Quando nel 2018 il New York gli ha chiesto qual è stata la più grande innovazione musicale della sua lunga carriera, Quincy Jones ha risposto: «Tutto quel che ho fatto». Mica facile contraddirlo. Basta osservare l’eredità impareggiabile lasciata dal musicista morto il 3 novembre a 91 anni. Ha iniziato come trombettista jazz e s’è fatto strada fino a ottenere un posto nella band di Dizzy Gillespie, affinando al contempo i talenti di produttore, compositore e arrangiatore lavorando con chiunque, da Count Basie a Duke Ellington e Ray Charles. Ha avuto persino un ruolo nella nascita del rock’n’roll avendo diretto e arrangiato il disco del 1955 di Big Maybelle Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, e questo due anni prima che Jerry Lee Lewis registrasse la sua celebre versione.
Il suo lavoro come produttore ha iniziato ad essere predominante all’inizio degli anni ’60, quando ha curato le prime incisioni di una cantante sconosciuta chiamata Lesley Gore, divenuta subito un’icona pop. Nello stesso periodo ha iniziato ad accumulare nomination ai Grammy fino a portarne a casa 28, un record per l’epoca per un artista vivente.
Negli anni ’60 Jones è diventato un compositore prolifico di colonne sonore e un artista solista. Nel 1974 ha rischiato di morire per un ictus, ma si è ripreso rapidamente, per poi gestire l’ascesa di Michael Jackson allo status di megastar a partire da Off the Wall del 1979. Da lì in poi, l’approccio innovativo di Jones fatto di tecnologia, songwriting di altissimo livello e arrangiamenti spettacolari, approccio culminato in Thriller di Jackson, ha cambiato il paesaggio sonoro degli anni ’80 e non solo. Il pop e l’R&B del XXI secolo sarebbero diversi senza di lui. Ecco 20 delle sue più grandi produzioni e composizioni per altri artisti.
Sorprende il fatto che Jones non abbia lavorato spesso con Ray Charles. In fondo i due si sono conosciuti da adolescenti, a Seattle, e hanno stretto un’amicizia durata una vita. «Quincy aveva un animo gentile, era genuino», ricordava Charles nell’autobiografia di Jones Q. Una delle poche occasioni in cui hanno lavorato assieme è l’album The Great Ray Charles del 1957. Ahmet Ertegun e Jerry Wexler della Atlantic si sono occupati della produzione, Jones ha curato gli arrangiamenti e composto il brano di apertura. The Ray è uno strumentale intenso e trascinante che mette in mostra l’animo jazz di Charles, grazie anche ai contributi del sassofonista David “Fathead” Newman e del bassista Oscar Pettiford. Conoscendo il grande affetto di Quincy Jones per The Genius, si potrebbe considerare The Ray il tema musicale non ufficiale di Ray Charles.
The King of the Gospel Singers
Little Richard
1962
Noto anche come It’s Real, l’album di Little Richard del 1962 The King of the Gospel Singers arriva nel bel mezzo del suo percorso di allontanamento dalle sonorità profane del rock’n’roll a favore della spiritualità propria del gospel. In un momento in cui molti musicisti afroamericani dal sacro si stavano convertendo al profano, Richard è andato nella direzione opposta, una mossa che ha turbato i fan, aggravata dal fatto che i suoi dischi gospel non erano sempre così belli. La salvezza, per lui, è arrivata con Jones. Come ha spiegato il produttore nelle note di copertina dell’album, «è stata una gioia lavorare con Little Richard a New York, pur essendo molto religioso, non aveva perso il suo piglio rock’n’soul». In effetti, Jones ha contribuito a far riemergere il Richard impetuoso di un tempo in brani come Joy Joy Joy, per non parlare dell’atmosfera soul di There Will Be Peace in the Valley (For Me).
New Wave!
Dizzy Gillespie
1963
«Adoravo Dizzy fin da quando avevo 12 anni. Aveva stile, anima, tecnica, spessore», dice Jones in Q. Nato come trombettista jazz, Quincy ha iniziato a suonare con Gillespie nel 1956, diventandone poi il direttore musicale. Nel 1963 è arrivato a fargli da produttore nell’album New Wave!. Non è un disco memorabile, dal punto di vista della produzione è un esempio perfetto dell’importante fase latina e afro-cubana dell’Ambassador of jazz, con interpretazioni entusiasmanti degli standard bossa nova di Antônio Carlos Jobim One Note Samba e Chega de saudade. Jones, che stava per centrare il suo primo successo pop con Lesley Gore, stava perfezionando la fine arte del crossover. «Non mi preoccupo delle categorie», ha detto a Record Mirror. «È tutta musica. Hai sempre a che fare con le stesse 12 note della scala, che si tratti di Lesley Gore o di Gillespie. Se si continua a lavorare seguendo lo stesso stile si diventa monotoni. Mi piace evolvermi e restare originale».
It’s My Party
Lesley Gore
1963
Lesley Gore era una tipica adolescente di periferia quando il suo demo finisce nelle mani di Jones che all’epoca lavora alla Mercury Records, che l’ha arruolato facendone il primo vicepresidente nero di una grande etichetta discografica di New York. Lavora soprattutto con cantanti jazz come Sarah Vaughan, Dinah Washington e Nina Simone, ma in Gore intravede il futuro. «Aveva una voce pastosa e particolare ed era molto intonata, una qualità che molti cantanti rock’n’roll adulti non avevano, così l’ho scritturata», scrive in Q. Il primo frutto della loro partnership creativa, l’allegra e vivace It’s My Party, trasforma Gore in una star, esattamente nel momento in cui i Beatles stavano dando il via alla cultura giovanile. «Quincy ha sentito i miei demo, mi ha chiamata e mi ha fatto un’offerta che non potevo rifiutare», ha detto Gore (che è mancata nel 2015) in un’intervista con Anthony DeCurtis di Rolling Stone nel 2006. «Un genio come Quincy Jones è irraggiungibile».
You Don’t Own Me
Lesley Gore
1964
You Don’t Own Me, la canzone più famosa di Lesley Gore, non è arrivata tramite Jones. Anzi, è successo esattamente il contrario. Come ha raccontato ad Anthony DeCurtis, gli autori John Madara e David White gliel’hanno suonata dopo un concerto nella zona delle Catskills. «Sono andata fuori di testa. Il lunedì dopo li ho fatti tornare a New York e ci siamo visti alla Mercury con Quincy, per fargliela ascoltare. L’ha adorata quanto me». L’orecchio per le hit e la capacità in costante evoluzione di coniugare le sue conoscenze di jazz e teoria musicale con un suono pop coinvolgente sono stati determinanti per il successo di You Don’t Own Me. La canzone, drammatica e orchestrale, è diventata una hit e anche uno dei primi inni femministi. Gore era ancora lontana dall’identificarsi come gay, ma l’importanza del messaggio di empowerment della canzone si è immediatamente rivelato nella sua universalità, come dimostra il successo della cover di Grace nel 2015, anno della morte di Gore. «Quincy è stato un grande mentore e un insegnante meraviglioso, ma aveva un punto di vista maschile, gli mancava quello femminile. Così ho dovuto affrontare il problema: chi avrei dovuto essere, là fuori? You Don’t Own Me ha chiarito le cose».
Hey Now Hey (The Other Side of the Sky)
Aretha Franklin
1973
«Mi è piaciuto lavorare con Quincy Jones, è stato fantastico» diceva Aretha Franklin a Blues & Soul nel 1973, poco dopo l’uscita di Hey Now Hey (The Other Side of the Sky). Se è parsa un po’ sulle sue, probabilmente è perché l’album non è stato particolarmente apprezzato né dalla critica, né dai fan. Da allora, però, Hey Now Hey è stato rivalutato, e a ragione; pur non essendo grintoso e aggressivo come la produzione precedente per la Atlantic, esplora una miriade di stati d’animo e sfumature, e il singolo Master of Eyes (The Deepness of Your Eyes), non incluso nell’album (ma curato da Jones), ha vinto un Grammy. «Volevo fare le cose come piaceva a me e speravo che il pubblico le avrebbe apprezzate un po’ di più», diceva Franklin. «L’album ha avuto un discreto successo, ma a quanto pare la gente preferisce che faccia solo cose funk o blues, mentre io volevo provare qualcosa di diverso». Sei anni prima di diventare il mentore di Michael Jackson, Jones stava affinando il suo talento nel guidare artisti leggendari nel loro processo di reinvenzione.
Strawberry Letter 23
The Brothers Johnson
1977
Jones si imbatte nel chitarrista George e nel bassista Louis Johnson ascoltando un demo di Taka Boom, la sorella di Chaka Khan. I due gli piacciono a tal punto da ingaggiarli per la sua backing band, coinvolgendoli nella realizzazione della colonna sonora di Radici e producendo nel 1976 Look Out for #1, lo straordinario album funk di debutto dei Brothers Johnson. Per i fratelli il vero grande successo arriva nel 1977 con l’uscita di Strawberry Letter 23, cover del pezzo di Shuggie Otis che seduce il pubblico nell’anno in cui disco music e punk ribaltano il mondo. «Per noi sarebbe stato facile far uscire un altro album solo funk, ma non volevamo ripeterci», hanno detto i due a Blues & Soul. «È proprio qui che è entrato in gioco Quincy come produttore. Abbiamo parlato di come doveva essere il secondo album e lui ci ha fatto notare che dovevamo essere ben consci di ciò che stava accadendo in generale nella musica e della direzione in cui stava andando». Da questo punto di vista, Jones aveva appena iniziato…
Off the Wall
Michael Jackson
1979
Già prima di Off the Wall Jones e Michael Jackson sono ricchi e famosi. L’album li ha lanciati in orbita. Nel 1979, quando la disco music è sotto attacco con tanto di roghi pubblici di dischi, Off the Wall dimostra che il genere può essere reimmaginato. Jones ha lavorato per la prima volta con un Jackson diciannovenne in The Wiz e, come ha ricordato in Q, «dietro l’apparenza timida si nascondeva un artista con un desiderio di perfezione enorme e l’ambizione incontenibile di diventare il più grande intrattenitore al mondo». Quincy lo prende sotto la sua ala protettrice, soprannominandolo affettuosamente Smelly, e trasforma il suo album solista Off the Wall nel modello di riferimento della post disco music. Le tante hit del disco, tra cui Don’t Stop ‘Til You Get Enough e Rock With You, hanno in buona sostanza creato il sound degli anni ’80 e avviato Jackson sulla strada di Thriller. «Ci siamo divertiti un mondo», ha detto Jackson a proposito di Off the Wall in un’intervista per Blues & Soul. «È stato l’album più semplice a cui abbia mai lavorato. C’era tanto amore, era incredibile. Tutti hanno lavorato insieme senza problemi». Questo senso di gioia e libertà collaborativa si sente nei groove, nelle melodie, nei ritornelli.
Masterjam
Rufus & Chaka Khan
1979
Sulla scia di Off the Wall arriva un capolavoro meno acclamato, ma comunque notevole: Masterjam di Rufus & Chaka Khan. I due veterani del funk lasciano che Jones li immortali in una versione post disco aggiornata ed elegante che si sposa bene con l’inizio, in contemporanea, della carriera di Khan come star solista. Khan ha descritto il metodo di lavoro di Jones in studio come «ricerca della perfezione», mentre per il tastierista Kevin Murphy «lavorare con Quincy è stata un’esperienza bellissima per tutti quanti. È stato un angelo. Mi aspettavo che fosse diverso, una persona inavvicinabile, si è rivelato l’esatto contrario. Ha preso in mano la situazione e ha condotto il gioco». Pur essendo un produttore concentrato e visionario, Jones riusciva a trasformare le session in una festa. E quel clima emerge chiaramente in un disco tutto da ballare come Masterjam.
Stomp!
The Brothers Johnson
1980
George e Louis Johnson hanno continuato a lavorare con Jones per tutto il periodo del suo grandissimo successo, alla fine degli anni ’70, a volte uno solo di loro, altre tutti e due, dando un contributo a molte delle sue produzioni dell’epoca, tra cui Off the Wall e Masterjam. I Brothers Johnson sono tornati sotto ai riflettori nel 1980 quando il singolo Stomp ha conquistato le classifiche, trovando l’equilibrio ideale tra l’epicità della disco e il funk nuovo e coraggioso degli anni ’80. Tra i continui inviti ad abbandonarsi all’ebbrezza della fine della settimana lavorativa, George e Louis si cimentano in assoli brevi e straordinari rievocando il virtuosismo che aveva impressionato Jones «Quincy ci ha aiutati ad allargare e di molto gli orizzonti. Ora ascoltiamo tutti i tipi di musica, mentre prima forse eravamo più limitati. Lo ammiriamo e un giorno vorremmo arrivare al suo livello; abbiamo un rispetto enorme per lui». I Brothers Johnson non hanno mai più eguagliato quel successo, ma si sono assicurati un posto nella storia del pop.
Give Me the Night
George Benson
1980
Come Jones, George Benson è passato dal jazz al pop. Dopo essersi fatto conoscere come chitarrista di Brother Jack McDuff e Miles Davis, ha cavalcato l’onda della fusion con Breezin’ del 1976. A differenza di Michael Jackson o dei Brothers Johnson, Benson è un artista già pienamente formato quando inizia a collaborare con Jones per l’album Give Me the Night del 1980, che ha vinto tre Grammy ed è diventato disco di platino grazie soprattutto alla title track. Per quanto Benson abbia già una certa esperienza, in Give Me the Night si affida all’istinto di Jones in studio. «Mi mandava i missaggi dopo averli fatti, così potevo fare dei commenti, ma fino a un certo punto», ha detto a New Musical Express lasciandosi andare a una risata. «C’è chi dirà che sono pignolo, ma anche la più piccola cosa è importante… un pizzico di zucchero di troppo o non abbastanza. Ho fallito con Love Ballad per questo motivo: è troppo lenta. Nel disco c’erano la melodia e ottime performance, ha vinto un Grammy e tutto quanto… ma quella canzone è stata un’occasione perduta. Non si poteva ballare!».
The Lady and Her Music
Lena Horne
1981
«La musica è architettura emozionale» diceva Jones a Rolling Stone nel 2017, «è fondamentale concentrarsi sull’amore, il rispetto e la fiducia». Nel caso di Lena Horne, il suo amore, il suo rispetto e la sua fiducia risalivano a molto tempo prima. Horne e il marito Lennie Hayton avevano scritto le note di copertina per il suo album del 1961 The Quintessence, aiutandolo a entrare nel giro dei compositori di musiche per film hollywoodiani. Jones aveva ricambiato il favore intitolando una canzone For Lena and Lenny. Horne ha interpretato il ruolo della Strega buona del Sud nel film I’m Magic (The Wiz) del 1978, con Jones in veste di direttore musicale e produttore. Quando per la cantante è giunto il momento di registrare un album dedicato alla sua carriera a Broadway Lena Horne: The Lady and Her Music, la produzione è stata affidata a Jones, che ha messo al servizio del disco tutto il suo peso di producer tra i più importanti del settore. L’album si è aggiudicato il Grammy per la migliore colonna sonora durante una cerimonia presentata proprio da Jones. «Lena Horne è stata uno degli amori e delle eroine della mia vita», ha scritto su Facebook nel 2013, tre anni dopo la sua morte. «Sarò sempre il tuo mister, mia adorata sorella».
Every Home Should Have One
Patti Austin
1981
Patti Austin ha fatto la corista in Give Me the Night di George Benson, ma Jones la conosceva da un pezzo. Era una bambina prodigio che aveva cantato per la prima volta sul palco dell’Apollo a 4 anni e conosceva Jones fin dalla nascita, grazie al padre, il trombonista jazz Gordon Austin. Jones è il suo padrino e il legame familiare si è inevitabilmente trasformato in una collaborazione. Austin, con già una carriera di tutto rispetto, ha lavorato con Jones a Every Home Should Have One. Il tocco stile Re Mida di Jones si è rivelato efficace: il duetto raffinato tra Austin e James Ingram, Baby Come to Me, è arrivato al numero uno della classifica dei singoli, nel 1982. Parlando del suo mentore a BlackAmericaWeb.com, Austin ha definito l’industria musicale «QU, Quincy University». Jones non si è imitato a produrre Every Home Should Have One, ma l’ha anche pubblicato con la sua etichetta Qwest Records, che ha avuto nel roster nomi che andavano da Benson a Sinatra ai New Order.
Donna Summer
Donna Summer
1982
«Quincy ha prodotto quell’album quasi senza aiuto da parte mia e non è da me, ma all’epoca ero incinta, quindi è di fatto più un album suo», diceva Donna Summer a New Musical Express a proposito del suo disco omonimo del 1982. L’indiscussa regina della disco music ha un disperato bisogno di rinnovarsi musicalmente nell’era dello slogan “disco is dead”, i primi anni ’80. Per farlo non esiste nessuno più qualificato di Jones, che prende in mano le redini della sua musica e aiuta la cantante a dare un taglio netto alla serie di album prodotti da Giorgio Moroder. Non è il ritorno in grande stile che lei sperava, ma contiene molte canzoni ottime, tra cui il singolo nominato ai Grammy Love Is in Control (Finger on the Trigger) e una cover dall’andamento reggae di State of Independence di Jon & Vangelis dove ai cori c’è un cast di star che comprende Michael Jackson, Dionne Warwick, Kenny Loggins e Stevie Wonder. Quando NME le ha chiesto se avesse usato la sua influenza per convocare quel coro formidabile, Summer ha risposto: «No, l’ha fatto Quincy. Quando Quincy chiama, la gente molla tutto ciò che sta facendo». Un superpotere che Jones ha messo alla prova tre anni dopo, assemblando la più grande squadra di celebrità di tutti i tempi per il progetto USA for Africa.
Thriller
Michael Jackson
1982
Thriller è un’epopea e, di conseguenza, è stato un lavoro estenuante. «Quando stavamo terminando Beat It, lavoravamo in tre studi contemporaneamente», ha detto Jones a Rolling Stone. «In uno c’era Eddie Van Halen; in un altro Michael cantava una parte in un tubo di cartone; in un altro ancora mixavamo. Lavoravamo per cinque notti e cinque giorni di fila, senza mai dormire. A un certo punto le casse sono andate in sovraccarico e sono andate a fuoco». Proprio come Thriller, che diventa il lavoro più importante di Jackson e un fenomeno culturale. Tutto ciò che Jones e Jackson, nel corso delle loro rispettive carriere, hanno imparato sulla produzione, l’arrangiamento, la composizione, il gusto del pubblico e il business musicale viene messo a frutto perfettamente: i generi sono mescolati, le barriere scavalcate e Jackson rinasce nelle vesti di re del pop. Aiutato da Jones e dal suo partner di lunga data Rod Temperton, Jackson hackera il dna del pop, dando vita a un disco che ancora oggi, e probabilmente per sempre, suona originale ed elettrizzante. Ma non è tutto rose e fiori. «Odio doverlo dire pubblicamente, ma Michael ha rubato un sacco di cose, tante canzoni», ha detto il produttore a Vulture citando la somiglianza tra le linee di basso di Billie Jean di Jackson e di State of Independence di Donna Summer, prodotta da Jones e pubblicata anch’essa nel 1982. «Le note non mentono, amico. Era machiavellico come pochi». D’altro canto, Jones ha anche affermato che le sue intenzioni erano assolutamente artistiche: «In vita mia non ho mai fatto musica per i soldi o la fama. Nemmeno nel caso di Thriller. Non esiste. Dio esce dalla stanza non appena ti metti a pensare ai soldi». Ciò nonostante, Thriller è diventato ed è tutt’ora l’album più venduto di sempre.
It’s Your Night
James Ingram
1983
Uno dei singoli più forti di Thriller era P.Y.T. (Pretty Young Thing), scritto insieme a un autore sconosciuto di nome James Ingram. I fan di Jones conoscevano Ingram grazie a The Dude (1981), a cui Ingram aveva contribuito come voce principale in canzoni come One Hundred Ways, candidata ai Grammy. La voce di Ingram era uno strumento perfetto per Jones: discreta, tranquilla, in grado di comunicare emozioni in modo semplice e diretto. A testimonianza della sua umiltà sorprendente, Ingram ha raccontato al Chicago Tribune cosa è successo quando lui, che in precedenza si era guadagnato da vivere come tastierista jazz, ha sentito Jones parlargli per la prima volta della possibilità di lavorare insieme: «Gli ho riattaccato il telefono in faccia. Non ero mai stato un cantante. Mia moglie mi ha detto: “James, ma era Quincy”. Lui mi ha richiamato e abbiamo iniziato a parlare». Dopo il successo di The Dude, Jones è stato ingaggiato per produrre l’album di debutto di Ingram, It’s Your Night. Pubblicato nel 1983, conteneva Yah Mo B There, duetto con Michael McDonald premiato con un Grammy.
L.A. Is My Lady
Frank Sinatra
1984
Jones ha incontrato per la prima volta Sinatra nel 1958 quando lui, che era un emergente, è stato incaricato di assemblare un’orchestra che accompagnasse il Chairman durante un concerto a Monaco. I due non sono diventati subito amici, ma all’inizio degli anni ’60 a Jones sono stati offerti un paio di lavori di produzione e arrangiamento per alcune registrazioni di Sinatra e ha persino iniziato a frequentare il Rat Pack. «Nel 1964, quando ero a Las Vegas, c’erano posti in cui non dovevo andare perché ero nero, ma Frank mi ha risolto il problema», ha detto a Vulture. «Ci vogliono iniziative individuali come questa per cambiare le cose. Ci vogliono dei bianchi che dicano ad altri bianchi: “Davvero vuoi essere razzista? Davvero la pensi così?”». Jones ha ravvivato il suo legame con Sinatra nel 1984 producendo L.A. Is My Lady. È l’ultimo album da solista di Sinatra ed è perfetto: rilassato, geniale e arrangiato in modo impeccabile. Contiene l’interpretazione in studio di Sinatra di Mack the Knife, in cui cita il vecchio compare Jones.
We Are the World
USA for Africa
1985
«Ho dovuto mettere un cartello sulla porta che diceva: “Check your egos at the door”», ha scritto Jones in Q. Parlava della session di registrazione di We Are the World, il singolo del 1985 pieno di celebrità inciso a beneficio delle vittime delle carestie in Africa. Jones era stato incaricato di produrre il brano scritto da Lionel Richie e Michael Jackson. La canzone, in tutta la sua insipida gloria, ha finito per diventare il modello tipico del singolo di beneficenza con velleità motivazionali scritto a più mani. Jones, tuttavia, ha portato a termine un’impresa titanica e il fatto che il brano sia convincente, per non parlare dell’orecchiabilità, testimonia la sua bravura non solo dietro il mixer, ma anche come domatore di divi. «Preso singolarmente, ognuno di loro ti avrebbe strappato di dosso la pelle, strato dopo strato», ha scritto in Q, ma ha anche ammesso che, nell’intento di sposare quella causa veramente buona, «non ho mai provato, né prima né dopo, la gioia di quella sera mentre lavoravo con questo arazzo umano, ricco e variegato, fatto di amore, talento e gentilezza».
Bad era il disco dopo Thriller e le aspettative erano ovviamente altissime. Oltre a co-produrre l’album insieme a Jones, per Bad Jackson ha attinto più che mai dalla propria psiche, dalla propria vita e dalle proprie esperienze. Jones se ne attribuiva il merito. Nella vita del cantante «stavano iniziando ad accumularsi tante tensioni, così gli ho detto che era giunto il momento di fare un disco onesto». Qualunque sia stato l’impulso iniziale, l’album era un ritratto intimo dello stato d’animo sempre più tormentato e introspettivo di Jackson negli anni post Thriller. Dal romanticismo sfavillante di The Way You Make Me Feel alla ballad introspettiva Man in the Mirror, il disco è una testimonianza avvincente della collaborazione tra Jackson e Jones, due titani che insieme hanno modificato il modo in cui la musica pop si mostrava, suonava e veniva percepita. È stata anche la loro ultima collaborazione, un bel modo di dirsi addio.
Strawberry Letter 23
Tevin Campbell
1991
I Wanna Sex You Up dei Color Me Badd è stata una grande hit nel 1991 grazie soprattutto a un campionamento pesante di Strawberry Letter 23, brano prodotto da Jones. La cosa potrebbe derivare dalla decisione di Jones di far rifare Strawberry Letter 23 al suo nuovo pupillo, il cantante R&B adolescente Tevin Campbell, nel suo album di debutto, T.E.V.I.N. A soli 12 anni, Campbell aveva fatto la sua prima grande apparizione come cantante in Back on the Block di Jones del 1989. Avendo intravisto in lui un possibile altro Michael Jackson, Jones si è dato da fare per inserirlo nei ranghi dell’élite del pop e ci è riuscito. T.E.V.I.N. è diventato disco di platino e l’ha catapultato verso la celebrità. Jones, la cui carriera da producer per altri artisti aveva iniziato a rallentare dopo Bad, non si è occupato di T.E.V.I.N. come aveva fatto con i lavori precedenti, da Lesley Gore e i Brothers Johnson a Patti Austin e James Ingram. Al contrario, ha ricoperto il ruolo di produttore esecutivo, intervenendo personalmente per produrre la nuova versione swingata di Campbell di Strawberry Letter 23. Pur rappresentando un elemento minore nella discografia di Jones, l’interpretazione della canzone da parte di Campbell ha chiuso un cerchio nella carriera di Jones e ha ribadito il suo status di autore fra i più innovativi del pop e di mentore fra i più generosi. Come ha ben detto Campbell, con gratitudine, in un’intervista del 1991 a Video Soul, «se c’è una parola per descrivere Quincy, quella è genio».
Da Rolling Stone US.
Antonio Santini for SANREMO.FM