Certe cattive frequentazioni possono lasciare una cicatrice indelebile nello spirito, fatto che vale anche per gli ascolti musicali; chi abbia stanziato a lungo nei territori del progressive rock più verboso, avrà finito con l’identificare il genere come rifugio per musicisti dall’ego perennemente ingrossato, gente per cui un assolo non può durare meno di cinque minuti buoni. A questi sfortunati consiglieremo di prendere al più presto residenza nel non-luogo fiabesco ma squisitamente britannico abitato dai protagonisti di una delle principali band che, agli albori dei Seventies, coniarono il così detto “Canterbury sound”, e cioè i Caravan. Più posati dei Gong e della loro psichedelia freak e maggiormente orientati alla melodia degli amici Soft Machine, il quartetto capitanato dal cantante e chitarrista Pye Hastings in combutta coi cugini Dave e Richard Sinclair, rispettivamente organo e basso, e dal batterista Richard Coughlan, dimostrò molto più del capolavoro per il quale ogni enciclopedia del rock che si rispetti non può evitare di citarlo, l’album del 1971 “In The Land Of Grey And Pink”. Talentuosi musicisti e ispirati compositori, essi coniarono uno stile di eleganza misteriosa e mai ingessata, generando canzoni di obliqua bellezza (si ascolti il vellutato romanticismo su “Winter Wine”) senza farsi mancare ardite sperimentazioni le quali, pur attingendo talvolta alle acque della dissonanza, sono servite attenendosi a una ricetta mai ostica e sempre emozionante (i 22 minuti della suite “Nine Feet Underground”).
Blasonato carovaniere per oltre 55 anni di onorata carriera, Hastings ha mantenuto salde le redini su un discorso musicale che, trascorsa la florida stagione del prog, ha avuto coraggio e umiltà di asciugare la formula e guardare in faccia il proprio presente coi piedi ben piantati in una terra che, agli occhi e orecchie dei suo fan, apparirà sempre e comunque nelle dolci sfumature del rosa, nelle malinconiche tinte del grigio.
Pye, qual è la prima immagine che ti viene in mente se ripensi alla Canterbury della tua giovinezza?
La prima immagine è quella di una città spenta, degradata dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale eppure ancora dotata di una sua bellezza. Erano i primi anni 60 del secolo scorso: la ricostruzione aveva interessato vaste aree cittadine tra quelle danneggiate dai bombardamenti tedeschi, sicché si notava una certa discontinuità tra alcuni degli edifici originali e quelli ricostruiti. Sul versante musicale, Canterbury era ricca di pub dove ascoltare musica dal vivo ed esibirsi. È in quei luoghi che noi ragazzi abbiamo imparato ad affrontare il pubblico e a costruirci un repertorio. Inizialmente i ragazzi si dividevano tra mod e rockettari, disperatamente intenti a superarsi l’un l’altro in popolarità. Poi, come ogni cosa nella vita, cambiò anche quella, e arrivò la cosiddetta cultura hippie. Si cominciò a portare i capelli lunghi, a vestire abiti sgargianti, causando attriti non solo coi proprio genitori, ma anche coi mod e i rockettari.
Queste mode, erano consapevoli espressioni di originalità individuale?
In tutti noi alberga qualcosa di tribale, un desiderio di mescolarsi con gli altri, di appartenere a una famiglia allargata che la pensa come noi. Queste mode erano in primis un modo per dimostrare esternamente a quale tribù si apparteneva, in maniera non dissimile dall’abbigliamento indossato dai giocatori di una squadra di calcio. In un senso o nell’altro, sono tutte uniformi.
Canterbury sound: un’efficace trovata giornalistica o c’erano concreti elementi musicali che condividevate con le altre band della scena?
È stata prima di tutto l’invenzione di un giornalista che voleva accorpare geograficamente gruppi come il nostro, i Soft Machine e quelle altre band provenienti da Londra ma anche Liverpool e Birmingham. Poi, è vero, rispetto ad altri dell’epoca, suonavamo in maniera più jazzistica, questo perché sperimentavamo progressioni accordali e cambi di tempo tipici di quel genere e ancora estranei al mondo del pop.
Come compositore, al tempo, qual era la tua visione del cosiddetto rock progressivo?
Se ben ricordo, non c’era alcuna idea preconcetta che mi spingesse a scrivere canzoni nel genere poi identificato come “rock progressivo”. Anzi, vivevamo tutti in campagna e, dunque, eravamo abbastanza staccati dal fervente sviluppo della scena londinese. Questo per sottolineare che non sentivamo alcuna pressione a svilupparci in modi diversi dai nostri. Certo, volevamo emergere dagli altri, quindi abbiamo scritto del materiale derivato da qualsiasi idea ci passasse per la testa, materiale che, ovviamente, era anche influenzato dai nostri ascolti.
Che ricordi, dell’esperienza come Wilde Flowers?
La mia prima esperienza in una band. Mi ingaggiarono come chitarrista ritmico e per la mia capacità di armonizzazione vocale; fu Brian Hopper a chiamarmi, membro fondatore insieme al fratello Hugh. A completare la formazione, Richard Coughlan alla batteria e Robert Wyatt alla voce. La prima sfida fu superare la tensione del palcoscenico. Il primo live fu in occasione di una competizione tra band a Margate. Ci esibimmo in quartetto, perché Richard era in vacanza ma, nonostante questo, arrivammo primi.
Il premio?
Il “favoloso” premio era una session di registrazione in uno studio che si rivelò alquanto amatoriale. Si trattava infatti di un ragazzo munito di registratore e, per studio, avevamo a disposizione una stanza lì a Margate. Ricordo di aver pensato: “E benvenuti nel mondo del rock’n’roll!” Non ci avevo più pensato da allora.
Dall’esordio con il beat psichedelico di “Caravan” a “If I Could Do It All Over Again, I’d Do It All Over You” avete sorprendentemente trovato uno stile originale. Com’è accaduto?
Tutti e quattro ci stavamo rapidamente evolvendo come musicisti ma, in particolare, Dave Sinclair aveva fatto passi da gigante col suo organo Hammond; stava, di fatto, creando un suono e uno stile unici sicché, giustamente, diventò l’asse centrale dei Caravan. Da allora, il mood delle canzoni si è spostate dalla chitarra alla tastiera.
Mi piacerebbe una tua parola su due grandi artisti che non ci sono più. A partire da Daevid Allen.
Quando muoiono persone della tua stessa età, è allora che “tocchi con mano” quanto siano fragili le nostre esistenze. Ovviamente in queste dipartite un ruolo significativo lo giocano anche le abitudini personali e gli stili di vita che adottiamo, i quali possono divenire la nostra maledizione o, nel migliore dei casi, la nostra salvezza. Daevid l’ho conosciuto per poco e, forse a causa del suo costante ricorso a certe sostanze, mi dava l’impressione di un tizio decisamente strano.
Kevin Ayers.
Kevin invece lo conoscevo meglio, era un personaggio alla Dottor Jekyll e Mr. Hyde. Comprai la mia prima chitarra a 17 anni, nel 1964, ma fu lui, l’anno prima, a insegnarmi i primi accordi, durante una vacanza in Marocco. Che ti posso dire di lui? Era bello, affascinante, pieno di talento ma, purtroppo, un manipolatore. Lo attraevano, su tutto, le belle donne, specialmente quelle sposate, meglio ancora se con un facoltoso marito alle spalle. Nonostante le sue qualità, salire sul palco lo agitava molto, quindi faceva largo uso di alcol e droghe. Finì così per smarrire la sua strada e, oso dire, alcuni dei suoi amici più cari. Se fosse stato in grado di controllare i propri demoni, sono convinto che sarebbe potuto diventare il nuovo Cat Stevens. Comunque sia, ha lasciato un’eredità di canzoni che le generazioni presenti e future ameranno per sempre.
Il maggiore talento di Robert Wyatt?
Semplicemente, essere Robert!
La critica musicale è concorde nel sancire “In The Land Of Grey And Pink” la vostra pietra miliare. Sei d’accordo?
Tutto vero: la maggior parte della critica specializzata lo considera il nostro capolavoro ed, effettivamente, è stato il nostro primo e unico Disco d’Oro. Ma non vorrei dimenticare neanche un album successivo, “For Girls Who Grow Plump In The Night”, che pure si è aggiudicato il Disco d’Argento.
Le ragioni del suo successo di “In The Land…”?
Oltre al discorso di aver spostato l’attenzione compositiva sull’organo di Dave, probabilmente eravamo anche nel posto giusto al momento giusto.
Prima di “For Girls…” avete registrato l’ottimo “Waterloo Lily”, caratterizzato anche per la collaborazione con un sassofonista che qui in Italia, ahinoi, conoscono in pochi: Lol Coxhill.
Fu di Richard l’idea di invitarlo in studio come sessionman per “Waterloo Lily”. Era un tipo estremamente interessante, un papà single che, quando c’era poco lavoro, per riuscire a pagare l’affitto, si metteva a suonare dei deliziosi e ammalianti assoli di sax per strada, a Kings Road. Lo notò il dj John Peel, il quale fu determinante nell’attirare l’attenzione del pubblico sul suo talento.
Ci sono degli elementi che escludi aprioristicamente di inserire nelle tue composizioni?
Ai musicisti non puoi applicare aprioristicamente elementi o formule, per quanto queste si siano rivelate efficaci. Certo, si ha il dovere di preservare il carattere della band, ma non dovrebbe essere un fatto che limiti il talento dei singoli musicisti che ne fanno parte. Guarda i Caravan: ogni volta che c’è stato un cambio di formazione ne sono derivati anche i graditissimi apporti di persone con nuove influenze e tutto questo ha inevitabilmente avuto un effetto sul risultato finale, senza per questo snaturare la formula. Per me è stato un piacere condurre ogni nuovo membro in questo viaggio collettivo, mantenendo sempre continuità con quello che eravamo stati prima.
Torniamo al ‘72: come hai reagito all’uscita dei cugini Sinclair?
Non ci sono stati veri e propri litigi; si trattava più che altro di una divergenza di opinioni sulla direzione da dare alla band: io premevo per il rock, Richard per il jazz. Dave nel frattempo era già uscito, per unirsi ai Matching Mole di Wyatt ma poi, in un secondo momento, è rientrato a più riprese per registrare coi Caravan.
Come sono i vostri rapporti, oggi?
Ho il massimo rispetto per il contributo fornito da entrambi i Sinclair, e mi rendo perfettamente conto che nessun gruppo può resistere al crollo, quando vi si esercitano due pressioni opposte. Al tempo ero comunque determinato ad andare avanti, a riorganizzare i Caravan dopo la dipartita di quelli che non erano solo colleghi, ma anche amici. Sono felice di poterti dire che ancor oggi ci capita di esibirci insieme.
A metà dei Seventies il prog è diventato improvvisamente roba da “dinosauri”. Eppure, riascoltando alcune vostre registrazioni live del ’72, vantavate un’attitudine (soprattutto riguardo alla chitarra elettrica) più punk del punk.
Cosa vuoi farci, le mode cambiano, e la musica non è esente da questo fatto. Anche se non ci è mai interessato seguire le tendenze di un dato periodo storico, eravamo colpevoli di aver perso il contatto con la situazione che si era sviluppata al tempo, in cui una nuova generazione di ascoltatori chiedeva a gran voce una forma musicale più grezza e basica nella quale identificarsi. Alla fine, però, la realtà si fece sentire, perciò, nell’82, optammo per un time out di riflessione. Letto col sennò di poi, l’approccio del prog rock, coi suoi lunghi e talvolta egocentrici assoli, oggi può essere considerato antiquato, fuori moda. Le band, inoltre, per la tipologia di strumentazione che impiegavano, erano anche particolarmente costose da ingaggiare.
Un gruppo come i Camel deve molto, in termini di stile, ai Caravan.
Penso che ci siamo influenzati vicendevolmente. C’era, questo sì, una sana competizione tra le due band anche se, a essere onesti, sono loro che hanno ottenuto il maggiore riconoscimento commerciale. E la ragione di questo successo, a mio avviso, risiede soprattutto nel brillante stile chitarristico del loro leader, Andy Latimer.
Un pezzo inciso nel nuovo millennio che ritrae a dovere il presente dei Caravan?
A questo punto ti dovrei rispondere che il pezzo più rappresentativo, il migliore, è “quello che non ho ancora scritto”. Dirò invece che “It’s None Of Your Business”, tratto dall’album omonimo del 2021, riassume bene la direzione attualmente imboccata dalla band.
Commercializzarsi è sempre, senza eccezioni, una scelta infelice?Commercializzarsi porta generalmente a un maggior riscontro economico e, beh, nonostante le migliori intenzioni del mondo, anche noi dobbiamo pagare le bollette a fine mese, perciò direi che è un’opzione che dovrebbe tener conto sia di questa esigenza, ma anche dell’effetto che potrebbe avere sui fan della prima ora. Entrambe le opzioni dovrebbero però essere considerate con rispetto.
Le nuove generazioni del rock catturano il tuo interesse?
La musica in generale è sempre una sorpresa per me. Come la maggior parte delle persone, anch’io a volte mi fisso su certe preferenze, un fatto di gusto personale, ma mi capita, di tanto in tanto, di ascoltare cose che mi spingono a investigare direzioni diverse. E non sto parlando di un genere o stile specifici; ascolto un po’ di tutto e sono influenzato dalla melodia in ogni sua manifestazione, si tratti di musica classica, rock, jazz o folk. Poi, sai, ci sono certi cosiddetti “esperti” che impongono arrogantemente la loro visione di cosa sia buona musica e cattiva musica. A questo riguardo c’è una citazione di non so chi che mi piace molto: “Non esiste una musica brutta, ma una musica suonata male”. Poi c’è la musica “così e così” ma, ascoltandola con attenzione, neanche quella è malvagia come la dipingono alcuni.
Aristotele: “La musica rappresenta direttamente le passioni dell’anima. Se una persona ascolta una musica sbagliata, diverrà una persona che incorre in errore”.
Naaa. Si ha sempre l’opportunità di cambiare idea e passare a qualcosa che piace di più. In definitiva, è solo una questione legata al gusto personale.
Un rimpianto della tua carriera?
Di non essere mai riuscito a raggiungere il gradino più alto della scala. Per carità, c’è ancora tempo per questo, anche se il mio tempo si sta esaurendo velocemente.
Hai atteso il 2017 per pubblicare “From The Half House”, il tuo esordio solista.
In realtà “For Girls …” del 1973 doveva essere il mio esordio solista, ma fui persuaso dal manager del tempo a farlo uscire con il marchio Caravan. Dopo un bel po’ di anni tornai a vivere nel mio paese natale, in Scozia. Pensavo, onestamente, che il nostro tempo come band fosse finito, che, sì, fino ad allora avevamo fatto un ottimo lavoro ma che era arrivato il momento di uscire col mio nome. Avevo comprato casa nel villaggio di Tomintoul, sulle montagne dei Grampiani e, in giardino, costruii un piccolo studio di registrazione. Passai mesi e mesi cercando di imparare tutto su come registrare in digitale ma alla fine capii che, più tempo ci perdevo e meno mi concentravo alla chitarra per lavorare alle nuove canzoni. Per fortuna decisi di affidarmi a mio figlio Julian, che è un produttore e ingegnere del suono così, finalmente, ho cominciato a registrare agevolmente le basi. Poi ho inviato le tracce a mio fratello Jimmy, il quale ha registrato tutti i fiati che senti nell’album, e ho concluso invitando nel mio studio l’ex-Soft Machine John Etheridge, che ha suonato alcuni assoli.
I Caravan si contraddistinguono anche per testi ironici, mai banali. Nel caso tu amassi la letteratura, che leggi?
Amo scrittori come Gilbert Keith Chesterton e poeti tipo John Betjeman. Quando mi trovo in empasse per il testo di una canzone, poi, faccio sempre riferimento a quelli capaci di accendere la mia ispirazione, gente come Bob Dylan o Paul Simon. Diciamocelo: la maggior parte dei miei primi testi era una schifezza e solo ora sto iniziando a capire l’importanza di un testo scritto a regola d’arte. Prima che il mio tempo sia scaduto, spero di uscirmene con qualcosa di veramente significativo.
Cosa fa scorrere la tua creatività?
Qualsiasi cosa, davvero, dalla luce del sole nel primo mattino a un pasto appetitoso e ben riuscito. Non ci sono limiti.
Ti spaventano le possibili implicazioni dell’IA in ambito compositivo? Magari un domani chiunque, attraverso un software, potrà comporre una canzone in stile Caravan…
L’IA diverrà un pericolo il giorno che non sarà guidata dagli input dell’essere umano, quando cioè inizierà a produrre musica a partire da una sua volontà personale. Ma, in ogni caso, pensaci: chi si piglierebbe i diritti d’autore?
Brexit. In definitiva, è stata una scelta azzeccata o no? I media italiani preventivarono il disastro, per il Regno Unito.
Il mio fu un voto nettamente contrario e ci rimasi male quando il risultato premiò quelli che erano per l’uscita dall’Ue. In realtà oggi ci sono così tanti casini in giro per il mondo! A volte ho il sospetto che tutto questo sia orchestrato e finanziato da potenze straniere. La mia preoccupazione principale, dunque, non riguarda solo gli effetti della Brexit, ma il fatto che potremo cacciarci da un momento all’altro in qualche altra guerra. Mi dispero se penso alla nostra classe politica, la quale è chiamata a trovare una via d’uscita da questi pasticci. Fino a oggi non se la sono cavata proprio così bene con la Brexit, sei d’accordo?
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Creare qualcosa che nasce dal nulla e che viene apprezzato da una folta schiera di perfetti sconosciuti i quali, col tempo, in un certo qual modo diventeranno tuoi amici.
Antonio Santini for SANREMO.FM