Che cosa si può dire ancora del gruppo rock migliore che abbiamo in Italia, che nel caso vi sia sfuggito risponde al nome di Calibro 35? Come la racconti una band che non ha mai sbagliato un colpo? Che domande fai a quattro musicisti che rischiamo di dare per scontati? Se in questo tempo al contrario ai musicisti mediocri vengono fatte solo domande benevole, tanto vale far domande malevole a quelli bravi. È quel che ho deciso di fare coi Calibro. Domande non pretestuose, ma con un contenuto minimo di provocazione per suscitare una reazione vera e non risposte di rito.
L’occasione per incontrarli è Exploration, che rappresenta una sorta di ritorno alla funzione originaria dei Calibro. Arriva dopo la doppia partita a scacchi col maestro Morricone e dopo l’album di pezzi originali Nouvelles Aventures. È per l’80% una nuova esilarante raccolta di furti con scasso di ritmi, melodie e armonie e per il 20% un lavoro che può stimolare la nostalgia degli anni ’80 degli over qualcosa dopo una bella dose di musiche provenienti dai decenni precedenti e meno leggere di queste. È anche un disco in cui la band si apre come mai prima a riletture di pezzi internazionali e all’ibrido jazz-funk anticipato dall’EP Jazzploitation.
Eccomi allora nello studio milanese di Tommaso Colliva, che com’è noto è il membro-non-suonante del gruppo. Con lui ci sono Massimo Martellotta e Fabio Rondanini, in collegamento video Enrico Gabrielli. Sono quattro contro uno, ma ormai ho deciso: parto con la mia intervista diciamo così in negativo.
Erano anni che non facevate un disco composto soprattutto da pezzi altrui. È un ritorno al passato e quindi un segno di debolezza?
Massimo Martellotta: Per due anni ci siamo dedicati alle colonne sonore per tre serie, di cui non si può ancora parlare, e per un documentario. Abbiamo vissuto l’idea di tornare alla prima formula dei Calibro come una liberazione. Ci siamo detti: torniamo in studio e divertiamoci facendo la musica per fare la musica. È la formula del primo disco con un afflato più internazionale e alcune licenze che esulano completamente dal mondo cinematografico.
Fabio Rondanini: E poi il primo disco era più archeologia, nel senso di ricerca di cose sconosciute. In questo caso suoniamo pietre miliari di un certo tipo di jazz-funk.
Tommaso Colliva: Secondo me c’è un’enorme differenza tra rileggere brani altrui vent’anni fa e rileggerli ora. Vent’anni fa cercavamo una nostra identità anche andando a studiare quel che avevano fatto gli altri. Ora è quasi il contrario perché un’identità ce l’abbiamo e la mettiamo nei pezzi degli altri. Quel linguaggio, quei timbri sono nostri. Non abbiamo bisogno di composizioni originali per dire: questa musica è nostra.
Enrico Gabrielli: Il segreto della longevità di questo progetto è che non abbiamo testi o un senso da esprimere. Il 90% delle problematiche di chi fa dischi è ciò che deve dire. Noi non abbiamo niente da dire, noi parliamo di musica e facciamo musica, la musica stessa è il sistema-linguaggio con cui operiamo. Le cose che facciamo passano un vaglio che è molto istintivo, lavoriamo velocemente, questa è una cosa che ci piace molto. Per alcuni artisti più o meno blasonati è un problema, perché vogliono lavorare con calma. A noi la velocità piace.
Colliva: Non c’è calcolo, non ci sono regole. È tutto molto istintivo.
Un tempo recuperavate pezzi sconosciuti, un tesoro nazionale tutto da riscoprire, oggi suonando Mission Impossible o certe sigle tv anni ’80 fate leva sulla nostalgia degli over qualcosa. Confessate, è una bella furbata. E ancora una volta vi rifugiate nel passato.
Colliva: Non siamo filologici nella rilettura del passato. Anche se rifacciamo pilastri come Mission Impossible, Chameleon o Jazz Carnival, non andiamo a studiarceli battuta per battuta. Abbiamo riascoltato Discomania e ci si è accesa la lampadina. Ci siamo detti: ha un’essenza Afrobeat, rifacciamola così. C’è una differenza, e qua magari la jazz police mi ucciderà, tra trascrivere gli assoli originali per replicarli e improvvisarne di tuoi. E poi una delle cose che mi fanno più piacere e anche un po’ effetto è quando incontriamo qualcuno che ci dice: «Io questa cosa l’ho scoperta grazie a voi». Non vorrei sembrare arrogante, ma abbiamo avuto una funzione di divulgazione.
E il presente? E il futuro?
Colliva: Se le musiche del passato le tieni dentro una teca, diventano museali. Noi le portiamo nel presente e le rilanciamo nel futuro.
Martellotta: Dopo aver fatto Lunedì cinema in modo molto simile all’originale, con Marco Castello che sembra Dalla, ci sono stati quindicenni che ci hanno detto: «Che figo quel pezzo con quel tipo che canta in maniera strana». Lo hanno trovato bizzarro adesso, oggi. È una cosa positiva e sorprendente, e ha a che fare col presente.
Rondanini: È simile a quel che succede coi campionamenti nell’hip hop dove si prendono cose dal passato per elaborarle. Credo che scorrano più fiumi nei Calibro. Ci sono dischi in cui riprendiamo cose sconosciute italiane per poi elaborare il nostro discorso arrivando a dischi quasi pop come Momentum. E poi il jazz che per il 90% è fare cover. Non è che sei un nostalgicone se senti Monk (risate). Che poi noi non siamo nostalgici da nessun punto di vista.
Ma il tema di Mission Impossible o certe sigle sono una furbata…
Colliva: Se c’è furbizia, è genuina. Ho scoperto solo dopo averlo finito che avevamo fatto un disco con tre sigle televisive. Semplicemente volevamo prendere delle cose ibridate del jazz. E Mission Impossible non è una furbata. Ci siamo detti: vediamo se riusciamo a fare ‘sta roba che è al limite dell’illegale.
Martellotta: Abbiamo deciso di pubblicarla proprio perché suona come un pezzo dei Calibro.
Ma uno che se ne fa della vostra Chameleon quando ha quella originale di 15 minuti di Herbie Hancock?
Gabrielli: Niente.
Colliva: Assolutamente niente.
Martellotta: Nulla!
Rondinini: Ma pure gli standard jazz, perché uno deve risuonarli?
Gabrielli: Che ci fai con la nostra versione di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto quando hai quella di Morricone o Summertime Killer quando hai quella di Bacalov? È la stessa roba. Sono cose che forse facciamo per noi. Questa è la mia opinione personale, eh, ma mi sembra che il percorso che stiamo facendo adesso sia più psicoanalitico. Dopo il lavoro funzionale per registi e produttori torniamo alle cose nostre col bisogno di riappropriarci di noi stessi e del nostro suono. È un’esplorazione del nostro sound, ma anche un esperimento su chi siamo. Proprio affrontando pezzi come Chameleon capisci qual è il sound dei Calibro.
Colliva: Infatti il verbo che si usa è confrontarsi, noi ci confrontiamo con quel materiale.

Da sinistra, Martellotta, Colliva, Rondanini, Gabrielli. Foto: Chiara Mirelli
Dite la verità, si va a registrare nello studio di Piero Umiliani, come avete fatto voi, per appuntarsi una medaglietta, mica perché lì la musica cambia.
Colliva: No no, invece cambia tutto.
In che modo concretamente?
Colliva: Ti confronti con strumenti che non conosci o con esemplari diversi di strumenti che conosci ma che reagiscono in maniera diversa. Max ha messo le mani sul Mini-Moog di Umiliani. Ne ha uno suo che teoricamente è uguale, eppure quello di Umiliani reagisce in modo diverso. Vale anche per il Clavinet. Qua in studio ne abbiamo uno che è ridotto male a livello estetico e che nella mia testa è molto sdentato. Il Clavinet di Umiliani è perfetto e questa cosa influisce tantissimo su quello che suoni. E poi conta anche l’acustica della stanza. Il terzo disco avremmo potuto farlo solo in quello studio di New York. Idem il quinto che trasuda del Toe Rag a Londra.
Rondinini: Cambiano mille cose: gli strumenti, il set up, i limiti che ti dai. A volte vai in un posto per un motivo specifico. Lo studio è un contenitore. Siamo molto bravi a darci dei limiti.
Colliva: Ogni studio mette dei paletti.
A proposito di Umiliani, quando qualcuno andava da lui a chiedergli una commissione tirava fuori un librone e sceglieva una composizione adatta. Lo ricordo per chiedere se secondo voi nella musica c’è una differenza tra arte e artigianato e se voi vi sentite artigiani.
Colliva: Siamo molto in pace col fatto di essere dei grandi artigiani. Non c’è niente di male e anzi secondo me nella standardizzazione che c’è nella musica oggi l’artigianato ha un grande valore perché permette di costruire cose uniche.
Gabrielli: E poi l’artisticità ha molto a che fare con il singolo, con l’immaginario eroico dell’uomo solo contro tutti, contro il mondo.
Non vi siete mai detti: cazzo, il mondo è in fiamme e noi stiamo qui a far la sigla di 90° minuto?
Rondanini: Allora non dovremmo neanche parlare di musica, ma solo di politica, di Palestina e Israele. Anche no.
Colliva: Dipende dagli strumenti che hai a disposizione. I nostri non sono verbali e quindi c’è il pericolo di essere travisati o male interpretati. Ho visto un documentario bellissimo che si chiama 1971, che viene presentato come l’anno in cui la musica ha contato di più nel mondo perché se volevi veicolare alcune informazioni, le veicolavi tramite la musica, vedi ad esempio What’s Going On di Marvin Gaye. Non viviamo più in quell’epoca. Oggi o scrivi un testo oppure devi usare cliché e retorica, che però è roba obsoleta. Non ci interessa farlo per essere presenti a prescindere.
Rondanini: La domanda comunque ci sta, io soffro profondamente questa cosa, ma nella mia vita quotidiana. Faccio fatica a condividere una qualunque storia anche lavorativa, professionale, leggera se vuoi. Poi se vogliamo parlare di gesto politico, può esserlo anche la qualità. Sono anche sicuro che il nostro pubblico dà per scontato come la vediamo in generale.
Martellotta: Secondo me questo clash ce l’abbiamo tutti quanti, non solo come musicisti, ma come esseri umani, nel quotidiano. Stai vivendo un momento piacevole e hai sempre il pensiero che condividerlo con altri risulti un po’ sfacciato.
Rondanini: La legge dei grandi numeri ci dice che non frega niente a nessuno, e non parlo di Calibro, sia chiaro, lo sottolineo tre volte. Puoi essere addolorato quanto vuoi, ma al sistema non importa nulla.
Colliva: Non avendo la possibilità di imbracciare una chitarra e cantare di questo o quel tema, nell’epoca dell’attivismo performativo io temo di essere assimilato a chi sventola le bandiere solo per l’interesse che ha nello sventolare una bandiera. Prima ho detto che nei Calibro non ci sono regole, ma una ce la siamo dati: su decisioni come andare ad eventi o sposare idee ognuno di noi ha il potere di veto. Noi non facciamo follower con le idee, facciamo follower con la musica.
Rondanini: Comunque sì, c’è una sofferenza, un imbarazzo nel fare 90° minuto in questo momento, ma perché c’è imbarazzo nel fare tutto. Questa credo sia la sintesi.
A un certo punto il bassista e co-fondatore Luca Cavina è sparito senza troppe spiegazioni. Lo avete cacciato?
Colliva: Non è stato cacciato e non se ne è andato lui. Abbiamo condiviso con Luca 15 anni di percorso e abbiamo costruito questa cosa insieme a lui, però dopo tanti anni le persone cambiano e i percorsi si disallineano.
C’erano problemi personali?
Non è un fatto personale, nessuno è andato con la ragazza di un altro, nessuno ha fatto uno sgarro, nessuno si è comportato male. Solo che a un certo punto non ti trovi più come linguaggio e obiettivi.
Fabio, ho intervistato Manuel Agnelli…
Rondanini: Bravo (risate).
Grazie. Sai che andrà in tour con gli Afterhours del 2005 per il ventennale di Ballate per piccole iene. Mi ha detto che l’ultima formazione del gruppo era probabilmente la migliore dal punto di vista tecnico, ma era fatta da musicisti che si dividevano fra tanti progetti e quindi organizzarla era diventato macchinoso, era diventata una piccola azienda, non sentiva più l’urgenza e la necessità da parte dei musicisti di stare nel gruppo. A te chiedo, visto che c’eri: era un’azienda? E a tutti: anche voi vi dividete fra mille cose, mille progetti, avete mai sentito i Calibro come un’azienda?
Rondanini: Io non sentivo di stare in un’azienda negli After, né lo sento nei Calibro. Io ho sempre solo suonato con le band, ma ho fatto un sacco di dischi anche coi cantautori, coinvolgendo altri musicisti e in qualche modo producendoli portando riferimenti. Mi sono sempre sentito parte di quello che ho fatto. Non mi sento un turnista.
E l’azienda Calibro?
Colliva: I Calibro nascono come progetto, non come band. Al posto dell’urgenza o della necessità di espressione abbiamo una carota appesa a un bastone che inseguiamo. Sono vent’anni che andiamo avanti di carota in carota. E poi le esperienze che ognuno di noi ha al di fuori di questa cosa qua nutrono i Calibro. Se avessimo suonato solo coi Calibro, sarebbe finita dopo sei mesi. Calibro non è monogamia.
Rondanini: Tutti siamo poligami.
Gabrielli: Ho fatto parte anch’io degli Afterhours per cui mi permetto di dirlo: il fatto di suonare con vari progetti non può essere un problema. Se hai 40 e passa anni non può essere un problema il fatto che tu abbia cose importanti da fare oltre a un progetto principale. Non ha più 19 anni, non stai più in un garage, quella band non è più l’unica ossessione della tua vita. E poi ci devono essere delle relazioni esterne per nutrirsi di altro. Difatti chi va avanti per anni in una sola band finisce dallo psicologo oppure va avanti perché fa tanto denaro.
I Police avevano il terapista della band.
Gabrielli: Quando ho fatto il tour con PJ Harvey non c’era un terapista, ma prima di ogni singola data facevamo 40 minuti di esercizi di team making tipo quelli che si fanno nelle aziende e alla fine del concerto c’era un debrief. Sarà anche una follia inglese, però è vero che la routine dentro un solo progetto è una roba che il cantante ambisce ad avere, ma allo stesso tempo sa che è un buco nero neurologico per gli altri. Manuel lo sa benissimo che quello che dice non è del tutto vero e secondo me non lo pensa neanche fino in fondo. Chiedere a un musicista che va per i 50 di dedicarsi solo a un progetto è come chiedere a ragazzo di 19 anni di avere un solo amico. Non è possibile. Comunque io sto aspettando che arrivi l’anniversario di I Milanesi ammazzano il sabato e che mi chiedano di far parte della reunion.
E cosa rispondi?
Gabrielli: Di no, perché sono impegnato (risate).
Mi arrendo, non sono riuscito a trovare grossi difetti nei Calibro. Aiutatemi voi, fatevi del male. Ognuno di voi mi dice qual è il suo principale limite in quanto musicista?
Rondanini: Io posso parlare dei difetti degli altri (risate).
Anche meglio!
Colliva: Ma guarda come si è fagnanizzato… Allora, il mio limite ce l’ho: ho bisogno della carota di cui ti parlavo. Ho bisogno di un obiettivo artistico da raggiungere, tipo: facciamo il disco in presa diretta, senza cuffie, cose del genere.
Martellotta: Vi dico il mio. In America fanno studiare i musicisti davanti allo specchio per vedersi come performano. Mi sembrava una cosa assurda e invece col tempo ho capito che è utile. Quando mi rivedo sul palco so che dentro ho un vulcano, mentre fuori sono immobile. Nel rock and roll l’aspetto dell’acting fa parte dello show e quindi avevano ragione al Berklee a far studiare davanti allo specchio. È una cosa che direi a qualcuno che ha un talento: studia anche come farlo vedere.
Forse in una band come la vostra senza frontman conta meno.
Colliva: Noi siamo come le Spice Girls se ci pensi: conta essere bilanciati. A me riempie di gioia che in concerto l’applauso più grande durante le presentazioni vada al batterista.
Rondanini: Ma quella è la televisione.
Colliva: Ma vaffanculo, è il fatto che sei un musicista stellare.
Ora il musicista stellare ci dirà il suo limite.
Rondanini: Ne ho mille. Potevo studiare di più le cose mi piacciono di meno e non l’ho fatto per pigrizia. E poi c’è la perenne insoddisfazione. Dovrei dirmi: basta, stai calmo, stai sereno, sei bravo. Lo so che sembra anche un pregio, ma ti assicuro che dentro è un inferno.
Enrico?
Gabrielli: Io ce l’ho, eccome. Ne stavo parlando con mia moglie, che nella vita ha fatto quel che voleva fare, la cosa per cui aveva studiato. Io no. Sono felice, faccio la musica che mi piace, sono pieno di stimoli, faccio cose splendide, ma io ho fallito. Io volevo fare il compositore puro. Io quella roba non sono riuscito a farla e quindi ho fatto altro. Ma sono felice così.
Martellotta: Ti poteva andare peggio.
Gabrielli: Poteva andare peggio, sì. È andata benissimo. Cioè, nel fallimento è andata molto bene.