Nel 1972 ABC ha trasmesso un reportage sulla Willowbrook State School di Staten Island accusata di maltrattare e trascurare i ragazzi con problemi cognitivi. Un giovane reporter investigativo di nome Geraldo Rivera e la sua troupe hanno mostrato uno spaccato delle terribili condizioni in cui i minorenni erano costretti a vivere. Migliaia di telespettatori sono rimasti scioccati e hanno chiesto che Willowbrook chiudesse per sempre. Due di loro, seduti in un appartamento incasinato del Greenwich Village, hanno deciso di organizzare un paio di show di beneficenza per aiutare questi bambini.
È così che è nato il doppio concerto al Madison Square Garden del 30 agosto 1972 organizzato da John Lennon e Yoko Ono. È diventato leggendario perché è stato l’ultimo show completo del Beatle. In realtà, trasmesso dalla ABC, il concerto ha suscitato reazioni contrastanti e la pubblicazione nel 1986 del disco dal vivo e del video Live in New York City non ne ha migliorato la reputazione. E però, sapendo che i due concerti hanno avuto un ruolo fondamentale nel percorso artistico dei genitori, Sean Lennon desiderava da tempo rimasterizzarne la registrazione. I due show rappresentano anche un punto di svolta nel rapporto tra John e Yoko sia con la città che ormai chiamavano casa, sia con l’impegno politico a cui si erano votati. Il concerto meritava di avere una seconda chance e il contesto che ha portato agli eventi di quella notte dell’estate del 1972 meritava uno sguardo molto più approfondito.
One to One: John & Yoko, nelle sale italiane dal 15 al 21 maggio, prende il titolo dai due concerti di beneficenza e si concentra sui primi anni a New York della coppia, quando si sono trasferiti in un appartamento con una sola camera da letto al 105 di Bank Street, hanno fatto amicizia con attivisti come Jerry Rubin e John Sinclair, hanno passato un sacco di tempo a guardare la tv, hanno iniziato a capire come potevano vivere nell’era post Beatles. Diretto dal premio Oscar Kevin Macdonald, già regista di documentari su Bob Marley e Whitney Houston, si avvale di una gran quantità di filmati casalinghi, nastri di telefonate (un Lennon comprensibilmente paranoico le registrava perché credeva di essere sorvegliato dall’FBI) e molti filmati d’archivio in gran parte inediti. Macdonald ha anche ricreato fedelmente l’appartamento della coppia nel Greenwich Village, riproducendo persino gli oggetti abbandonati sul pavimento. Se avete mai desiderato entrare in una tana bohémien d’inizio anni ’70, o ascoltare Lennon che discute col manager Allen Klein di uno show di beneficenza per la prigione di Attica, oppure l’assistente della coppia May Pang che parla con un esperto di mosche per una mostra di Yoko, vi sembrerà d’essere in paradiso.
L’idea, spiega il regista, non era semplicemente saltare sul gigantesco carrozzone della saggistica sui Beatles, ma di far luce su quello che lui ritiene uno dei periodi cruciali e trasformativi di John e Yoko. «Perché non provare a offrire una prospettiva un po’ più esperienziale e mostrare com’era la vita di questa coppia in questa città e in quel periodo?».
Nel corso di un paio di conversazioni (una al Sundance a gennaio e l’altra a Los Angeles a febbraio), Macdonald ha raccontato perché era riluttante a fare il film, come sono riusciti a ricostruire l’appartamento di Lennon e Ono, perché il film parla anche del presente, come l’abbia aiutato a vedere le due figure leggendarie sotto una luce completamente nuova.
All’inizio i Mercury Studios ti hanno contattato per fare un film-concerto, giusto?
In realtà a cercarmi è stato Peter Worsley, il produttore che ha impiegato un sacco di tempo per ottenere i diritti di utilizzo del concerto. I Mercury Studios erano già al lavoro sulla cosa.
Stavano rimasterizzando l’audio?
Sean Lennon voleva rimasterizzare l’audio del concerto, che era registrato malissimo. Non so se hai visto qualche spezzone di quello che è stato trasmesso originariamente: ce ne sono un po’ su YouTube tratti dalla videocassetta del 1986. Non è mai uscita una riedizione vera e propria perché la qualità non era delle migliori e credo che secondo la famiglia quella roba non rappresentasse al meglio John. Solo negli ultimi anni hanno pensato che, grazie alla tecnologia odierna e ai progressi incredibili fatti dal remix digitale, si sarebbero potute isolare le tracce per farne un remix adeguato. A quanto mi risulta, Sean stava per remixare il concerto quando Peter e i Mercury Studios hanno tirato fuori l’idea del film per contestualizzarlo
In pratica un film-concerto con qualche extra?
Una cosa del genere. Quando mi hanno contattato, ho guardato il girato originale e mi sono reso conto che si vedeva e si sentiva malissimo. Ho capito che c’era del buon materiale solo quando mi hanno portato dove stavano remixando l’audio e ho sentito quel che erano riusciti a fare. A essere sincero, ero preoccupato all’idea di fare un altro film su John Lennon o sui Beatles. Quando Lennon è morto io avevo 13 anni, ero un suo fan. Certo, fare un film su Lennon era il mio sogno fin da bambino, ma come si fa a tirare fuori qualcosa di nuovo? È stato già detto e fatto tantissimo. Poi ho pensato: perché non provare a dare al pubblico una prospettiva più esperienziale e mostrare com’era la vita della coppia in quella città e in quel periodo?
Nessuno ha mai indagato così a fondo su quei 18 mesi, no?
Se si fruga fra i filmini, le foto, i ricordi della loro vita insieme, è il periodo migliore. Telecamere e troupe spesso li accompagnavano alle manifestazioni o alle mostre. E poi registravano le telefonate. Quindi questo, probabilmente, è l’unico periodo della loro vita di cui c’è abbastanza materiale per poter adottare questo approccio.
Così vengono colmate le lacune che ci sono nella narrazione convenzionale, che è sempre stata tipo: John e Yoko sono venuti a New York, c’è stato il lost weekend e poi lui è tornato. Si sono trasferiti al Dakota e John ha iniziato a fare il pane…
E poi è stato ucciso… Ma così restano fuori un sacco di cose importantissime. Questo c’è di interessante, che più si scava in questo periodo, più si capisce quanto abbia segnato un cambiamento radicale per entrambi, ma soprattutto per John. È il momento in cui dall’essere un ex Beatle che non ha un attimo di tregua, e la cui moglie viene ingiustamente incolpata per lo scioglimento della band, diventa l’attivista pacifista degli anni ’70. È il momento in cui si chiede: chi sono? Come posso reinventarmi? Come devo usare la mia influenza? Come dovrei pormi nei confronti di Yoko, delle donne e del femminismo? Grazie all’accesso a questo materiale, il film ha un’atmosfera molto intima. Non credo che i fan più accaniti dei Beatles verranno a conoscenza di troppe particolarmente nuove, ma voglio che si sentano come se avessero passato del tempo insieme a John e Yoko.

Lennon, Yoko e la figlia di lei Kyoko Ono Cox. Foto press
Sapevi già molto di questo periodo della vita dei due o ti sei trovato di fronte a tante cose che non conoscevi?
Ho imparato parecchie cose… ero un grande fan, ma, per esempio, non sapevo nulla di Kyoko (Ono Cox, la figlia di Yoko contesta da padre e madre, ndr). Mi domando: com’è possibile che, pur avendo letto così tanti libri su Lennon, ne ignorassi l’esistenza? Mi ha stupito il fatto che anche molti altri fan sfegatati non sapessero nulla di lei e della lotta che John e Yoko hanno affrontato per lei. È stata una cosa molto importante per loro ed è uno dei motivi principali per cui sono venuti in America: la cercavano. Sapevano che era stata rapita dall’ex marito di Yoko e hanno ingaggiato dei detective privati. Soprattutto è qualcosa che ci fa capire molto meglio Yoko. Era una donna devastata dalla perdita della figlia e che, in quella bellissima canzone…
Looking Over From My Hotel Window…
Lì lei parla del solore per la separazione della figlia e si domanda: sono una cattiva madre? È giusto che me l’abbiano portata via? Mi fa avvicinare a Yoko e me la fa vedere sotto una luce diversa.
Nel film metti quella canzone subito dopo aver mostrato Lennon che esegue Mother. È quasi come se i due brani dialogassero tra loro.
Penso si possa dire che il tema di questo film o uno dei suoi temi principali sono i bambini e l’infanzia infelice. Lennon ha sempre parlato del fatto che la morte della madre gli aveva lasciato un grande peso addosso e probabilmente questo l’ha spinto a diventare ciò che è diventato. Per non parlare del suo carattere difficile che ben conosciamo. E Yoko era alla ricerca della figlia. Quindi, quando loro due hanno visto le sequenze girate a Willowbrook, con quei bambini che soffrivano, credo che abbiano provato un’enorme empatia nei loro confronti.
Mi pare che Yoko, quando le viene chiesto perché fanno questo concerto di beneficenza per Willowbrook, dica proprio: «Come madre…».
Sì ed è per questo che mi è sembrato giusto concludere con la nascita di Sean. Perché è come una chiusura del cerchio, in un certo senso. Loro sono pronti a dedicare le loro energie all’essere una famiglia. E poi la storia di Willowbrook è incredibile. Credo che alcuni sappiano del reportage giornalistico che ha denunciato le condizioni di quel posto e i fan di Lennon sanno del concerto, ma non sono sicuro che il legame tra le due cose sia noto.
Una mia curiosità: il cosiddetto lost weekend di Lennon è diventato una parte importante della sua storia e sembra essere un elemento fondamentale anche della storia di John e Yoko come coppia. Perché qui non se ne parla proprio, anche se si finisce con la loro riconciliazione e la nascita di Sean?
Non è tanto dovuto al fatto di non voler parlare di quel periodo di separazione, quanto alla struttura del film. Che era: loro si trasferiscono in quell’appartamento e poi se ne vanno da lì. Ho proprio pensato: non ho intenzione di inserire cose successe prima e dopo, questa è la loro vita a New York e non farò un capitolo in più su di lui a Los Angeles. Mi stavo mettendo dei paletti tra cui: niente interviste A parte gli inserti che mostrano ciò che John e Yoko guardavano in tv in quel periodo, non ho inserito materiale esterno. Il punto era: questo archivio cosa ci racconta della loro vita in quel breve periodo?
È dipeso anche dalle registrazioni e dai video che avevo a disposizione. Se avessi avuto delle telefonate di lei che gli gridava dietro o altro, le avrei inserite. Se avessi avuto a disposizione del materiale sul lost weekend dal punto di vista di John o Yoko, probabilmente avrei allargato un po’ l’arco temporale coperto dal film. Non credo che agli eredi sarebbe dispiaciuto e, credimi, ho esperienza di battaglie con gli eredi dei musicisti per l’utilizzo di materiale. Ma loro sono stati generosissimi e molto discreti. John e Yoko si sono trasferiti al 105 di Bank Street nell’ottobre del 1971 e se ne sono andati nell’aprile del 1973: e questo è il film. L’unica cosa che ho messo, di posteriore a quel periodo, è il loro arrivo al Dakota: è mezzo vuoto e lui suona il piano. E questa è la fine del film. Mi sembrava che ci fosse bisogno di mostrare un piccolo momento della loro vita a New York dopo in periodo burrascoso in cui erano arrivati e avevano finalmente trovato un equilibrio.
Gli eredi avevano potere di veto?
Mi hanno dato accesso a tutto quello che possedevano: non so se custodivano qualcosa di controverso o se c’era l’idea di mettere veti in seguito. Quando ho illustrato a Sean la mia idea originale, la sua risposta è stata subito: «A mia madre piacerebbe tantissimo, vai avanti e fallo». Essendo lui stesso un musicista e un creativo, ha apprezzato che il film non fosse solo il resoconto di una performance o che riducesse tutto a «John era questo, Yoko era quella». E mi ha detto una cosa interessante. Dopo che gli ho mostrato uno spezzone, ha detto: «Questo è l’unico film che ho visto che coglie chi era veramente mia madre». È stato bello sentirselo dire.
Parliamo dell’idea di ricostruire l’appartamento di Bank Street e di come hai convinto tua moglie (la scenografa Tatiana Macdonald, ndr) a tornare al lavoro, anche se era in pensione.
(Ride) Aveva smesso di lavorare da tre anni circa. Le ho accennato l’idea di ricreare l’appartamento di Bank Street il più fedelmente possibile. Sai, una coppia che lavora a un film su una coppia… Insomma, ci siam detti che sarebbe stato bello lavorare insieme, anche se temo che alla fine del film credo si sia detta: «Ora ricordo perché sono andata in pensione». È stata la cosa più difficile che abbia mai fatto, così ha detto.
Sono colpito dal fatto che siate ancora sposati.
Anch’io (ride). Il fatto è che quando giri un film su una popstar di fantasia degli anni ’70 puoi arredare l’appartamento di quel musicista come vuoi, purché tutto sia coerente con l’epoca. Ma il loro archivio è molto ben organizzato e quindi ci hanno mandato una lista dei libri, dei dischi e di tutto ciò che c’era a casa loro. L’appartamento in cui avevano vissuto stava per essere demolito e le tariffe assicurative per portare tutte le cose in Inghilterra, dove avevamo ricostruito l’abitazione secondo le specifiche esatte, erano proibitive. Così abbiamo dovuto arrangiarci. Per esempio, abbiamo fatto ricreare a mano la trapunta del loro letto: quella vera esiste ancora, ma farla arrivare dagli Stati Uniti costava troppo. Siamo riusciti ad avere alcune chitarre da dei collezionisti nel Regno Unito. Siamo dovuti andare in Polonia per trovare lo stesso amplificatore che Lennon usava all’epoca. Non siamo riusciti a trovare il modello preciso di televisore che avevano, quindi abbiamo dovuto ricostruirne uno usando pezzi vari.
Avevate la mappa dell’appartamento e delle fotografie di riferimento?
Non ci sono molte foto dell’appartamento, ma siamo riusciti a riprodurre ogni minimo dettaglio, anche il disordine, dai giornali infilati in fondo al letto alle cose lasciate sul pavimento. Era un posto piuttosto disordinato e mi colpisce il modo in cui mia moglie è riuscita a dare la sensazione di entrare in questo appartamento incasinato, come se fosse rimasto intatto per mezzo secolo.
C’è anche molta attenzione su ciò che John e Yoko guardavano in tv in quel periodo.
Volevo far rivivere il modo in cui vivevano l’America attraverso la tv. John parlava spesso della sua passione per la televisione e di come abbiano passato buona parte dei primi anni in quell’appartamento a osservare l’America attraverso la lente della tv. Teniamo presente che in Gran Bretagna c’erano solo tre canali, la programmazione terminava a mezzanotte, di pomeriggio praticamente non c’era nulla. Poi, all’improvviso, si sono ritrovati in un Paese dove c’erano 120 canali, una cosa pazzesca. I miei nonni sono americani, quindi da bambino sono stato parecchio tempo negli Stati Uniti e stavo di continuo davanti alla tv, guardavo qualunque cosa. Ho pensato che, essendo inglese, John aveva provato la stessa cosa. Ci sono molte foto di loro che incontrano persone in quell’appartamento e c’è sempre la tv accesa sullo sfondo. Mi è venuta l’idea di trasformare quel luogo nel centro del film. L’ironia della sorte è che la tv è stata in parte responsabile della loro politicizzazione, visto che vedevano ciò che stava succedendo in America.
È anche il motivo per cui Lennon si è disamorato dell’idea della rockstar che cambia il mondo, cosa che sottolinei inserendo nel film spezzoni di repertorio sulla vittoria elettorale di Nixon nel 1972.
Esatto! Il fatto che il conduttore del tg dica che Nixon è stato votato dal 53% dei giovani ha distrutto Lennon, o almeno così credo. Ed è bizzarro che quello che si vede nel film rispecchi molto da vicino la situazione politica attuale. Non è stranissimo?
Si possono leggere molte cose sulla campagna presidenziale di George Wallace, ma spesso si dimentica quanto i suoi discorsi fossero populisti. E quando in One to One si vedono degli spezzoni di questi discorsi, ad ascoltarli ora…
Suonano familiari, vero? È la storia che si ripete ciclicamente. Quello che mi ha colpito è che, mentre portavamo questo film in giro per i festival, tanti giovani, molti spettatori tra gli adolescenti e i ventenni, ne sono rimasti colpiti. Dopo le proiezioni ci sono stati dei dibattiti in cui mi hanno detto «Mi sembra che questo film parli del mondo di adesso» oppure «Non credevo che le celebrità potessero essere così impegnate politicamente, scendendo in prima linea e partecipando alle manifestazioni».

Un fotogramma del film. Foto press
L’idea dell’uso della fama a fin di bene è una parte importante del film, no?
Esatto. È una parte importante del “secondo atto” della vita di Lennon, se vogliamo definirlo così.
Dopo tanti anni passati a vagliare questo materiale e a ragionare sulle prese di posizione politiche di Lennon, credi che il rapporto tra lui e Jerry Rubin fosse totalmente strumentale o è troppo semplicistico?
Questa è l’idea comunemente accettata sul loro rapporto, cioè che Rubin usava Lennon e Lennon usava Rubin. Ma Lennon era piuttosto sprovveduto a proposito di molte cose che stavano accadendo. Credo che lo si capisca proprio dalle registrazioni delle sue telefonate con Allen Klein. Dopo un po’ diventano esilaranti. Credo che John, per tutta la sua vita, ma in particolare in questo periodo, abbia tentato di capire chi era e cosa poteva fare dopo essere stato uno dei Beatles. Pensa alla situazione: hai 31 anni e sei una delle persone più famose al mondo. Cosa diavolo fai, dopo? Come lo sfrutti? Che strada puoi prendere?
Credo sia giunto alla conclusione che i rivoluzionari fossero le nuove rockstar e stesse cercando di capire se Jerry era davvero uno che poteva insegnargli l’attivismo politico. Penso all’entusiasmo con cui abbraccia Rubin e lo fa entrare nella band e al momento in cui stanno per iniziare il Free the People. Quando partecipa alla campagna per liberare John Sinclair comincia a pensare: «Forse possiamo davvero cambiare il mondo». Poi resta deluso e arriva a rifiutare l’idea che la violenza politica sia una specie di fine ultimo.
“Se parli di distruzione, non contare su di me”.
(Ride) È come nella canzone. A un certo punto abbiamo anche pensato di mettere Revolution nel film, magari come pezzo finale, ma sembrava un po’ troppo scontato…
Ottima scelta.
Quando hai accesso a tutto il catalogo musicale di Lennon, la tentazione è quella di inserire tante canzoni. Come essere un bambino in un negozio di caramelle. Credo che l’unico pezzo dei Beatles che usiamo sia Come Together e ha molto più senso. Penso che nella versione che abbiamo utilizzato lui non stesse parlando dei Beatles, ma di tutti quelli che si uniscono per far andare bene le cose. Tornando al discorso della disillusione, sì, credo che John sentisse che il movimento era un fallimento. E poi alla fine ha capito: «Posso fare qualcosa per rendere il mondo un posto migliore». Cioè raccogliere fondi per quei ragazzi.
Il concerto One to One ha aiutato molto a raccogliere fondi per l’istituto e a sensibilizzare la gente. Anche se Lennon non si è mai più esibito in concerto da solista, per lui era un successo sia personale che professionale?
È stato un successo in termini di fondi raccolti per la causa. Ma credo che la reazione l’abbia un po’ spiazzato. Il tono delle recensioni uscite dopo che ABC aveva trasmesso lo show era: «Perché è così brutto? Perché il suono è così confuso? E perché diavolo non ha suonato tutte canzoni dei Beatles?». Erano questi i parametri secondo cui veniva giudicato all’epoca. Ed è folle, perché ora, guardando il concerto, si capisce che lui è bravissimo, carismatico, divertente. Viene davvero da pensare perché diavolo non l’ha più fatto.
Hai trovato una risposta a questa domanda?
Lennon stesso ha detto di avere sofferto di ansia da palcoscenico, durante lo spettacolo. Credo che questo, in parte, sia il motivo per cui non ha mai più fatto un concerto intero. Ma credo anche che, vedendo le stroncature nelle recensioni, abbia pensato: «Non ho intenzione di rimettermi in gioco se non riescono ad apprezzare quel che sto cercando di dire». Devo dire che questo è stato l’unico momento in cui ho pensato di infrangere la regola di non utilizzare materiale che non fosse stato fornito dagli eredi. Però, se avessi trovato un’intervista televisiva in cui John parlava di ciò che pensava di quel concerto, mi sarebbe piaciuto usarla. Siamo riusciti a scovare solo recensioni scritte del New York Times e altre testate, ma non volevo limitarmi a mostrare un titolo statico.

Il regista Kevin Macdonald. Foto: Magnolia Pictures
A proposito, mi puoi parlare del modo in cui hai reso visivamente le telefonate, abbinando il testo sullo schermo alle registrazioni audio?
Il modo più convenzionale per farlo sarebbe stato montare le registrazioni su filmati d’epoca, ma sono giunto alla conclusione che è meglio che il pubblico si concentri su quel che viene detto, senza distrazioni. E poi quei botta e risposta sono divertenti e ironici, le conversazioni ti coinvolgono senza bisogno che ci sia altro. Per non parlare del fatto che si origliano le parole di personaggi giganteschi. Stiamo ascoltando Lennon che parla con Allen Klein dell’organizzazione di un tour o l’assistente di Yoko che parla con un gallerista di una delle sue prossime mostre. È affascinante.
Si imparano un sacco di cose sulle mosche.
C’erano davvero tantissime cazzo di telefonate sulle mosche: non finivano più. Ne ho messa solo una minima parte. È una specie di racconto interminabile senza capo né coda, ma ha un senso a livello narrativo.
Spiega.
Vedi, tutti hanno una loro idea su Yoko. Ma lei, prima di tutto, è una vera artista ed era già piuttosto nota prima di incontrare John. È il tipo di artista che si fissa su cose del tipo: mosche che camminano sul corpo nudo di una donna. Che cosa significava? Non lo so. Ma poi, perché doveva significare qualcosa? Era un’installazione artistica. Sentire quelle discussioni sulla logistica per tenere in vita le mosche è esilarante, ma anche illuminante. Ti fa capire un aspetto di quel che vuol dire essere artisti concettuali.
Cè voluto un po’ di tempo per ripulire le registrazioni: erano vecchie, la qualità non era ottima e, dato che tutti parlavano velocemente, era impossibile sentire tutto chiaramente. Ma, come ho detto prima, è incredibile quel che la tecnologia può fare. Una volta che abbiamo iniziato a passarle in rassegna abbiamo capito che erano una miniera d’oro. Sentire Yoko che parla di quel che ha vissuto a Londra e del modo in cui è stata trattata fa capire che dovevano per forza andarsene da lì. Dovevano venire in un posto dove la gente li avrebbe lasciati in pace. E quel posto era New York: lì si sentivano a casa.
Da Rolling Stone US.