L’autunno scorso, scrollando i social, sono incappato in Mowgli CLL, che sta per C’est La Life, trapper di seconda generazione con poco più di 300 follower su Instagram. Mi aveva incuriosito il videoclip del pezzo SL Freestyle, auto-prodotto e girato a Milano a pochi passi da via Padova, storico simbolo della città multietnica, in Largo Tel Aviv: la targa della piazza veniva cancellata con lo spray rosso da un ragazzo con la maglia dell’Inter che scriveva “Gaza” sul marciapiede con la stessa bomboletta mentre Mowgli con passamontagna d’ordinanza e microfono iniziava a rappare di una ragazza “bella come Tel Aviv in fiamme”. Combat trap, la politica che torna nelle canzoni, dal basso, senza hype, nessuna new sensation come dicono quelli delle discografiche: aria fresca e nuova, possibili polemiche a non finire.
Qualche settimana dopo ho ritrovato il suo nome nelle cronache locali per un dissing dell’eurodeputata della Lega Silvia Sardone che accusava Mowgli di averla minacciata e mandata fanculo in un suo freestyle (poi capiremo meglio come è andata davvero la faccenda). Come se non bastasse il marito di Sardone, il consigliere leghista Davide Camparini ha girato un video musicale camminando per via Padova con la chitarra in spalla come un Van De Sfroos qualsiasi mentre una voce generata con l’AI cantava “Per scrivere una canzone, devi insultare la mia nazione / Non è colpa della Sardone se sei un coglione”.
Maranza, islamofobia, trap, razzismo, periferie: ci sarebbe stato materiale per due stagioni di Del Debbio su Rete 4, per una Zanzara infinita di Cruciani, e invece nulla. «Non è un ambiente adatto a noi», mi spiega il suo amico e manager Alyx al telefono dopo esserci scambiati i numeri sui social . «Quelli della Zanzara hanno cercato di convincermi in tutti i modi, però lì cercano solo il personaggio maranza che faccia casino, non vogliono discutere davvero».
Un paio di mesi dopo Alyx mi invita a incontrare Mowgli durante le riprese di un suo nuovo video, uscito dopo la fine del Ramadan, che si intitola Haram Freestyle 2. «È la seconda parte di un progetto iniziato due anni fa. Haram significa illecito» spiega Alyx «perché durante il Ramadan la musica, l’utilizzo di strumenti musicali, è vietato dalla religione, quindi il pezzo è a cappella. Il video lo giriamo durante l’Iftar, il pasto serale che interrompe al calar del sole il nostro digiuno quotidiano del Ramadan… tutti noi siamo musulmani osservanti. Ci sarà una tavolata incredibile: ti piace la cucina araba?».
Al calar del sole di un sabato di fine marzo arrivo a Quarto Oggiaro, spesso chiamato il Bronx di Milano, niente più di un luogo comune da quartiere popolare. Nel cortile di una palazzina dei ragazzi stanno sistemando all’aperto tavoli, sedie e tovaglie, con la speranza che il tempo regga. Alyx mi presenta Mowgli, una ragazzo 23enne di origini egiziane con una folta chioma di capelli con una tuta street bianca. «È anche per quello che mi chiamò così, per i capelli». E per cos’altro? «Perché Mowgli è cresciuto con gli animali nella giungla, si è dovuto ambientare, far finta di essere come loro». E la tua giungla qual è? «Milano. CLL, C’est La Life è invece un omaggio al mio gruppo preferito, i PNL».
Mi racconta che il posto in cui ci troviamo – un magazzino con affaccio sul cortile interno – è di un’associazione che si chiama Dar El Kalimat di cui fa parte il suo amico Hani: aiutano più di cento famiglie ogni settimana a fare la spesa (accanto a noi sono accatastate scatole di zuppe e cartoni di succhi di frutta), fanno corsi di italiano per donne arabe e… pure corsi di zumba. «Questo» mi dice Mowgli indicandomi Hani «è lo stesso ragazzo che magari vedi in tuta, col cappellino e col borsello e allora dici che è un maranza, ma è la stessa persona che gestisce l’associazione aiutando gli altri». Sì, Hani ha una faccia da attore, potrebbe essere tranquillamente nel cast della serie Gangs of Milano, ha il sorriso dolce e lo sguardo da duro.
Poi mi presenta Mosa One, è un’artista e completerà una sua opera nelle riprese del video. «Fa cose fighissime, è stato riconosciuto anche all’estero», racconta Mowgli, «ma nessuno in Italia ha mai voluto investire su di lui o dargli una mano». Mi mostra sul cellulare il profilo IG, e gli do ragione, i dipinti sia su tela che sui muri sono stupendi. Tra i reel c’è anche un suo video che si intitola “Messaggio di un maranza al Ministero della Cultura”. Chiedo direttamente a Mosa One: ma tu non sei un maranza? «Sì, ho messo quel titolo solo per catturare l’attenzione, è molto più forte che scrivere di un artista di origini arabe con accento romano che vive a Milano e vorrebbe campare della sua arte senza essere ignorato dalle istituzioni». Giusto, maranza marketing!

Mowgli CLL con Mosa One. Foto press
Nel frattempo in tavola vengono portati succulente teglie di piatti della tradizione araba più qualche cartone di pizza per sfamare i ragazzi a digiuno dall’alba. Alcuni hanno appena finito di giocare a pallone, il match del sabato, e si presentano in pantaloncini e scarpette. «Tra loro ci potrebbe essere il prossimo Lamine Yamal», dice Mowgli, «sempre che non vengano scavalcati dal figlio di quello che ha l’amico manager. Non vengono aiutati da nessuno: magari non hanno i soldi per pagarsi un procuratore, non possono permettersi i viaggi per andare a giocare in una squadra più forte e allora che fanno? Iniziano con le sigarette, con le canne, iniziano a fare altro, perché hanno un sogno in cui nessuno vuole aiutarli, capito?».
Ci siamo quasi, rimane solo da appendere la bandiera della Palestina sullo sfondo della tavolata per il video mentre Mowgli mi presenta altri due amici artisti, Blocage del quartiere Bovisasca e Dib4Real da Londra. A salire sulla sedia con lo scotch in mano c’è un ragazzino – sembra il più giovane del gruppo, e ormai qui siamo una ventina – con una maglia con i colori verde rosso e nero, che sta dando istruzioni in arabo a un amico che controlla se la bandiera è dritta. «Lui» mi racconta Mowgli «sembra il più arabo di tutti, in realtà entrambi i suoi genitori sono italiani. Lui nasce parlando italiano ma essendo della zona di via Padova tutti i suoi amici erano arabi e quindi ha imparato la lingua, senza studiarla, per strada. E ora lo parla meglio di noi…». Quando si dice l’università della strada. Ora chiedo a Mowgli che mi racconti un po’ cosa significa per lui e per questi suoi amici la bandiera alle nostre spalle. E che mi parla di lui, della sua musica. «Ok, ti dico quello che vuoi sapere, ma prima assaggia queste salsicce d’agnello, l’ospitalità a tavola per noi è tutto».
Ci sediamo a chiacchierare all’aperto, Mowgli sulle gambe ha appoggiato il passamontagna con cui si coprirà il volto durante il video, i suoi amici mangiano, chiacchierano, scrollano il telefonino. Intercetto delle immagini che brillano nel buio: video di calciatori, selfie con amici e immagini del disastro che sta avvenendo in queste ore a Gaza si mischiano senza continuità.
Accendo il registratore, parto con una delle domande che mi sono appuntato: perché indossi il balaclava nei tuoi video? «Non voglio vivere per sempre di questo. Ho sempre lavorato, e lo stesso anche gli altri della mia crew. Sappiamo che la musica è una passione ma per il futuro ci immaginiamo una vita diversa». Che lavori hai fatto? «Tanti, tutti lavori manuali, perché non ho finito la scuola: carpentiere, muratore, ora lavoro col ferro». E che futuro ti immagini? «Una famiglia, dei figli, un lavoro. Sono consapevole che pur piacendomi scrivere e fare musica questa cosa sarà limitata nel tempo. Per noi la religione è importante, nonostante ognuno commetta tanti errori, ed è un concetto che vogliamo portare nella scena perché pochi lo fanno. Non voglio rappresentare nessuno, solo me stesso, un ragazzo arabo, sono un ragazzo umano…». E un ragazzo italiano, no? Sei nato qui. «È un tema molto grande. Quando accendi la tv senti solo dire che gli arabi delinquono, fanno cose brutte, poi torni a casa e vedi tuo padre che ha la schiena distrutta dal lavoro. La divisione tra arabi e italiani non è una cosa che abbiamo voluto noi, ma a furia di sentire che non ci volete… abbiamo cambiato idea rispetto alla generazione dei nostri genitori che faceva di tutto per sembrare italiana e essere accettata». In che modo l’avete cambiata? «Abbiamo accettato la situazione: tu mi dici tutta la vita che io non sarò mai italiano? Va bene, non sono italiano, ma io sono quello che sono, devi però accettarmi per forza, a meno che io commetta degli errori gravi. Sono nato qui, pago le tasse qui, ma non mi interessa più di essere accettato dagli altri. Altri che spesso solo solo ignoranti, magari hanno i loro problemi – le tasse, il lavoro, la famiglia – e se la prendono con noi».
Che messaggio vuoi che passi con la tua musica? «Dipende dal momento in cui scrivo, dipende da cosa sto facendo in studio, però sicuramente voglio parlare senza limitazioni di quello che mi sta a cuore, come la Palestina. So a cosa vado incontro esponendomi su certi temi, in un pezzo parlando di Gaza dico: “Non vedrai il mio nome in lista Fimi”. Ma devo farlo, devo parlare di ciò che sta succedendo, altrimenti sarei un ipocrita: a Gaza ci sono i nostri fratelli, gente in carne e ossa come noi che viene bombardata ogni giorno. Poi mi tocca rispondere alle cose non vere che dice Silvia Sardone…».
Ecco, a questo proposito, raccontami bene cosa è successo… «Tempo fa avevamo visto che erano usciti dei suoi video in cui attaccava gli egiziani parlando della “danza del coltellino” fatta da alcuni ragazzi a Milano. A parte il fatto che si tratta di una danza popolare dei matrimoni che si fanno per strada in Egitto, l’obiettivo della Sardone era quello di fomentare odio sugli immigrati e sui ragazzi di seconda generazione. Allora ho risposto con un video, sicuramente provocatorio, in cui in quattro barre parlo di lei e alla fine la mando affanculo. Volevo esprimere con toni forti il mio dissenso per i politici e i media che ci strumentalizzano per la loro propaganda».
L’eurodeputata ha detto anche di te si sarebbe occupata la Digos. È stato così? «Una falsità. Ho l’anima in pace perché nel mio testo non ci sono minacce nei suoi confronti. Vedendola da fuori poi la situazione è imbarazzante, con suo marito che si mette a farmi un dissing! Dovrebbero essere i nostri esempi di civiltà loro?». Tu vuoi dare l’esempio? «No, ma non voglio neanche fare il gangster o il maranza, voglio solo portare un messaggio. Come dico nel freestyle che registriamo dopo, io “sparo con la penna”, le mie parole magari possono fare più male di andare in piazza Duomo a fare casino». Ma in piazza Duomo ci vai per le manifestazioni ProPal? «No, intendo in generale i ragazzi che vanno in giro a fare casino. Io non ci vado, uso la musica, ma capisco la loro rabbia: se continui a dire a uno che non è italiano, che è un delinquente, che nella vita non combinerà mai nulla, alla fine quello tenterà di diventare peggio di quelle parole. Se io vengo da una zona di merda, da una periferia di Milano che fa schifo, non c’è nessun aiuto, e fuori mi dicono solo che faccio schifo, che diventerò un criminale…. Cosa immagini che diventerò? Se uno per venire in Italia a lavorare ha affrontato il mare, la giungla, le violenze, la fame e poi una volta arrivato si è visto negare non solo il lavoro ma anche i documenti… con che spirito vivrà qui a Milano?».
Tu, voi che siete qui stasera, non siete diventati così. Perché? «Noi siamo stati fortunati. Abbiamo cominciato lavorare fin da ragazzini, capendo subito che c’era un modo onesto per guadagnare e mangiare». Da quanto tempo avete abbracciato la causa palestinese? È una cosa recente? «No, fin da piccoli andavamo con i nostri genitori alle manifestazioni per la Palestina. In un mio pezzo dico: “Voi cresciuti con i cartoni animati, noi con Al Jazeera” perché i nostri padri quando tornavano a casa dal lavoro accendevano quel canale e noi ci informavamo di tutto. Molti dei miei amici arabi alle medie, quando c’era il minuto di silenzio per la Giornata della Memoria provavano a dire qualcosa sulla Palestina e subito nasceva una discussione con la prof».
Oggi, dopo il 7 ottobre è cambiato qualcosa? «No, a parte che con i social oggi tutti possono vedere il massacro, nessuno lo può ignorare. Muoiono in diretta migliaia di persone». Oggi c’è un confine molto labile tra difendere la causa palestinese ed essere accusati di antisemitismo… «Allora, mi prendo la responsabilità di quello che dico. E parlo solo per me. Se tu cresci in un posto dove tutto il tuo albero genealogico è stato estirpato, in cui i parenti ti muoiono davanti agli occhi e devi bere l’acqua delle pozzanghere, non hai cibo e non hai casa… come devi fare? Porgere l’altra guancia? Io non lo faccio. Credi davvero che possa essere la giusta soluzione il cessate il fuoco? Quando hai ucciso centinaia di migliaia di persone di un popolo, davvero il cessate il fuoco è la soluzione? Non è forse processare chi ha fatto tutto questo?».
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Durante le riprese del video di ‘Haram Freestyle 2’
È arrivato il momento di iniziare le riprese di Haram Freestyle 2 e Mowgli si cambia, sopra la tuta mette la dishdasha – la tunica bianca tradizionale musulmana – e sul volto il balaclava: «Non mi piace l’immaginario di collanone e abiti firmati di certa trap, preferisco un profilo basso, essere quello silenzioso della stanza».
Il giovanissimo regista AAFrames – che oltre a fare il videomaker studia economia all’università – controlla le luce e sistema l’inquadratura. Io rimango come spettatore prima di tornare nella mia bolla piccolo borghese a qualche chilometro verso il centro, ringraziando Mowgli per l’opportunità di parlare di musica e di politica con un ragazzo di 23 anni, un favore oggi per me superiore a quello di incontrare una navigata rockstar d’oltreoceano. Se la sua trap arrivasse in classifica il mondo sarebbe un posto più interessante.