voto
8.0
Gli inclassificabili hanno sempre un posticino nel nostro cuore, e quando la loro storia si conclude in modo un po’ malinconico come in questo caso, sale anche un filo di rammarico, come per tutte quelle storie che si interrompono sul più bello e si vorrebbe invece che proseguissero.
“FINE” è, appunto, la fine dei The Disgrazia Legend, l’album postumo di una formazione che ha percorso una lunga strada, più scorrazzando in giro per l’Europa che non in studio; è un epitaffio che probabilmente tale non avrebbe voluto essere, in partenza, ma, dati alcuni accadimenti in seno al gruppo milanese (di cui per ora non abbiamo notizie più precise), si è rivelato essere il suo lascito finale.
È una lunga, operosa, storia underground, quella dei The Disgrazia Legend: una compagine che possiamo incasellare nel frastagliato filone del noise rock, vissuta per conto proprio in una dimensione personale e menefreghista dei generi e delle facili classificazioni. Un’anima raminga, quella della band, intimista e cerebrale, come “FINE” ben ci fa comprendere, all’interno di otto tracce tanto dense emotivamente, sottilmente plumbee e misteriose, quanto sfuggenti.
Si parte dallo screamo e dal punk/hardcore, in un germogliare di suoni che prende quasi sempre una piega anomala, conducendo a un delicato e complesso gioco di dissonanze, tensioni e aperture emotive, ondeggiando tra ritmi ipnotici e qualche scarica di rabbia. Nei The Disgrazia Legend ci sono spunti riconoscibili, quelli che segnano l’appartenenza a un filone, solo che l’interpretazione va altrove, presentandoci qualche appiglio con Refused o At The Drive In, in un’ottica più scarna ed intimista. I suoni non sono mai invasivi, piuttosto minimali e malinconici, come se l’anima da adepti del punk/hardcore fosse in perenne conflitto con quella di amari cantori, di crooner intristiti e dimessi.
“FINE” nei primi ascolti può sembrare veramente un oggetto misterioso, sconnesso, privo com’è di una linearità d’azione e di momenti di vero comfort, o punti dove si scatena un’energia liberatoria. Al contrario, siamo in mezzo a un racconto a più voci, doloroso e labirintico, sospeso in una perenne, fievole luce autunnale. Si intersecano dissonanze e arpeggiati, chitarre taglienti e liquide, a segnare momenti ora più funesti, ora più riflessivi.
È meticoloso e variegato anche il lavoro ritmico, anche questo poco invadente, tendente a sua volta a far aleggiare una sensazione di oscurità lieve, una penombra dell’anima che diventa addirittura solenne in alcuni tratti, tipo nell’ultima parte di “Glimpse Of A Man”, tormentata di voci spettrali e colpi di batteria evocanti un mesto cerimoniale. Qui è notevole il contributo vocale dell’ospite Cornelia Schmitt, senza la quale tale brano non avrebbe avuto lo stesso impatto.
Ogni traccia segue una sua storia all’interno di un frastagliato disegno complessivo, tra ricami nostalgici che possono sapere di shoegaze e un pulsare di tristezza che, e sarà forse un accostamento stravagante, nei suoi attimi più lievi e distesi pare provenire da dei Klimt 1918 virati in un contesto screamo (valga su tutte a tale dimostrazione la delicatezza di “Sailing To Noloi”).
In effetti, è proprio quando i cinque la prendono larga e si buttano su andamenti avvolgenti e meno nervosi che spiccano il volo: in questo mescolarsi di rabbia sottotraccia, sfoghi emotivi e sofferenza si avverte perfino un certo epos, come un innalzamento della propria battaglia interiore, qualsiasi essa sia, a un livello più alto. Pensiamo in questo caso a “Tarab Of Independence”, veramente vibrante col passare dei minuti.
Quello che inizialmente può parere un freno, ossia la struttura ondivaga e non ben chiara delle singole tracce, diviene col passare del tempo un elemento imprescindibile, perché addentrandosi negli ascolti le canzoni paiono arricchirsi di particolari, spunta qualcosa di nuovo e di inaspettato. Una “Anna Against Mimnermus” potrebbe anche non colpire subito, è ermetica, torbidamente contorta, divisa in tante piccole sezioni: invece si rivela essere uno dei migliori episodi di “FINE”.
È un peccato che un disco simile arrivi a giochi fatti, senza la possibilità di essere suonato live, di avere un seguito, poter diffondersi più ampiamente. “FINE” è probabilmente troppo strano e poco diretto per farsi amare oltre la cerchia di chi segue il post-hardcore e il noise più sperimentale: l’invito è comunque quello di provarci, a dialogare con un album simile, se ne potrebbero ricavare delle emozioni inaspettate.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM