Colto e temerario, il nuovo progetto di Rufus Wainwright è un disco che offre piacevoli e incantevoli duetti e, cosa non semplice, ridona dignità al prototipo dell’album di cover: croce e (poca) delizia di tanti fruitori della musica d’autore.
Il noto figlio d’arte (genitore 1 Loudon Wainwright III, genitore 2 Kate McGarrigle), ha da sempre dimestichezza con i ricordi e con le gioie della memoria e della conservazione e divulgazione alle nuove generazioni (da Judy Garland a Shakespeare), e “Folkocracy” è un altro interessante tassello di una carriera baciata dal successo di pubblico e da una solida stima critica, seppur quest’ultima non è stata sempre devota e pronta a perdonare alcune pagine meno incisive.
Nella sua pur lunga carriera, in verità, Wainwright si è tenuto alla larga dalle delizie della musica folk, quasi a voler segnare un confine più netto con le origini familiari. “Folkocracy” è in parte un azzardo, ma anche un’occasione per misurarsi con un repertorio poco adatto al suo carattere istrionico. Sono infatti i momenti più sfarzosi e affettati le uniche pecche dell’album, quei brani in particolare dove Rufus si destreggia in solitaria osteggiando fin troppa classe e arguzia (“Arthur McBride”), o quelli così discordanti da apparire inutili orpelli ornamentali (l’esotica ballata hawaiana “Kaulana Nā Pua”).
Particolarmente riuscite e personali due delle cover più impegnative dell’album: l’operistico vibrato della voce di Rufus Wainwright ben si adatta alla struggente poetica del classico “Shenandoah”, nello stesso tempo la complicità di Andrew Bird e Chris Stills è perfettamente funzionale alla splendida cover di “Harvest”, una delle migliori riletture di un brano di Neil Young.
Tra le collaborazioni, particolarmente interessante quella con John Legend per il classico di Peggy Seeger “Heading For Home” e l’omaggio a The Mamas And The Papas “Twelve Thirty (Young Girls Are Coming To The Canyon)” con Chris Stills, Sheryl Crow e Susanna Hoffs a completare l’eccellente incastro a più voci.
La produzione di Mitchell Froom è uno dei fattori che contribuisce alla resa finale di “Folkocracy”: si respira una leggerezza insolita, l’atmosfera è familiare e amichevole, non solo perché Rufus si attornia di parenti illustri – le sorelle Martha Wainwright e Lucy Wainwright Roche, la zia Anna McGarrigle, la cugina Lily Lanken e l’amico Chain Tannenbaum (al quale è affidato il banjo della defunta Kate McGarrigle) – ma perché lascia molto spazio al contributo artistico dei musicisti presenti.
Il delizioso canto a bocca chiusa di “Nacht Und Träume” e l’intensa versione a più voci di “Wild Mountain Thyme” sono due delizie folk che non ti aspetteresti mai di ascoltare in un disco di Rufus, perle la cui intensità stempera le non eccelse riletture di “Hush Little Baby” e “High On a Rocky Ledge”, il cui vero pregio è quello di offrire performance vocali decisamente più controllate e meno gigionesche, qualità che sono ancor più evidenti nell’inattesa collaborazione con Chaka Khan per la suggestiva e sensuale “Cotton Eye Joe”.
Last but not least, “Going To A Town” è la piccola perla dell’album, un duetto con Anohni che, nell’attribuire al brano scritto da Wainwright la palma di classico, ribadisce con intensa poesia il potente messaggio di frustrazione e amarezza nei confronti della civiltà americana, “Sono stanco di te America”, cantano Rufus e Anohni, ed è difficile non sentirsi partecipi di un grido così schietto: soprattutto ora che lo spettro dell’ennesima restaurazione autoritaria incombe sull’America, c’è bisogno della folkocrazia per sperare nella promessa democrazia.
12/01/2024
Antonio Santini for SANREMO.FM