New York. La band, il gruppo, la gang. La condivisione. Uno degli aspetti che mi affascinavano del punk, da giovane, è che aveva lanciato l’idea delle compilation, sai quelle raccolte con dieci, quindici, venti band sullo stesso disco. Quando i Sonic Youth iniziarono, il mio sogno era finire su una di quelle raccolte. Riuscirci significava essere accettati nella scena. Quella fuori dal mainstream, quella di cui mi sentivo, e mi sento tuttora, parte.
A proposito di scene e di condivisione. Per tanti di noi i Sonic Youth sono stati, oltre che una band amatissima, quasi degli influencer ante litteram. Era incredibile la quantità di musicisti sconosciuti, generi e scene che avete fatto scoprire a chi era ragazzo negli anni ’80 e primi ’90, soltanto parlandone nelle interviste o suonandoci assieme
Ah ah, la parola influencer mi spiazza un po’ ma chi lo sa, si può vedere in quel modo. Vedi, è il discorso di prima. Sono sempre stato ossessionato dalla musica e dall’arte che si genera e esiste al di fuori del mainstream, e quindi diffonderne la conoscenza era ed è per me un impulso irresistibile. Lì, ai margini dell’industria culturale e dell’entertainment, è dove ho sempre voluto essere. Non riesco a scindere l’idea di musica da quella di “resistenza”. A idee sbagliate, al lavaggio del cervello della società capitalistica, alla commercializzazione crassa delle energie più innovative. La musica che ho amato è quella che aveva, e ha, un potenziale di liberazione dall’oppressione.
E quindi in molti casi era per forza di cose anche musica femminista, antirazzista, antifascista. Non perché si limitava agli slogan, ma proprio per la sua natura di musica d’avanguardia. Poteva essere il punk, la psichedelia, la no wave, l’hardcore, il free jazz, l’impro-music, le mille scene indipendenti: non importa, non è mai stata questione di generi ma di spinta propulsiva verso la liberazione.
Hai già fatto diversi riferimenti al Thurston Moore giovane, il che ci porta inevitabilmente a parlare di Sonic Life. Come dicevi, la stesura iniziale del memoir era molto più lunga del già notevole tomo che ne è uscito. C’è qualcosa che rimpiangi di aver dovuto tagliare?
Fosse stato per me Sonic Life avrebbe potuto essere lungo il doppio, ma fortunatamente l’editor mi ha fatto rinsavire (ride, nda). Il fatto è che più che un memoir io l’ho inteso come una riflessione sugli oggetti culturali, sui significanti che hanno costruito la mia visione dell’arte e della musica. Una sorta di guida alla scena in cui mi sono formato, agli artisti che mi hanno fatto da maestri e da guide. La prima volta che si nominano i Sonic Youth è a pagina trecento, tipo. Ma questo perché per me non era fondamentale rendere conto di ogni session o concerto della band, cosa che alla fine non interesserebbe neanche al più accanito dei fans dei Sonic Youth, quanto raccontare quel mondo e spiegare perché per me era fondamentale starci dentro, partecipare a quell’onda di cambiamento.
Solo che così sono finito nell’eccesso opposto, e il rischio è che ne venisse fuori un enorme libro di recensioni. Come quando descrivo ogni singolo set di ogni singola band che aveva partecipato al Noisefest nell’81, o analizzo per venti o trenta pagine di fila le sinfonie chitarristiche di Glenn Branca. Cioè, era una cosa folle. Per cui ho dovuto tagliare parecchio, ma rassicuro tutti: non c’erano rivelazioni epocali o dettagli pruriginosi.
Casualmente ho letto Sonic Life contemporaneamente ad altre due autobiografie di musicisti in qualche modo assimilabili a te per età e estrazione, pur con le dovute differenze stilistiche. Parlo di Steve Wynn e Robyn Hitchcock. Un tratto comune è il modo appassionato in cui raccontate il primo contatto con la musica, quell’appetito vorace e totalizzante per dischi e artisti che poi hanno finito per indirizzare la vostra vita. Cosa che appartiene anche a molti alla mia generazione, di dieci-quindici anni più giovane, e forse ancora a qualcuno di quella successiva. Oggi, tuttavia, a me pare che la musica abbia un po’ perso quel potere incredibile che aveva nel definire il carattere, le aspirazioni, il posto nel mondo di chi ne era appassionato. Al di là del doveroso rifiuto di qualunque atteggiamento paternalistico o saccente nei confronti di chi è giovane oggi, tu cosa ne pensi?
C’è stato un profondo cambiamento di paradigma nella cultura giovanile. Senza dover per forza dare un giudizio, negativo o positivo, oggi è tutto più frazionato, casuale, meno unitario. La musica la puoi trovare ovunque, qualunque cosa registrata negli ultimi cento anni la puoi ascoltare dopo venti secondi di ricerca online. Un po’ diverso, rispetto a quando nel 1973 vedevi una foto di Captain Beefheart su Creem e ti chiedevi “ehi, ma che musica fa questo? Cazzo, ma guardalo!”, per poi renderti conto che gente come lui, o gli Stooges, non passava per radio, non la vedevi in televisione e per trovare un loro disco dovevi sbatterti a cercare negozietti introvabili e che nella tua cittadina provinciale comunque non esistevano. La musica, in un certo senso, ti sfidava. Dovevi inseguirla. E questo creava un rapporto quasi simbiotico. Storie così non possono più accadere. Non è necessariamente un male, non è necessariamente un bene.
Qualche ragazzo sente questi discorsi e magari rimpiange di non vivere nel 1976, pensa che sia romantico scambiarsi per posta le cassette, ma alla grande maggioranza di loro giustamente non gliene frega niente. Vivono il loro tempo e la loro esperienza della musica, e tutto sommato penso che se avessi quindici anni sarei entusiasta di essere adolescente in questo momento storico. Perché ci sono i pericoli, ma anche le opportunità, e se sei giovane vedi soprattutto queste ultime. La tecnologia non ha ucciso l’interesse verso la musica, ha solo cambiato il processo. Ma perché questo dovrebbe importare a una ragazzina come quella con cui parlavo l’altro giorno, che mi citava entusiasta i suoi cantanti preferiti che ascolta su Spotify e YouTube, e che per lei sono importantissimi perché parlano di ciò che le sta a cuore, che nel suo caso sono le tematiche LGBTQ? A ciascuno il proprio mondo. Per quanto mi riguarda, non ho mai ascoltato una canzone in streaming. Sono e resterò per sempre un collezionista di dischi, amo la tangibilità di un oggetto artistico. E poi dai, come si fa a rollare una canna su un disco in streaming? (ride, nda)
Un mio amico che ha un negozio di dischi mi ha raccontato di quando, un giorno in cui eri nella nostra città per un concerto, andasti a fare un po’ di crate-digging da lui. Mi diceva di essere rimasto impressionato dalla tua incredibile conoscenza di musicisti italiani di avanguardia e micro-nicchie nostrane che probabilmente il 99% degli italiani non hanno mai sentito nominare.
Ovunque mi trovi cerco di andare sempre in qualche negozio a caccia di rarità. Molti mi odiano perché ho questa abitudine di tirare fuori i dischi più assurdi e invendibili, e quelli che non compro li metto davanti agli altri nelle vaschette per renderli più visibili (ride, nda). Per quanto riguarda la musica italiana, ci sono tantissime cose che mi piacciono. Soprattutto nell’area del jazz sperimentale e dell’improvvisazione. Negli anni ’60, ’70, ’80 avevate artisti straordinari. Penso ai dischi della Splasch, per esempio, a musicisti come Carlo Actis Dato, Giorgio Gaslini, Andrea Centazzo, il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Ma avete una tradizione unica anche in altri ambiti come l’hardcore, il noise o il metal estremo. Al di là del genere, mi è sempre parso che la musica italiana di quel tipo fosse ancora più radicale di quella che si faceva nel resto dell’Europa continentale. Peccato che la teneste ben nascosta! Ricordo quando nei primi anni ’80 mi capitò di ascoltare No Italia, una compilation di no wave italiana, e con Byron Coley di Forced Exposure ci scambiammo per mesi telefonate chiedendoci reciprocamente “hai trovato dischi di questa band, o di quell’altra? Cazzo, questa roba è fantastica, perché non ne sapevamo niente?”. Ed era tutto introvabile, maledizione. Almeno fino a quando è arrivato il cd, da lì in poi è stato più facile.
E della prima volta che siete venuti a suonare da noi, che ricordi hai?
Un gran casino (ride, nda). Ma era anche entusiasmante, nonostante per noi che arrivavamo dagli States l’Italia di quei tempi fosse un pianeta sconosciuto. C’era un clima effervescente. Ricordo che in un posto in cui suonammo la polizia volle sequestrare dei poster di Raymond Pettibon con la faccia di uno con una maschera da sci ma senza gli occhi e la scritta “terrorist?” sopra. Figurati, con l’aria che tirava in Italia a quei tempi. E sempre a proposito dei Black Flag, non ho mai dimenticato un membro dei Cheetah Chrome Motherfuckers che aveva tatuato il loro logo sul collo, così quando parlava sembrava che si muovesse. Scary! E poi ricordo i bootleg e il merchandise pirata che trovavamo ovunque. Era tutto un po’ anarchico e confusionario, ma divertente. Credo che l’Italia sia cambiata molto, da allora.
Non ne sarei così sicuro. So comunque che hai un legame particolare con il nostro paese, per ragioni famigliari…
Esatto. Mio fratello è sposato da molti anni con un una donna del Molise, vivono in un paesino vicino a Campobasso e vado spesso a trovarli. Questa è la prima estate da tempo immemore in cui non sono riuscito ad andare. La mia idea comunque è che quando mi ritirerò andrò a vivere in Molise e passerò la vecchiaia a suonare noise sotto un ulivo.
Beh, c’è di peggio. La conosci quella vecchia battuta che gira in Italia, su fatto che il Molise non esiste?
Credo sia per quello che mi piaccia.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM