Devo confidare che quando intravidi per la prima volta, ancora prima dell’uscita ufficiale, l’immagine di copertina di “Terrapath”, l’album d’esordio dei Plantoid, mi tornarono subito in mente i racconti di coloro i quali, soprattutto negli anni 70, acquistavano i dischi a scatola chiusa, solo grazie all’impatto derivato dai disegni o dalle fotografie impresse sulla cover del disco, in quel periodo, molto spesso, vere e proprie opere d’arte.
Fu proprio questo lo strano meccanismo che mi portò ad appuntare il nominativo del quartetto originario di Brighton nel taccuino delle uscite da tenere d’occhio: una motivazione, se vogliamo, poco attinente all’effettiva funzione di chi recensisce musica, ma tant’è.
Ho poi scoperto che quel misterioso disegno raffigurante una gigantesca pianta-astronave aliena, con al suo fianco un indefinito individuo girato di spalle, entrambi posti all’interno di uno scenario nebuloso che potrebbe tranquillamente essere la copertina di una delle storiche effigi dei volumi fantascientifici Urania, è stato realizzato con il software AI Midjourney. Come cambiano i tempi.
Fortunatamente l’uscita di “Dog’s Life”, il primo singolo distribuito dalla formazione inglese lo scorso agosto, andò a rinfrancare quelle mie embrionali avvisaglie d’interesse. Il brano è euforico, corposo, fonde progressive-rock a psichedelia, hard e space-rock a fragranze jazz, con forti richiami alle scorribande tipiche dei monumentali Gentle Giant e va confermando tutte le mie tesi iniziali: l’arte figurativa può finalmente essere accoppiata a quella musicale e le connessioni tra le due espressioni sembrano anche viaggiare verso la stessa direzione.
Le staffilate chitarristiche di Thomas Coyne, la base ritmica costituita da Bernardo Larisch (basso) e Louis Bradshaw (batteria), vanno a immedesimarsi nell’eterea vocalità emanata da Chloë Spence (autrice dei testi) in un tutt’uno di notevole impatto. Le strutture cangianti del brano precedente, con i riconvocati riferimenti alle gloriose pagine seventies, si presentano ancor più poderose e pirotecniche in “Pressure”, altra traccia distribuita in anteprima, mentre la successiva “Modulator” offre effluvi più ammiccanti, stratificati verso un jazz-progressive che possiede nelle ritmiche dispari la propria caratteristica più stuzzicante.
“Terrapath” erra continuamente tra lunghe suite strumentali animate da tutte queste vibrazioni. Passaggi quali “Is That You?”, “Wander/Wonder” e “Insomniac (Don’t Worry)” regalano sprazzi di genialità e governata improvvisazione.
Non mancano episodi dove questi ingredienti cercano ristoro in atmosfere più intime, raccolte, quali “Only When I’m Thinking” e l’eccellente “Softly Speaking”, dove le melliflue ambientazioni folk e chamber-pop trovano nell’incorporea voce della Spence la propria musa ispiratrice.
Un altro aspetto interessante è riferito al fatto che la proposta dei nostri è stata realizzata quasi totalmente in presa diretta. Il produttore Nathan Ridley ha arrangiato il tutto prevedendo pochissime sovraincisioni, a dispetto di ciò che potrebbe tradire una miscellanea così articolata e multiforme, per un’esperienza che in ambito live (hanno aperto recentemente i concerti di Squid e Water From Your Eyes) garantisce la totale conservazione del fascino scaturito dall’ascolto in studio.
Gustando “Terrapath” nella sua interezza, è come se ci si addentrasse in un mondo immaginario, quello ideato dai Plantoid, dove varie arti cercano di confluire in un unico messaggio, volto a fare breccia nella mente dell’ascoltatore con minuziosi dettagli che faranno la gioia degli appassionati più esigenti.
Come accennato, le influenze sono molteplici, ma il risultato finale è qualcosa di inatteso e alquanto originale, dove la somma delle parti porta a un risultato che supera il freddo calcolo matematico. Lasciamoci, quindi, trasportare in questo pianeta alieno, al quale nessun essere umano sembra aver fatto accesso prima d’ora.
14/02/2024
Antonio Santini for SANREMO.FM