voto
7.0
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Il progressive rock è un genere piuttosto di nicchia nella comunità hard’n’heavy e spesso si pone in un limbo non troppo definito ed equidistante tanto dai virtuosismi più melodici di band come Dream Theater, Symphony X o Periphery quanto dalle sonorità più brutali e ferine di gruppi come Meshuggah o Opeth.
Negli ultimi anni si è tuttavia venuto a creare un ecosistema, in fase di espansione, che raccoglie una moltitudine di artisti che esprimono il loro talento musicale enfatizzando aspetti più vicini alla musica elettronica mescolata con armonie ampie, spesso fumose e fortemente influenzate dalla scena neo-prog britannica degli anni Ottanta.
Questo trend all’interno della scena ha dato alla luce, nel corso degli anni, ad una compagine composta da colossi come Porcupine Tree, Katatonia dell’ultimo periodo, Pain Of Salvation, Transatlantic e, ovviamente, The Pineapple Thief – la band capeggiata da Bruce Soord che ha di recente rilasciato il sedicesimo studio album, dal titolo “It Leads To This”.
L’ultima release dei Nostri arriva all’ascoltatore come un buon lavoro, compatto e ben prodotto da un’etichetta come la Kscope, che da anni si focalizza su band appartenenti al filone progressive rock. L’opera risulta ineccepibile dal punto di vista musicale, specialmente considerando l’altissimo calibro dei musicisti coinvolti, e si rimane sorpresi davanti ad un missaggio che enfatizza magistralmente le dinamiche sonore al fine di trasportare l’ascoltatore in un mondo plasmato appositamente intorno all’album.
Un buon esempio di questa cura maniacale per il suono viene proposto sin dalla traccia di apertura, “Put It Right”, che nasce con un duetto tra la voce calda di Soord adagiata su un minimale giro di pianoforte a cui si accodano, passo dopo passo, gli altri strumenti, quasi a creare una processione di apertura per l’album: il risultato è decisamente elegante, particolare e quantomai lontano dalle ‘aperture col botto’ che spesso siamo abituati a sentire.
L’enorme peso del talento dei musicisti coinvolti nel progetto si fa sentire invece in pezzi come “Rubicon” che si colloca sulla sponda opposta rispetto al brano di inizio e punta molto su un corposo riff di chitarra e un basso martellante, quasi industrial. Una leggenda della batteria come Gavin Harrison è di certo il protagonista della traccia e mostra l’impatto che una personalità poliedrica come la sua può avere. Proprio la batteria è forse uno degli elementi più interessanti del brano, che cresce e si evolve direttamente sull’ascoltatore e mette in mostra le capacità tecniche di un percussionista estremamente versatile e capace di performare a livelli stratosferici indipendentemente dal genere suonato; dal pop di Claudio Baglioni (!), con cui collabora da anni, al prog dei Porcupine Tree, di cui è un membro ormai illustre da tre decadi.
Un altro aspetto interessante della musica dei The Pineapple Thief è l’attenzione posta nei primi secondi dei brani proposti, che fa spesso da antipasto in grado di denotare il microclima dell’intera canzone. “The Frost”, il miglior pezzo dell’album, ad opinione di chi scrive, è un ottimo esempio di questo approccio e pone l’accento su un musicalissimo intro di chitarra che si apre in un solido ritornello rock. Il brano figurerebbe magistralmente come pezzo di apertura per un live ed è accompagnato da un video girato – a buon ragione, visto il titolo – tra le meravigliose e gelide coste islandesi.
Molto interessante anche il ruolo ricoperto dallo storytelling all’interno di brani come “Every Trace Of Us”, scelto come secondo singolo e accompagnato da un video alquanto onirico girato, tramite l’ausilio di intelligenza artificiale, in un piccolo paese statunitense non ben collocato dal punto di vista temporale. In questo brano lo sviluppo della storia e dei suoi personaggi si amalgama piuttosto bene con il testo e regala un pezzo globalmente interessante, magistralmente suonato ma non originalissimo sotto il profilo musicale.
La mancanza di originalità è forse la pecca maggiore di questo ultimo lavoro discografico della band inglese. Pezzi come la title-track, ad esempio, risultano un po’ piatti e non troppo articolati, quasi rappresentassero il mancato sfogo di un enorme talento che fatica ad esplodere; aspetto, questo, che lascia un po’ di amaro in bocca oltre che regalare a diversi brani una connotazione piuttosto anonima. Ascoltando le linee melodiche spesso simili tra loro, si ha quasi l’impressione di essere davanti ad un album che avrebbe dovuto essere presentato come un concept ma che non è stato mai annunciato come tale, con molti momenti che tendono a somigliarsi danno un forte senso di leitmotif che, se non contestualizzato opportunamente, trasforma l’esperienza musicale in qualcosa di facilmente dimenticabile. Questa è la principale pecca di un lavoro complessivamente e qualitativamente buono ma che resta un prodotto di nicchia, destinato gli appassionati di band come Porcupine Tree, Leprous e compagnia bella.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM