Pensarli come una band, chiamandoli magari “i Thru Collected”, equivarrebbe a snaturare l’essenza del progetto. E tutto sommato anche considerarli tout court una realtà essenzialmente musicale sarebbe improprio. A connotarli non è poi neanche il dato anagrafico, considerato che le diverse età degli artisti coinvolti vanno, più o meno, dai 18 ai 30 anni. L’idea che meglio li ritrae è allora quella del work in progress, del collettivo inteso come sintesi evolutiva di esperienze. Una prima chiave d’approccio all’immaginario e all’estetica del Thru Collected potrebbe trovarsi nel mondo obliquo e distopico di loro cortometraggi come “Dronememorie” e “Il grande fulmine”. La città, la natura, i segni, i corpi sembrano appartenere a un non-tempo (il nostro?) in cui tutte le possibili disillusioni sono già state sperimentate, compresa quella di ripartire da zero, di promettere un futuro o di negarlo. Troppe cose sono accadute perché le parole, i segni, persino la musica possano mantenere il significato di sempre.
In questa specie di incertezza generale, sovraesposta e banalizzata ad opera dei media e di una serie di cliché artistici sempre più ripetitivi, il Thru Collected ha trovato la propria ragione di esistere e resistere. La loro scelta non è underground, non è mainstream, non è generazionale, non si riconosce in uno stile preciso, non ne rifiuta nessuno a prescindere. Tutto si gioca a un livello più profondo. La domanda è su quali siano i compromessi inaccettabili, quali le regole del gioco cui non sottostare mai. Di qui l’invenzione di una forma di unisono all’insegna dell’indipendenza, in cui l’autorialità non è un fatto solo individuale, ma la risultante di un rizoma di urgenze espressive e competenze disparate. C’è la musica, ci sono le installazioni, il videomaking, l’organizzazione di eventi, il marketing, il graphic design. C’è l’ideologia del Do It Yourself inteso come autarchia produttiva, che consenta a ogni componente del collettivo un completo controllo dei propri processi creativi.
La Napoli in cui nasce il Thru Collected è quella ancora snaturata dalla pandemia. Eppure è innegabile che nella comunità virtuale, sempre così demonizzata dalla letteratura sociologica, le indomabili radici linguistiche e musicali partenopee trovano nuovi modi di declinare la loro predisposizione alla internazionalità.
“Discomoneta”, il loro esordio in ambito musicale risalente al 2021, irrompe come un attacco frontale agli stereotipi. Rap, trap, neomelodico, indie, hyper-pop, drum’n’bass, ambient, cantautorato, glitch, tradizione popolare si rincorrono e stratificano, tenendo sempre desta l’attenzione. E non è un caso che “Cantautoraverz”, “Mullet” e “A voc ro padrone” siano canzoni di grande impatto che esprimono spirito partenopeo e cosmopolitismo insieme.
In tutte le tracce si impone la capacità di Specchiopaura, Sano, Alice, Altea e delle altre penne del collettivo nel raccontare gioventù, vita d’artista e società civile, affrontando sempre la complessità di petto, anzi cercandola per farla diventare un fatto introspettivo, un’emozione, un’immagine, un film più o meno mentale. “Discomoneta” ha venti tracce, cui si aggiungono quelle delle quattro release soliste: “Non ti scordar di me” di Altea, “L’industria, il pop, la camera, il sesso” di SANO, “Napoli undercore” di Specchiopaura, “Città dall’alto” di Alice. Il tutto senza compromessi. “Dici ‘cantautoraverz’/Nuje stammo parianno, nn’ce ne fotte d”e labels” è il loro grido di battaglia. Però si può anche cambiare idea se c’è una buona ragione per farlo. In corsa avviene l’incontro con la Bomba Dischi, l’etichetta che ha lanciato Calcutta per intenderci, che li affianca nel gestire il potenziale di un album come “Discomoneta” senza accampare ambizioni di controllo. Sembra una storia editoriale e manageriale d’altri tempi. Il rapporto si concretizza dapprima in un tour nei festival di circuito indipendente, da MI AMI a Indiegeno Festival, da Apolide Festival a Pinewood Festival, da Poplar Festival a Comicon. Protetti ma non troppo, insomma. Ci può stare. Tanto più che un tour di quel tipo in tempi di post-Covid era il primo terreno su cui una etichetta di successo e una realtà indipendente e atipica come il Thru Collected potevano trovare lo spunto per creare qualcosa insieme e conoscersi più a fondo. La conclusione del 2023 ha portato “Il grande fulmine” una scaletta generosa e volutamente fuori misura. Ben trenta pezzi, tutti basati su una scrittura ispirata e tutti validi. Diversi fra loro, ma tenuti insieme da una idea comune di racconto e di performance, più che di suono. Sono trenta pezzi pop, ma fatti di sfumature, di equilibri delicati, di una miriade di dettagli che fanno la differenza. Ascoltarli, recepirli, lasciarsene conquistare è anche un fatto di curiosità e pazienza, ma lo sforzo viene ampiamente ripagato e quello che prende forma è un universo originale, potente, mai gratuito. I contenuti del “Grande fulmine”, pur nel contesto di un discorso che non fa della fruibilità un valore assoluto, riescono a parlare un linguaggio universale. Nelle trenta tracce le diverse componenti dell’odierna infosfera musicale sono presenti in una sorta di paradosso sul quale davvero vale la pena di scommettere.
L’album è stato preannunciato da un video, “Il grande fulmine”, stesso titolo del disco, molto di impatto, che vorrei chiedervi di commentare. L’ambientazione sembra quasi un day after della fine del mondo, era questa la scelta?
L’idea era quella di non insistere su una narrazione specifica, di provare in qualche modo a evocare delle circostanze metaforiche, rimanendo su un piano parallelo rispetto alla realtà. Il grande fulmine è un evento che cambia la vita di tutti, che può essere fisico, interiore, spirituale, geologico. Nel cortometraggio il fatto che la natura sia distorta, imprevedibile, induce i ragazzi a sviluppare nuovi metodi sia per comunicare tra di loro sia per interagire con questo mondo sconvolto. I massi che si vedono fluttuare rappresentano la società moderna, quindi anche le nostre abitudini di consumo, il fatto che tutto diventi poi subito materiale di scarto. L’accozzaglia di oggetti elettronici rappresenta noi, questo mondo che funziona a corrente. Nello stesso tempo le immagini alludono alla necessità di affrontare gli imprevisti uniti, anche assumendosi il rischio di cadere tutti insieme, come accade nel video con un twist pessimistico a un certo punto. Quella caduta rappresenta la sensazione di impotenza davanti a dei sistemi che sono allo stesso tempo così imponenti e così in crisi.
Considerato che nel video ci sono, interpolati nel contesto narrativo, dei pezzi tratti dal disco, viene da pensare che anche quest’ultimo voglia parlare di resistenza culturale. Che ne dite?
“Il grande fulmine” è una citazione di un pezzo di Specchiopaura sul primo disco, “Giardino”. Quando accade qualcosa che rivoluziona il tuo modo di esistere, è necessaria una presa di coscienza, un plus di determinazione. Il fatto che il disco sia così, diciamo, denso di tracce manifesta il desiderio di osare contenuti che richiedano un impegno nella fruizione, scoraggiando un approccio superficiale alla nostra musica e sollecitandone invece uno più attivo.
Rispetto a “Discomoneta”, che aveva un orientamento più elettronico in senso stretto, nel nuovo album vengono fuori altre ispirazioni, per esempio wave, cantautorale eccetera, l’elenco sarebbe lungo. Queste anime differenti sono legate ad altrettanti team produttivi che nascono da combinazioni diverse fra voi, o man mano convergete su ogni risultato tutti insieme?
Entrambe le cose. Anche perché il tempo di elaborazione è stato lungo e siamo arrivati a nuove conclusioni sia su come esprimerci, sia come stile di suono. Il fatto che nel collettivo siano entrati un batterista e un bassista-chitarrista ha influito sul sound. Anche nel primo disco c’erano delle componenti, per esempio, post-rock, ma erano più processate, nel nuovo album ci sono sia strumenti resi irriconoscibili, sia timbri più canonici.
Rimane il filo rosso della critica all’industria discografica, alla “musica di merda”, per usare parole vostre
Sì, anche se ormai ci stiamo praticamente facendo i conti…
Infatti… Disco Moneta lo avete fatto da soli, e poi è subentrata Bomba. Questa volta invece siete stati seguiti passo dopo passo dal primo momento. Come sta andando?
I discografici non sono mai entrati troppo nel merito del processo creativo. La loro idea è stata quella di darci piena libertà creativa e nello stesso tempo un supporto organizzativo valido. Intendiamoci, non è che non abbiamo bisogno di niente per definizione, è solo che siamo in tredici. C’è chi fa i video, chi i mix, chi i master, chi le produzioni, chi canta. Il tema era come coordinare tutte queste energie.
Avete presentato il video in tre diverse situazioni, tutte molto interessanti: a Napoli presso Quartiere Intelligente, a Roma presso La Redazione di Scomodo e a Milano al Dopo? Space. È stato annunciato un club tour che partirà dai Magazzini Generali di Milano, per poi toccare Torino, Bologna, Napoli e Roma, siete parte del cast del MIAMI Fest itinerante previsto per la primavera. Come sarà il vostro spettacolo?
Certamente non è facile portare un collettivo come il nostro su qualsiasi palco. Però abbiamo l’ambizione di performare il disco nel modo più completo possibile. Sarebbe bello eseguire gli arrangiamenti nella loro forma ibrida fra acustico, elettrico ed elettronico, così come sono stati concepiti. Essere in tredici sul palco significa per noi portare alla luce del sole quello che succede in studio, oppure in casa nei momenti in cui si è tutti insieme. Vorremmo restituire quella naturalezza e fluidità che danno la libertà a ognuno di contribuire seguendo l’impulso. Spesso, per esempio, quando suoniamo live, tutti i cantanti sono sul palco con i microfoni accesi e ci sono interventi estemporanei di voce. L’interazione può riguardare anche la parte visual dello show. Ci stiamo lavorando.
I vostri pezzi nascono soprattutto al Buco studio, lo spazio professionale che gestite, o in altre situazioni di vita comunitaria?
Entrambe le cose, anche se i momenti in cui si vive insieme, senza seguire uno schema di lavoro, sono quelli in cui nascono i contenuti più interessanti. Per questo disco, ad esempio, abbiamo avuto la fortuna di essere ospitati da un amico a Ostuni per una settimana e in quella occasione abbiamo messo a terra tante demo che poi sono diventati pezzi del disco. Anche il resto del materiale comunque proviene da momenti di creatività collettiva viscerale. Il Buco Studio ci dà la possibilità di registrare qualunque strumento in autonomia, ma la composizione dei pezzi nasce in situazioni meno regolate.
Parliamo un attimo di Napoli. Vi sentite legati alle tante tradizioni della vostra città, compresa quella dell’underground napoletano nei vari decenni?
In qualche modo, ineluttabilmente, ne siamo figli. Ci appartiene anche il passato riguardante l’underground di Napoli, sia dal punto di vista musicale, sia iconografico. Fatta eccezione per Altea, che è nata e cresciuta in Puglia, tutti noi siamo cresciuti a Napoli, o nel centro storico, o nell’hinterland. Non si tratta di una influenza, quanto piuttosto del fatto che siamo parte integrante di un mondo e viceversa. E non dimentichiamo che Napoli è anche più universalmente Sud Italia, quando si parla di vitalità, di energia, di immagini, di tutta una serie di elementi che possono sembrare banali e invece sono essenziali, accomunano le persone e le rappresentano. In tutto questo metteremmo non solo l’underground, o una certa scena musicale napoletana, o salentina, o meridionale in genere, parleremmo più in generale di un modo di sentire le cose influenzato dalle narrazioni, anche contraddittorie, del Meridione.
Quindi come avete vissuto tutto il rilancio di interesse che c’è stato nei confronti di Napoli negli ultimi anni?
Qualunque tipo di rivalutazione di Napoli è un fenomeno che avviene in maniera abbastanza ciclica. Quando si parla dei grossi numeri, il problema è che a trarre benefici dall’indotto economico che si crea sono solo determinate categorie di imprenditori e la ricchezza non viene redistribuita sul territorio. Le migliorie non vanno a sistema. Per questo non ci sentiamo di raccontare una rinascita di Napoli che in realtà non viviamo affatto come tale.
In realtà non mi riferivo ai dati turistici, né all’immaginario televiivo o cinematografico, sul quale vi avranno fatto domande in molti. Parlavo di musica e in particolare di artisti di estrazione più vicina al vostro mondo, che improvvisamente sono arrivati a grandi numeri, prendi l’esempio dei Nu Genea, o dello stesso Liberato.
Noi in realtà abbiamo la sfortuna, o forse quella che consideriamo una fortuna, di non rispondere al canone musicale napoletano, nel senso che, a parte l’utilizzo del dialetto, le nostre influenze vengono da mondi eterogenei, che vanno da Burial a De André, da João Gilberto ad Aphex Twin, dai Radiohead al folk salentino. Forse se avessimo un sound più napoletano in senso stretto, saremmo sovraeposti anche noi, ma non è quello che cerchiamo. Ci interessa piuttosto una napoletanità di rottura, lontana dalle semplificazioni e attenta invece a recepire complessità e contraddizioni.
In “Piccolo atto di sensibilizzazione al libero pensiero” dite che “i nemici si incontrano nel sonno/ hanno un sorriso largo e poca voglia di parlare”. Vi sentite politicamente impegnati?
Siamo insofferenti alle categorie. Fra due possibilità, quella che ci interessa è sempre la terza. Sentiamo forte l’esigenza di non appartenere a delle confezioni precostituite, aderendo acriticamente a scelte già fatte da altri. Un pensiero è veramente libero quando non si lascia condizionare nemmeno dalle cose che in prima battuta sembrano le più moralmente accettabili. Il titolo della canzone è una sorta di provocazione sull’ipocrisia di sentirsi sempre buoni solo per il fatto di appartenere a un gruppo di pensiero definito come la parte sana, quella sicuramente giusta.
Dalla politica all’amore. In “19” c’è l’immagine dell’addormentarsi “Testa e piedi/ Piedi e testa/ Per contemplare l’anonima sorpresa”, che mi è sembrata una sorta di rimando a due posizioni fetali, come se due amanti rinascessero addormentandosi insieme. A cosa allude in realtà il ritornello?
È molto bella l’interpretazione che hai dato. Siamo partiti dalla descrizione di una postura fisica, che però ovviamente si apre a valenze metaforiche, astratte, che riguardano la vita in modo universale. Chi ascolta potrà trovarci il significato, o i significati che lo toccano più da vicino.
Nei vostri testi usate moltissime immagini lontane dalla quotidianità, o che parlano del quotidiano in un modo spiazzante, a volte quasi visionario. Da cosa nasce questa esigenza?
Dal desiderio di arrivare in profondità alle persone, ambire a dei tratti comuni emotivi. Se nelle descrizioni non sei didascalico, ma ti affidi all’istinto di evocare tramite immagini, tutto, anche la descrizione di un rapporto di coppia, diventa più potente e universale. I nostri testi nascono spesso dalle domande che ci facciamo in seguito alle piccole cose che ci accadono. Scrivendo, però, gli interrogativi diventano sempre più esistenziali, più profondi. La musica ci interessa come esigenza espressiva e momento di confronto con chi ci ascolta.
Un mondo così ambizioso e multiforme, in cui più che la singola traccia conta il discorso nel suo insieme, non è ancora mai stato messo su supporto fisico. Almeno fino ad ora. “Il grande fulmine” uscirà anche su disco?
Pubblicare un album di trenta tracce non è molto semplice, però i nostri amici di Bomba sono dei grandi professionisti del settore e poi nel collettivo c’è chi può occuparsi dei master e delle grafiche… quindi potrebbe starci l’idea di un vinile, che a questo punto sarebbe triplo, giusto per non farci mancare niente…
Antonio Santini for SANREMO.FM