voto
9.0
- Band:
THE GOD MACHINE - Durata: 01:17:46
- Disponibile dal: 01/01/1993
- Etichetta:
- Fiction Records
Esistono molte band in grado di angosciarci all’ascolto, o di trasmettere un senso di profondo esistenzialismo. Ma poche band hanno messo in musica la tormentata seduta psicanalitica rappresentata da “Scenes From The Second Storey” dei The God Machine.
Forse era già tutto scritto nelle loro scelte di vita: Robin Proper-Sheppard (chitarra/voce), Jimmy Fernandez (basso) e Ronald Austin (batteria), originari di San Diego, scelgono di spostarsi a vivere a Londra, lasciandosi alle spalle il chitarrista Albert Amman, membro fondatore della loro precedente incarnazione (i Society Line) e il sole della California; un cambio che significava, pur nella testa di tre musicisti al tempo anonimi, la rinuncia agli ultimi vagiti del grunge, al testosterone del groove (metal o rock, poco importa) e all’interesse verso un mondo musicale che poco poteva spartire, evidentemente, con “The Golden State”. Ma che anche con l’ascendente stella del brit pop avrà ben poco a che fare. Il percorso del trio, infatti, unisce moltissime ascendenze del passato ma anche diversi elementi di band coeve, ovviamente quelle che non avevano troppa ansia di restare nell’alveo di sottogeneri definiti; sono gli anni in cui si parla semplicemente di alternative (rock o metal, poco importa), e così possiamo trovare nella loro produzione dark, qualche asprezza grunge, psichedelia, crossover nel senso più assoluto del termine – compresa una non indifferente verve cantautoriale –, ma anche la pesantezza dei Neurosis, con cui condivisero diversi concerti, i riff grassi degli Helmet, un forte substrato noise, il post rock e pulsioni slowgaze. Insomma, tutto quello che poteva servire affinché tra il 1992 e il 1994 ci potessero donare due dischi mastodontici, certo intensi e faticosi, ma con una potenza espressiva e una capacità di costringerci di fronte allo stereo fino al momento delle lacrime o di una profonda sensazione di disturbo.
“Scenes From The Second Storey” è il loro primo full-length, un passo a cui arrivano dopo due anni di intense attività live e la pubblicazione di ben tre EP, che per buona parte anticipavano il contenuto di questo disco, che nell’insieme supera l’ora e un quarto di durata senza perdere mai di intensità. Si parte con “The Dream Machine”, un richiamo alla macchina esperienziale costruita da Gysin e spesso citata da Burroughs: gli stimoli si spostano qui dal nervo ottico ai timpani in un crescendo che unisce chitarre possenti, una batteria ipnotica e dilatazioni tra post rock e psichedelia, con la voce di Robin insieme sferzante e gelida. La successiva “She Said” può rimandare a certe cose dei primi Therapy?, con un marcato gusto melodico, ritornelli acidissimi e un finale quasi urlato che intensifica un senso di dolore profondo. “The Blind Man” offre un momentaneo, necessario respiro, anche se la chitarra arpeggiata e la voce sussurrata che la guida per buona parte – prima della trasformazione in una curiosa forma di doom rock – non hanno nulla di rassicurante: è un altro grido di dolore, rafforzato dalla sfuriata noise sul finale. “I’ve Seen The Man” è praticamente il negativo del brano precedente, molto più ritmata ma sempre oscura e deprimente: il cieco (verso la vita) diventa qui anche incapace di qualunque iniziativa (“I stand dead in the centre with nothing at all / But a head full of shit”) e così la delicata e suadente “The Desert Song” sembra quasi una marcia funebre, con il passo segnato dalla solita ammaliante batteria di Austin e non pochi richiami ai Cure più lisergici di “The Top” e dintorni. “Home” si apre con un campione di “Le Mystère Des Voix Bulgares”, curiosamente utilizzato dai Neurosis nello stesso anno (e già nel 1992 da Elio E Le Storie Tese), ed è forse il pezzo più apertamente metal del lotto, con rimandi ai Tool più quadrati; band che muoveva i primi passi nello stesso momento, condividendo con The God Machine un senso di oppressiva alienazione. Sensazione che prosegue nella successiva “It’s All Over”, sebbene su coordinate più delicate, con il suo arpeggio soave e insieme straziante, mentre “Temptation” è puro noise – e quanto proseguono i potenziali paralleli con la band di Maynard Keenan! “Out” ha di nuovo una chitarra arpeggiata e squillante a guidarci in un crescente muro sonoro che delinea un cammino di puro spaesamento e che si conclude in un disperato urlo di chi cerca la pace nel modo estremo. “Ego” è forse il secondo e ultimo momento di respiro del disco, tutt’altro che banale nel suo equilibrio tra una linea di basso mirabile, sferzate di chitarra e afflati quasi etnici, prima di un trittico che ha dell’incredibile: “Seven” è un mastodonte di oltre un quarto d’ora che unisce dark, prog, no wave senza soluzione di continuità, come un uno-due di diretto in faccia e gancio allo stomaco da parte di un peso massimo, prima dell’apice compositivo assoluto della band. “Purity” é due brani in uno, un avvio melodico con tanto di archi sublimi, che cela solo per qualche minuto l’angoscia infinita di sole tre strofe più rumorose e dolorosissime nel loro significato profondo: il dualismo tra la ricerca di un senso, forse di un amore, e l’ineluttabilità della delusione, della fine: “It’s the same all over / You were never there”. “The Piano Song”, non a sorpresa dato il titolo, è un’elegia finale perfetta. Un brano delicato, meno stratificato rispetto a quanto sentito prima, eppure emozionante, che si muove su territori a cui ci abitueranno solo dieci-quindici anni dopo band come gli Anathema, e che conferma capacità compositiva e tecnica rare, così come la cura della band nel manipolare e integrare suoni lontani.
Alla fine del viaggio, oltre alle band citate qua e là, avrete sentori di Swans, di Shellac, di Talk Talk dell’ultimo disco, insomma di tutte quelle band che, nello stesso periodo, hanno provato ad estendere confini musicali eretti inutilmente. E che, tornando a come abbiamo aperto questa recensione, nel fade out del breve strumentale finale, lascia un singulto interiore di rara intensità.
Il secondo album, “One Last Laugh In A Place Of Dying”, per molti è persino più maturo: sicuramente non ha meno fascino, ma l’effetto meno sfolgorante e qualche cessione a un sound vagamente più ‘commerciale’ ci spinge a dire che il capolavoro non è stato replicato al 100%. E, purtroppo, non ci sarà mai, nella storia della band, il fatidico appuntamento con il terzo disco: mentre questo è in corso di registrazione, difatti, Jimmy Fernandez viene colpito da un’emorragia cerebrale fulminante. Il titolo diventa così un manifesto sconvolgente, avvolto più da un senso di smarrimento che da cinismo, anche perché il secondo è un sentimento che non viene da pensare potesse appartenere a una band in grado di toccare corde così profonde. A seguire Proper-Sheppard fondò una sua etichetta (The Flower Shop Recordings, nota principalmente per aver lanciato Swervedriver, Elysian Fields e le band dello stesso Robin) e riprese a suonare con i Sophia: un punto saldo dell’indie rock, in cui però gli abrasivi muri sonori dei The God Machine vengono sostituiti da atmosfere più rarefatte, accostabili allo slowcore o, in maniera più generalista, al post rock.
Il miracolo è insomma finito da quasi trent’anni, ma il fascino di questa band non è legato solo alla tragedia che l’ha colpita, quanto alla capacità di raccontare la tragedia della vita di ciascuno di noi.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM