Band come Move, Traffic e Moody Blues dimostravano che non dovevi per forza venire da Liverpool per avere successo
(Ozzy Osbourne)Pensavamo che l’obiettivo della nostra musica fosse arrivare a testa e cuore, piuttosto che all’inguine. Gli Stones puntavano alla volgarità. Ma bisogna sempre arrivare a un equilibrio. “The Other Side Of Life” era di fatto un tentativo di essere volgari
(Graeme Edge)Eravamo abbastanza amici con i ragazzi dei Beatles. Vennero a casa nostra con il loro ‘Sgt. Pepper’s’, e quando finimmo ‘Days Of Future Passed’ avevamo bisogno di un loro parere. Ascoltarono il nostro disco e rimasero impressionati. Voglio dire, Sgt. Pepper’s era un po’ fatto da sé, mentre Days Of Future Passed credo fosse più un concept-album.
(Ray Thomas)
Birmingham Skiffle
Quella dei Moody Blues è la storia di un gruppo R&B nella Birmingham dei primi anni 60. Nel Regno Unito un genere musicale dalle origini oscure domina le scene, trascinando la vendita di chitarre che finiscono tra le braccia di ragazzini pronti a tutto pur di esibirsi in pubblico. Alla fine degli anni 50 si stima tra 30 e 50mila il totale delle band inglesi che hanno accolto l’ossessione per lo skiffle, classificabile come forma di musica folk con diverse influenze tra cui blues, country e bluegrass. Le origini dello skiffle risalgono alle comunità afro-americane, diffusosi nelle aree a sud con l’utilizzo di strumenti improvvisati come il banjo o la cigar-box. Sparito negli anni 40, lo skiffle torna in auge all’altro capo dell’Atlantico, grazie alla nuova scena jazz e swing inglese ma soprattutto a Lonnie Donegan e alla sua versione accelerata di “Rock Island Line” di Lead Belly, hit straordinaria nel 1956. Lonegan – anche detto king of skiffle – abbatte la diga che fa esondare migliaia di ragazzi intenzionati a mettere in piedi una band, senza doversi nemmeno preoccupare di perizia tecnica o virtuosismi. Lo skiffle è un genere popolare e democratico, può essere suonato da tutti. Dagli scintillanti coffee bar di Soho alla più industriale Liverpool, i gruppi skiffle sono appunto tanti, talmente tanti che è francamente impossibile capire quali di questi diventeranno famosi in tutto il mondo. Forse i Quarrymen capitanati dal sedicenne John Lennon? O i Rattlesnakes di Barry Gibb? O gli strambi El Riot & the Rebels da Birmingham?
Birmingham, come tutto il Regno Unito, è tornata a una vita pacifica e rilassata dopo le recenti tensioni post-belliche con l’Unione Sovietica al fianco della Nato. Alla metà degli anni 50, i teenager d’Albione sono immersi mani e piedi nel nuovo sound che arriva dagli States. Nato sotto i bombardamenti nella corsia emergenziale dell’ospedale della piccola Stourport, nel Worcestershire, il diciassettenne Raymond Thomas suona l’armonica da diversi anni, figlio di un minatore gallese appassionato di musica. Abbandonati gli studi all’età di 14 anni, Ray ama cantare nel Birmingham Youth Choir, intenzionato a formare una band dopo alcune esperienze in complessi blues e soul locali. Grazie all’eredità di suo nonno si avvicina al flauto, ampliando così le sue skills strumentali per fondare il gruppo El Riot and the Rebels, in compagnia dell’amico John Lodge. Nemmeno quindicenne, John Charles Lodge è un ragazzino decisamente più studioso di “El Riot”, con cui però condivide una passione sfrenata per la musica di Buddy Holly e Jerry Lee Lewis, il killer del rock’n’roll. A Birmingham si respira un’atmosfera elettrica, non solo per la fine delle tensioni socio-politiche: centinaia di ragazzi come Ray e John passano ore tra scuole e club giovanili con l’obiettivo di farsi notare con la propria musica, nemmeno troppo convinti di potercela davvero fare. A vivere di musica per tutta la vita e vendere oltre 70 milioni di dischi in tutto il mondo.
Invasa dal sound a stelle e strisce, Birmingham pullula di band alle prime armi. Ci sono i Danny King & the Dukes dove milita il bassista Clint Warwick (nato Albert Eccles), poi i Gerry Levine & the Avengers con il diciassettene Graeme Charles Edge alla batteria. Ancora, i Denny & the Diplomats formati dal cantante e chitarrista Denny Laine, forgiato dal gypsy jazz e dal suo maestro Django Reinhardt. Sono davvero tantissimi i ragazzi inglesi che sono rimasti folgorati dal rock’n’roll americano, da Elvis a Little Richard. Accomunati da un solo obiettivo: suonare davanti a un pubblico, come nei pub dove si esibiscono gli El Riot and the Rebels con un seguito sempre maggiore. Ispirati anche nel look dalla tradizione messicana, gli El Riot and the Rebels iniziano a suonare anche al di fuori di Birmingham, rivaleggiando con la Birmingham top band, i Diplomats di Denny Laine.
È l’inizio del 1963 quando nel gruppo entra il poco più che ventenne Michael Thomas Pinder, nativo del sobborgo di Erdington. Mike suona le tastiere, allontanatosi temporaneamente dal mondo musicale per seguire le orme paterne arruolandosi nell’esercito britannico. Nell’accampamento in Germania, Pinder si destreggia all’organo la domenica su inni religiosi per il resto della truppa, folgorato dai Beatles quando nel 1962 fanno uscire il singolo “Love Me Do”. Mike decide così di tornare in patria facendosi congedare per un problema al piede, pronto a lanciarsi a capofitto nel variegato panorama giovanile della sua città natale.
Nella primavera del 1963 John Lodge decide di abbandonare temporaneamente la vita da band per darsi agli studi e conseguire una laurea in ingegneria, portando Thomas e Pinder a formare un nuovo progetto: i Krew Kats. I due seguono le orme dei Beatles trasferendosi nella vivace Amburgo, cercando fortuna dentro locali celebri come il Ten Club. Vere e proprie maratone di cinque show al giorno per oltre un mese, in compagnia di un paio di musicisti tedeschi con i quali non legano per niente. L’avventura è breve e sfortunata, tanto che i permessi per i due vengono revocati, costringendo Ray e Mike a spostarsi in autostop verso il Belgio per provare a tornare a casa. Rientrati in patria, riflettono sui problemi affrontati e capiscono che è arrivato il momento di fare sul serio con musicisti degni. Mentre Birmingham sogna di essere la next big thing dopo il Merseyside, Thomas e Pinder convincono Denny Laine che non vuole partire per la Germania con i Diplomats e soprattutto cambiare stile musicale per un sound più blues-oriented. Dagli Avengers si unisce anche il batterista Graeme Edge, mentre gli studi universitari di Lodge forzano la ricerca di un bassista, identificato in Albert Eccles, che ha da poco deciso di cambiare il nome in Clint Warwick come omaggio alla sua cantante preferita, Dionne, oltre che all’attore western Clint Walker.
È la tarda primavera del 1964 quando i ragazzi di Birmingham decidono di trasferirsi a Londra per tentare il tutto per tutto. Il primo tentativo di farsi sponsorizzare dal birrificio e pub locale Mitchells & Butlers Brewery non è andato a buon fine, ecco perché il nome scelto inizialmente – non a caso M & B Five – si trasforma nel più scioglievole Moody Blues. Grande fan di Duke Ellington, Mike Pinder è affascinato dal brano “Mood Indigo”, in generale dal come la musica di Ellington riesca a influenzare l’umore dell’ascoltatore. E poi c’è il blues, genere amato in particolare da Laine che ascolta Sonny Boy Williamson e Memphis Slim. La band battezza il suo nome per conquistare Londra, sarà The Moody Blues Five.
N. 1 in England, Immediate Smash in U.S.A!
Anthony Michael Secunda, detto Tony, è un genio del marketing applicato al business musicale, nativo di Epsom, nel Surrey. Fresco ventiquattrenne, ha tanti amici tra musicisti, impresari e produttori discografici, in particolare Alex Wharton – anche noto come Alex Murray – che ha iniziato la sua carriera come cantante insieme a Mickie Most nel duo The Most Brothers. Residenti al celebre 2i’s Coffee Bar di Soho, i Most Brothers hanno inciso per la Decca nel 1957, prima di un prematuro scioglimento nell’anno successivo. Riciclatosi come attore in spettacoli teatrali e piccoli film, Murray è diventato il più giovane produttore in tutto il Regno Unito a lavorare per una casa discografica, la Decca Records, nel 1961. Dopo aver piazzato diversi singoli in classifica, come un predestinato, è entrato in lotta di collisione con alcuni dirigenti della Decca per la mancata pubblicazione di un singolo del cantante inglese Matt Monro, successivamente pubblicato dalla Parlophone e subito al numero 3 della British singles chart. Di ritorno da un viaggio in Sudafrica, e incoraggiato dall’amico Most, ha fondato la Ridgepride, sua casa di produzione discografica in cui avere il totale controllo.
Quando vanno a vedere dal vivo i The Moody Blues Five, ascoltando il loro mix di R&B e rock’n’roll, Secunda e Murray non ci pensano molto: il gruppo deve per forza registrare con loro un primo singolo. Tony farà da manager, mentre Murray si occuperà del lavoro in studio, procurando alla band una serie di esibizioni al frequentatissimo Marquee Club. Abituato ai grandi nomi del periodo, una notte il pubblico londinese si ritrova sul palco uno strano quintetto di ragazzi con i basettoni che vengono da Birmingham, che suonano il blues in compagnia della leggendaria armonica a bocca di Sonny Boy Williamson. È una scintilla che porterà i Moodies – così soprannominati dalla sempre più grande schiera di fan – a trasferirsi definitivamente a Londra, in un appartamento di Wolverhampton, e firmare il primo contratto con la Ridgepride. L’euforia è alle stelle, i ragazzi sono immersi nella vivace vita della capitale tra un party selvaggio e l’altro, in compagnia di altri gruppi come Beatles e Animals.
Senza alcuna esperienza in studio, i Moodies registrano su etichetta Decca il loro primo singolo, il languido R&B “Steal Your Heart Away” dal repertorio del bluesman americano Bobby Parker. Come B-side viene scelto il beat originale “Lose Your Money (But Don’t Lose Your Mind)”, a firma Laine/Pinder. Pubblicato nel settembre 1964, il disco si rivela un flop commerciale, smentendo subito la fama di Murray come scopritore di successi. Ma è solo questione di tempo, appena due mesi. A novembre i Moody Blues ci riprovano con “Go Now”, nuova cover proveniente dagli States – la cantante Bessie Banks – con un carico esplosivo di gospel. Il piano martellante suonato da Pinder accompagna perfette armonie vocali condotte dalle tonalità soul di Laine, facendo impazzire il pubblico inglese, che trascina il singolo al primo posto anche grazie alla massiccia promozione televisiva con un video promozionale realizzato proprio da Murray.
Come recita un inserto pubblicitario su Billboard, “Go Now” è il singolo numero uno d’Inghilterra, pronto allo smash anche negli Stati Uniti dove si piazza alla decima posizione su etichetta London. Sembra l’alba di una grande avventura sonica, ma un fulmine improvviso squarcia il sereno: Pinder telefona alla Ridgepride per avere spiegazioni sui mancati introiti dal successo di “Go Now”, ma scopre che la linea è staccata. Il gruppo si reca agli uffici di Murray, ma li trova completamente vuoti. La dura verità è presto servita: piena di debiti, la società è fallita, il management è sparito nel nulla con tutti i proventi del singolo. È un grosso problema, non solo per i soldi spariti, soprattutto perché la band ha un contratto con la Ridgepride e non direttamente con la Decca. L’unica soluzione percorribile è presentarsi al cospetto di Edward Lewis, boss dell’etichetta inglese, per chiedergli di poter firmare un contratto diretto. Sull’onda del successo di “Go Now”, Lewis accetta, spingendo l’etichetta a massimizzare subito gli effetti del singolo. Viene così pubblicato il nuovo 45 giri “I Don’t Want to Go On Without You”, cover in chiave doo-wop dei Drifters. Il brano non bissa il successo di “Go Now” e si ferma alla posizione 33 nel febbraio 1965, contestato successivamente dalla band per la fretta imposta dalla Decca.
L’Ep The Moody Blues viene infatti rilasciato in primavera e contiene appunto i quattro singoli finora pubblicati. Il gruppo si esibisce in lungo e largo, ampliando la quantità di spettatori in giro per il Regno Unito, aprendo persino l’ultimo tour degli amici Beatles tra migliaia di adolescenti impazziti. Nel maggio 1965 esce il nuovo singolo “From The Bottom Of My Heart (I Love You)”, con il nuovo produttore di origini argentine Dennis Cordell-Lavarack. Tra atmosfere western in chiave barrelhouse e venature canore in blues, il brano funziona meglio del precedente, scalando la classifica inglese fino alla posizione 22. In particolare, il finale isterico è accompagnato dalla prima prova al flauto di Ray Thomas, che avrebbe dovuto già suonare nel contestato “I Don’t Want To Go On Without You”.
Nell’estate del 1965 arriva la tanto attesa pubblicazione del disco d’esordio, The Magnificent Moodies. Il termine magnificent viene ripreso da una recensione apparsa sul Daily Mail, riportata sul retro della copertina insieme a un piccolo poema scritto da Donovan a supporto della band. Pesantemente influenzato dal sound americano, il disco è aperto dalla cover di James Brown “I’ll Go Crazy”, tra gospel, soul e beat. Guidati dalla voce calda di Laine, i Moodies spaziano dal sound R&B in “Something You Got” (Chris Kenner) a trame più soul come nella romantica “Can’t Nobody Love You”. Mike Pinder prende la scena con voce e piano sulla languida “I Don’t Mind”, ancora dal repertorio di Brown, mentre il flauto di Ray Thomas addolcisce il blues molleggiante di “I’ve Got A Dream”.
Come detto, i Moody Blues sono un tipico gruppo live, ancora senza grande esperienza in studio di registrazione. Ecco perché il disco d’esordio è ovviamente zeppo di cover, a partire dalla hit “Go Now!” fino al canto ipnotico e mellifluo di Thomas nella “It Ain’t Necessarily So” di George e Ira Gershwin. È comunque una prassi per molti gruppi alla metà degli anni 60, ma i Moodies riescono a proporre anche qualche brano originale: il valzer pianistico “Let Me Go”, l’incedere sincopato di “Stop” e il tipico soul statunitense in “Thank You Baby”. Nulla di rivoluzionario, piuttosto abituale per i gruppi che rincorrono il Merseybeat sulla scia dei Fab Four. Ma Laine e soci hanno grande padronanza dei propri strumenti, come sul grezzo e scatenato blues “Bye Bye Bird” (Sonny Boy Williamson).
Ave, Mellotron!
Dopo lo straordinario successo di “Go, Now!”, l’album The Magnificent Moodies non riesce a spaccare le classifiche, così come il successivo singolo “Everyday”, altro numero tra soul e R&B che a stento scavalla il fondo della Top 50. Ma alla fine del 1965 il brano “Bye Bye Bird” arriva al terzo posto in Francia, facendo lievitare il pubblico internazionale già ampliato negli States. A cavallo tra il 1965 e il 1966, parte un primo tour nordamericano, organizzato dal nuovo manager Brian Epstein. I ritmi del gruppo diventano presto insostenibili per il bassista Clint Warwick, che vuole stare vicino alla famiglia e decide così di ritirarsi dal circuito musicale nell’estate del 1966. Ma a scatenare il panico nei Moodies è l’uscita di Denny Laine qualche mese dopo, già stufo della direzione sonica intrapresa e voglioso di sperimentare nuove opportunità musicali, la più importante delle quali gli verrà concessa alcuni anni dopo da Paul McCartney nei suoi Wings. Mentre la band è in stato di disintegrazione – anche Epstein abbandonerà il management entro la fine dell’anno – la Decca pubblica il singolo “Boulevard de la Madeleine”, un valzer parigino condotto da piano e fisarmonica. Come B-side viene scelto il più tradizionale beat ululante “This Is My House (But Nobody Calls)”.
Trovatisi in soli tre membri dalla line-up originale, Thomas, Edge e Pinder decidono di richiamare il bassista John Lodge, che ha ormai terminato il suo percorso di studi nell’autunno del 1966. Arruolato Lodge, resta da sostituire il pezzo più importante: Laine. Thomas si rivolge all’amico Eric Burdon, che in quel momento sta rimettendo in piedi gli Animals con una nuova formazione. Burdon consegna a Ray un plico di candidature già vagliate, da cui viene pescato il nome di David Justin Hayward, nativo di Swindon, Wiltshire. Justin ha appena compiuto vent’anni, soprannominato legs per via della sua statura, folgorato dalla sua Gibson 335 e già in disparati gruppi dal 1960. Amante di Buddy Holly, Hayward si è legato al re dello skiffle Lonnie Donegan tramite un contratto di ben otto anni come co-autore delle sue canzoni. La sua esperienza più importante è stata con il cantante e chitarrista Marty Wilde, avendo risposto a una richiesta di audizione tramite un annuncio sul Melody Maker. Quando entra in contatto telefonico con Pinder per un suo possibile coinvolgimento nei Moody Blues, Hayward si presenta a Londra e sale in auto con lo stesso Mike per fargli ascoltare il suo singolo “Day Must Come, London Is Behind Me”, affascinante mix tra atmosfere western e brillante canto country-pop. Pinder è già convinto delle sue doti, decide di farlo entrare nei Moodies prima ancora di presentarlo agli altri.
Freschi di nuova formazione, i Moody Blues si esibiscono per alcuni mesi in Belgio, dal momento che gli ultimi singoli hanno conquistato il pubblico locale salendo in classifica. Tornano in patria all’inizio del 1967, scoprendo amaramente che il successo di “Go, Now!” è ormai un lontano ricordo. L’avvento di nuove tendenze musicali ha stravolto i gusti dei ragazzi d’Albione, tra l’hard-rock di Cream e Jimi Hendrix e le nuove esperienze con la psichedelia dei Beatles. Nessuno ha più voglia di ascoltare lo sciatto R&B dei Moodies, che, in mancanza di nuove uscite, faticano a trovare serate per esibirsi dal vivo. Costretti a suonare all’interno del circuito dei cabaret, una notte hanno un confronto del tutto inatteso con un fan, che si presenta in camerino non per gli autografi di rito, piuttosto per insultarli pesantemente. “Avete fatto schifo, la vostra musica è spazzatura”. Attoniti, i cinque si trovano a riflettere su quanto accaduto: il ragazzo ha ragione, non è possibile continuare a suonare cover soul o blues – soprattutto in mancanza di Laine, perfetto per il genere – bisogna sfruttare la presenza di due nuovi membri per reinventarsi e sperimentare qualcosa di nuovo.
I Moody Blues si ritrovano in studio con la determinazione di una band che vuole a tutti i costi provare a registrare materiale nuovo. Pinder ha del materiale già provato con Laine, da lavorare in modalità stereofonica per la prima volta, ma soprattutto da affidare alle sapienti mani di Tony Clarke. Nato a Coventry nel 1941, Anthony Ralph Clarke ha iniziato come tutti alla fine degli anni 50 come musicista in una band skiffle, lavorando poi alla Decca Records prima come sessionman e poi come promoter. Nel 1964 è passato al dipartimento di produzione discografica sotto Dick Rowe, approfondendo le tecniche del suono in particolare da materiale sinfonico e liturgico. È la primavera del 1967 quando Clarke – successivamente noto come il “sesto Moody Blues” – inizia a lavorare con Pinder e soci, partendo da un singolo scritto da Hayward, un accattivante mix tra folk acustico e prime venature psichedeliche. Il clapping sinuoso di “Fly Me High” capovolge i vecchi ritmi R&B, così come i ritmi doo-wop e lo stile vocale Beach Boys vengono aggiornati sul piano martellante di Pinder nella B-side “Really Haven’t Got the Time”.
Il lavoro in studio della band prosegue sul sentiero della psichedelia, ancora più evidente nel singolo successivo “Love And Beauty”, pubblicato a settembre. Tra celestiali armonie vocali e ritmi liquidi, il brano non spacca la classifica ma segna una svolta per il gruppo, introducendo per la prima volta il mellotron suonato da Mike Pinder. A spingere per l’adozione dello strumento è proprio il tastierista, che prima dei Moodies ha lavorato per un breve periodo nell’azienda distributrice del primissimo modello Mk I. Ma all’inizio degli anni 60 Pinder non può permettersi uno strumento che (al valore di oggi) supera le 20mila sterline, cosa che invece può fare alla fine del 1967, quando il mellotron entra stabilmente nel sound dei Moody Blues.
C’è un nuovo problema, e pure bello grosso. Alla fine del 1967 il contratto strappato a Lewis dopo la fuga di Murray sta per scadere. Non avendo più piazzato hit in classifica, i Moody Blues devono alla Decca migliaia di sterline, che non hanno. A salvarli è Hugh Mendl, il cui credito all’interno dell’etichetta è enorme dopo aver cercato di convincere Dick Rowe a rivedere le sue posizioni sui Beatles, una delle ferite più grandi nell’intera storia delle case discografiche. Dopo aver lavorato con Bowie e Mayall, Mendl vuole salvare i Moodies tramite l’etichetta controllata Deram, che sta promuovendo il suo nuovo formato audio basato sul Deramic Stereo Sound. Il gruppo sembra perfetto per poterlo sperimentare, a patto che esegua un ordine: realizzare una versione rock della sinfonia di Antonín Dvořák, “New World”. Solo così il loro debito nei confronti della Decca potrà essere saldato.
Le notti in raso bianco
Guidato da Tony Clarke, il team di produzione al lavoro sul Deramic Stereo Sound include l’ingegnere del suono Derek Varnals e il conduttore d’orchestra inglese Peter Knight, già noto negli ambienti teatrali nel West End di Londra. Knight ha già fatto le sue prime esperienze nel mondo del pop con il cantante anglo-americano Scott Walker, quando approda alla Decca per testare le nuove sonorità del Deramic. L’etichetta inglese ha infatti già assoldato diverse band dai generi più disparati – brass bands, orchestre, persino balalaika – con il preciso obiettivo di sfidare le potenzialità del nuovo impianto, ma i Moody Blues che dovranno lavorare su Dvořák sono il primo tentativo con un gruppo pop-rock. Pinder e soci non hanno grandi opzioni alternative, devono accettare il lavoro, ma alle loro condizioni: vogliono infatti il pieno controllo artistico, spinti dallo stesso Knight che li ha appena scoperti dal vivo apprezzando il materiale ascoltato. La band vuole registrare un album intero, assolutamente non preventivato dalla Decca, che generalmente è piuttosto rigida nei confronti dei propri assistiti. La proposta di Knight è semplice e scatena l’entusiasmo dei Moodies: non sarà la band a trasformare Dvořák, saranno i suoi arrangiamenti orchestrali a puntellare le nuove composizioni della band. Pinder userà liberamente il suo mellotron, e non ci sarà alcuna registrazione in presa diretta tra la band e la London Festival Orchestra guidata da Knight. Il gruppo decide di stravolgere anche i ritmi in sala di registrazione, superando le classiche sessioni intervallate e di fatto chiudendosi in studio per 24 ore al giorno per tre settimane.
Days Of Future Passed è un cambio radicale di direzione sonica per i Moody Blues, ormai liberi da pressioni commerciali e in grado di sprigionare il talento più rivoluzionario. A partire dagli archi cinematografici che aprono la prima suite “The Day Begins”, il concept-album è un viaggio di oltre quaranta minuti nel corso di una singola giornata, con la voce narrante di Pinder a introdurre la “Morning Glory” di un lavoro che farà la storia della musica inglese. Le tonalità pastorali che introducono la successiva “Dawn Is A Feeling” sfociano nel canto melodico e malinconico di Hayward prima di inasprirsi in chiave psichedelica sull’incalzare del mellotron. Il lavoro del gruppo è perfettamente integrato con quello orchestrale di Knight, in un saliscendi continuo di tonalità e ritmi, come in “The Morning: Another Morning”, guidata dal flauto saltellante e campestre di Thomas, o in “Lunch Break: Peak Hour”, incalzata da un ritmo da vecchia metropoli e fatta deflagrare da basso e batteria tra liturgie psichedeliche e cambi progressive.
Uscito alla fine di novembre 1967, l’album potrebbe entrare in diretta competizione con il “Sgt. Pepper’s” beatlesiano, ma solo apparentemente perché i Moodies evitano accuratamente di riproporre quel tipo di approccio orchestrale e lisergico al pop. Days Of Future Passed non è infatti un disco pop, così come non è un lavoro di musica classica, come forse vorrebbe la Decca. È un sound unico che non è stato mai ascoltato finora in Inghilterra, successivamente etichettato da molti sotto la categoria progressive rock. È anche il racconto della giornata di un uomo qualunque, sull’intro acustica della mini-suite “The Afternoon”, che apre la seconda facciata del disco, a spingere ulteriormente le ambizioni della band. Scritta da Hayward con “chitarra e spinello”, la composizione del pomeriggio è dominata dagli effetti orchestrali cangianti del mellotron di Pinder, a guidare una meditazione in musica sul senso della vita. Inframezzata dal romanticismo dell’orchestra di Knight, la suite vira verso una psichedelia aspra in “(Evening) Time To Get Away”, con il falsetto metafisico a virare sulle infinite ampiezze finali.
Le architetture soniche di Days Of Future Passed sfuggono a qualsiasi tipo di classificazione voluta dall’ascoltatore, quando partono le esotiche percussioni ancestrali di “The Sunset” prima dell’epica parte per archi che sfocia in “Twilight Time”, un martellare pianistico su cui volteggiano armonie vocali tra il paradiso e l’inferno. Sul finale, il brano che consegnerà il gruppo all’immortalità. “Nights In White Satin” è il capolavoro di uno struggente Justin Hayward, partito da un banale regalo ricevuto a diciannove anni – un set di lenzuola di raso bianco – per mettere in musica un flusso di pensieri in un momento traumatico per la vita del protagonista. Successivamente considerata da alcuni critici come la prima canzone progressive mai composta, “Nights In White Satin” è una cavalcata vocale verso la solennità, tra i ricami del mellotron, il flauto mistico di Thomas e arrangiamenti orchestrali semplicemente perfetti.
Finito il disco dopo un vero tour de force, il gruppo lo porta all’attenzione della Decca che non ha la minima idea di quello che sta per ascoltare. I manager dell’etichetta si aspettano la versione rock di Dvořák, salvo scoprire con sommo sbigottimento un album assurdo, che non è pop e soprattutto non è una versione rock di Dvořák. “Nights In White Satin” viene reputata troppo lunga per essere una hit, in un contesto di mercato dove oltre cinque minuti (escluso il poemetto recitato “Late Lament/Resolvement” che porterebbe la durata complessiva a 7:24) sono un’autentica follia. Fortunatamente ci pensa Walt Maguire, alto rappresentante della London Records, il braccio statunitense della Decca, che apprezza il lavoro dei Moodies, convinto possa spaccare le classifiche nordamericane.
Days Of Future Passed esce prima in Uk alla metà di novembre, successivamente negli States a marzo 1968. Come a seguire lo scetticismo della Decca, l’album non arriva oltre la 27esima posizione nella British chart, ma sale fino al podio della Us Billboard 200 l’anno successivo. Il singolo “Nights In White Satin” riesce a sbancare solo il mercato olandese, arrivando in prima posizione, destinato a essere riscoperto però con una sua seconda uscita tra il 1972 e il 1973, quando arriverà al numero uno in Nord America guadagnando il disco d’oro e aprendosi la strada verso l’immortalità del rock.
Visioni del paradiso
Days Of Future Passed ottiene un grande successo negli Stati Uniti, dove a differenza del Regno Unito un sound come quello orchestrato dai Moody Blues è del tutto inedito. Dopo l’uscita del disco nella primavera del 1968, i Moodies volano a San Francisco per esibirsi al leggendario Fillmore West, in un tour organizzato con un nuovo agente di New York che faccia il giro completo dei club specializzati in musica psichedelica e successivamente dei vari love-in festival. Da poco passate in massa alla trasmissione Fm, le radio statunitensi si innamorano di “Nights In White Satin”, anche grazie al suono stereofonico del Deramic londinese. Il pubblico americano segue a ruota, aumentando la capienza delle location che potranno accogliere un gruppo in evidente ascesa.
Travolti dal successo, i Moodies valutano di trasferirsi negli States in maniera permanente, ingolositi da un regime fiscale decisamente più vantaggioso rispetto a quello inglese. Ma il nuovo lavoro in studio li richiama a Londra, dove alla Decca fervono i preparativi con Clarke per capitalizzare il recente successo con un nuovo concept-album, In Search Of The Lost Chord. In uscita a luglio, il successore di Days Of Future Passed apre a una vera e propria orgia sonica, senza le componenti orchestrali di Knight, ma con oltre trenta strumenti diversi utilizzati dai Moodies, tra cui sitar, tabla, oboe e violoncello. La band ha una grande sicurezza nei propri mezzi, affidando ancora di più al mellotron di Pinder il compito di assemblare il tutto come un direttore d’orchestra. La ricerca di una più alta e profonda conoscenza interiore ed esteriore si riflette in un altro disco magnifico, costruito a partire dalla psichedelia folk di “Legend Of A Mind”, il brano composto da Ray Thomas su Timothy Leary e la sua vocazione per l’acido lisergico. Inframezzata dal flauto mistico e da ritmi raga, “Legend Of A Mind” è come il libro tibetano scritto in musica dai Moodies, perno di un disco che riflette sui temi universali della scoperta e della ricerca in tutte le sue forme possibili. L’esplorazione del mondo sul valzer-beat martellante “Dr. Livingstone, I Presume”; i viaggi siderali nello spoken inquietante “Departure”; la ricerca dell’immaginazione nell’acida ballata “The Best Way To Travel”.
Il disco ha certamente un impatto meno emotivo rispetto alla grandiosità del precedente, ma offre dei numeri di psichedelia magniloquenti. Maggiormente influenzato dai ritmi ipnotici orientali – su tutte, il mantra per sitar e tabla “Om” – In Search Of The Lost Chord raddoppia le ambizioni del gruppo in un momento storico assolutamente favorevole per i gusti musicali preponderanti, soprattutto negli States con il movimento flower-power. E con nascita e morte raffigurate sull’inquietante copertina, l’album si guadagna un posto d’onore nella psichedelia fine sixties, trascinato dal vibrante rock’n’roll di “Ride My See-Saw”, che scuote le coscienze per cambiare il mondo su un ritmo quasi heavy condotto da chitarra e basso. Lo sviluppo spirituale viene evocato nella tenera melodia “Voices In The Sky”, secondo singolo scelto dalla Decca, capitanata dalla voce di Hayward in un incrocio tra crooner e romantico countrysinger. I barocchismi sintetizzati di “House Of Four Doors” intrecciano così la ricerca dello zeitgeist affidando a Lodge il compito di sfondare con un calcio le porte della percezione, per far avanzare il flauto mistico di Thomas a dipingere le meravigliose “Visions Of Paradise”.
In Search Of The Lost Chord esce nell’estate del 1968, scalando fino al quinto posto nella classifica inglese. Ormai dediti alle droghe lisergiche e alla meditazione di matrice orientale, i Moody Blues cavalcano l’onda psichedelica tornando in studio pochi mesi dopo, nel gennaio 1969. Aperte le porte della percezione, il gruppo è influenzato da racconto fantascientifico dello scrittore americano Harlan Ellison, “I Have No Mouth, and I Must Scream”, ambientato in un futuro distopico dove la Guerra Fredda è degenerata tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, dotatesi di un misterioso Allied Mastercomputerper governare i propri eserciti a livello centrale. Senza la pressione del recente tour statunitense a supporto dei Cream, i Moodies possono lavorare con calma, ormai superata l’iniziale diffidenza dei manager Decca.
L’esperienza accumulata con i precedenti album è cruciale per lavorare al nuovo materiale che confluisce in On The Threshold Of A Dream, in pubblicazione nella primavera del 1969. Aperto dalle atmosfere sintetizzate sulla narrazione inquietante di Edge in “In The Beginning”, il primo lato dell’album è orientato verso un rock più canonico, con gli hook chitarristici di Hayward tra elettrico e acustico nella vibrante “Lovely To See You”. Il flauto di Ray Thomas prende la scena nel psych-jazz “Dear Diary”, lasciando guidare al basso di Lodge lo stornello country “Send Me No Wine”. I Moodies osano su territori ai limiti dell’hard‘n’heavy (“To Share Our Love”), richiamando atmosfere da epopea western sui fraseggi tra flauto, chitarre e mellotron sull’incalzante “So Deep Within You”.
Il secondo lato del disco preme invece sull’acceleratore delle ambizioni del gruppo, partendo dall’accoppiata Hayward-Pinder che fa dialogare ritmi acustici con gli effetti magniloquenti del mellotron in “Never Comes The Day” e “Lazy Day”. Echi tra Medioevo e Rinascimento nel misticismo magico di “Are You Sitting Comfortably?”, con l’intermezzo recitato “The Dream” ad aprire il tour de force della suite “Have You Heard, Pt. 1”/“The Voyage”/“Have You Heard, Pt. 2”. In oltre otto minuti, i Moodies anticipano il progressive rock, tra psichedelia e musica classica, in un concentrato di arrangiamenti orchestrali sovraincisi e ritmi da viaggio siderale. Un finale pirotecnico che definisce il ruolo del gruppo nel genere alternativo e sperimentale alla fine degli anni 60, con un disco che riesce addirittura a piazzarsi al primo posto in Uk e Francia.
Il titolo del nuovo disco fornisce l’ispirazione per il naming dell’etichetta discografica che i Moody Blues fondano dopo la primavera del 1969. Sulla scia di quanto fatto dagli amici Beatles con la Apple Records – e dopo averlo proposto senza successo ai compagni di etichetta Rolling Stones – i Moodies creano la Treshold, principalmente per ottenere un maggiore controllo sui costi piuttosto alti che la Decca non ha mai digerito per il solo design delle copertine. Non si tratta di una vera e propria rottura con la label inglese, che piuttosto fungerà da mero distributore sul mercato nazionale (mentre la London resterà operativa negli Stati Uniti).
Il primissimo album prodotto su etichetta Treshold è il successivo To Our Children’s Children’s Children, registrato tra maggio e settembre agli studi Decca con il solito Tony Clarke. I Moodies avanzano con la sperimentazione, aggiungendo al sound stereo quello della quadrifonia, che appunto prevede quattro flussi sonori destinati alla riproduzione da diversi diffusori acustici posizionati in studio. Il nuovo concept del disco è ispirato dallo storico atterraggio sulla Luna nella missione Apollo 11, confermando i nuovi gusti siderali e fantascientifici interni al gruppo. La nuova avventura in musica è infatti aperta dal rombo di un razzo pronto al lancio, riprodotto dalle tastiere in “Higher And Higher”, dove il canto di Pinder è più una nuova narrazione sui ritmi serrati della chitarra elettrica di Hayward.
Decollato verso orizzonti alieni, il disco si lancia alla nuova esplorazione sonica sull’arpa che apre la malinconica “Eyes Of A Child I”, mentre Ray Thomas galleggia in assenza di gravità sulle note pizzicate e leggere di “Floating”, da alcuni letta come l’ennesima ode alla droga lisergica. Dopo il breve acquerello acustico di “I Never Thought I’d Live To Be A Hundred”, Edge scrive e guida il groove martellante della strumentale “Beyond”, aprendo “Out And In” in cui il mellotron di Pinder viene letteralmente lanciato nello spazio lontano per capire, come una sonda allucinata, cosa c’è dentro e fuori il sistema solare.
Si avverte però una sensazione generale di minore lucidità compositiva da parte dei Moodies, che sicuramente garantiscono bellissimi e ricchissimi arrangiamenti, forse con una coltre di overdub troppo profonda per far uscire il talento potenziale del nuovo materiale in studio. Eppure il gruppo ha l’intelligenza di non riproporre suite molto lunghe, adattando a un formato più breve le tantissime idee, come nella marcia galattica “Gypsy (Of A Strange And Distant Time)” che unisce la deriva elettronica con il riff ai limiti dell’hard-rock. Le prime tendenze orchestrali e cinematografiche vengono riprese in “Eternity Road”, mentre la “Candle Of Life” sfoderata da Lodge ricalca gli stilemi della ballata romantica con la grandeur del pianoforte. Echi d’oriente con il sitar della ipnotica “Sun Is Still Shining”, marcia tra le più riuscite dell’album, prima dell’etereo finale “Watching And Waiting”, che viene lanciato come singolo alla fine di ottobre per anticipare il disco. Il singolo, che vorrebbe aggiornare in tema lunare le “Nights In White Satin”, viene ignorato dalle radio, portando tutto il disco a un forse atteso flop commerciale, pur raggiungendo la seconda posizione nel Regno Unito.
Una questione di equilibrio
Dopo aver fondato la Treshold Records in cerca di maggiore indipendenza in fase di produzione, i Moody Blues provano a trasformare la piccola etichetta in un’aspirante major. La prima mossa è mettere sotto contratto una band hard-rock proveniente da Cannock, Staffordshire. Nei Trapeze suona il bassista Glenn Hughes, con la chitarra di Mel Galley e la batteria di Dave Holland. Fondati nel marzo 1969, i Trapeze sono apparsi per la prima volta in TV alla Bbc2, scatenando il pubblico del Club Lafayette di Wolverhampton a luglio. Il singolo “Send Me No More Letters”, un potente soul-beat sinfonico, ha attirato le attenzioni della Apple Records, ma i Trapeze scelgono la Treshold convinti che offrirà maggiori garanzie in termini di libertà creativa. È lo stesso John Lodge che si occuperà di produrre l’omonimo disco di debutto della band, registrato agli studi Decca e pubblicato nel maggio 1970.
Se i Moody Blues si concentrano sull’assoldare nuovi talenti per la propria etichetta è anche per fermarsi a pensare sui prossimi passi artistici. La quantità spropositata di strumenti e le tonnellate di effetti di sovraincisione che hanno infarcito gli ultimi tre album sono praticamente impossibili da replicare dal vivo. Il gruppo è ormai etichettato come musica sperimentale, psichedelia, rock progressivo. Manca però il formato canzone più canonico che possa portare i Moodies a calcare i palchi di mezzo mondo, evitando di impazzire cercando modi improbabili di trasformare gli ultimi dischi in materiale live.
Nasce così il successivo A Question Of Balance, dove gli effetti di overdubbing calano drasticamente per ottenere un sound più riproducibile in tour. A prendere le redini è il chitarrista Justin Hayward, che ha due parti grezze da poter assemblare, partendo da un riff in stile The Who e una più morbida ballad acustica. Cucita nel giro di una notte nell’entusiasmo generale, “Question” viene rilasciata come singolo nell’aprile 1970: un grande successo nel Regno Unito, dove si piazza in seconda posizione nella classifica dei singoli. I giornalisti musicali apprezzano, parlando di instant classic e sottolineando un rock più “bilanciato” come nelle intenzioni della band. Gli effetti del mellotron sono ora meno sfarzosi e più di tessitura, ad esempio nella sinuosa “How Is It We Are Here”, mentre la psichedelia spinta di Ray Thomas cede il passo a un sound più folk e pastorale nell’atmosferica “And The Tide Rushes In”.
Paragonato ai precedenti lavori, l’album porterebbe a pensare a uno snaturamento, invece i Moodies riescono effettivamente a bilanciare la sperimentazione con un formato canzone più digeribile per gli ascoltatori. Dai ritmi tribali di “Don’t You Feel Small” al fast-tempo “Tortoise And The Hare”, A Question Of Balance sembra badare al sodo, con un sound più duro a guidare atmosfere più abituali, come armonie vocali complesse e tessiture lisergiche. “It’s Up To You” è per esempio un numero classico nel suo efficace mix tra folk, country e power-beat, mentre “Minstrel’s Song” vira verso un irresistibile pop in forma di marcetta. La marea psichedelica abbraccia il folk tropicale nella successiva “Dawning Is the Day”, infrangendosi sull’epico finale di “The Balance”, tra la voce narrante di Pinder e scrosci sinfonici magnificamente cuciti dalla chitarra elettrica.
Uscito in piena estate, A Question Of Balance centra l’obiettivo del gruppo, che arriva al primo posto in Inghilterra e sul podio negli States dove vende oltre un milione di copie. Il successo è questa volta calcolato: i Moodies tornano trionfalmente dal vivo con il nuovo materiale in due storiche esibizioni al festival dell’Isola di Wight nel 1969 e nel 1970.
Nel frattempo, le attività in studio non conoscono pause, con la band pronta a registrare un nuovo disco dal titolo Every Good Boy Deserves Favour.Acquisito negli anni un ruolo sempre più importante in fase compositiva, la coppia Pinder-Hayward cerca di coinvolgere maggiormente gli altri membri della band. Il risultato è l’inquietante “Procession”, scritta da tutti i Moodies con l’ambizione di raccontare in poco più di quattro minuti l’intera storia della musica. Considerato una delle prime sperimentazioni con la batteria elettronica, il brano è uno strano mix di sonorità orientali e rinascimentali in chiave futurista, interamente strumentale, a parte le parole desolation, creation e communication. A dispetto dell’iniziale sperimentazione collettiva, il gruppo non molla la presa più “commerciale” con il singolo “The Story In Your Eyes”, che spinge su trame hard-blues e rock’n’roll. A Ray Thomas il compito di rallentare i battiti con l’ode pianistica “Our Guessing Game”, mentre Lodge festeggia l’arrivo di sua figlia dedicandole “Emily’s Song”, romanticismo psichedelico arricchito dalle trame del violoncello sul canto sognante. Il gruppo spinge ancora su sonorità Who-style (“After You Came”) con le prime prove da songwriter di Edge, a dimostrazione di un maggiore coinvolgimento collettivo.
Il secondo lato del disco è aperto dal fingerpicking pastorale nel pop sinfonico “One More Time To Live”, con il flauto barocco a guidare la filastrocca folk “Nice To Be Here” e la chitarra rarefatta che tesse la corale “You Can Never Go Home”. Il mellotron di Pinder squarcia la pacatezza volando sul riff hard-rock, in uno dei momenti più alti dell’album, che si chiude con la lunga “My Song”, aperta in chiave classica orchestrale prima di virare verso un respiro siderale tra percussioni apocalittiche e sinfonie cinematografiche.
Nell’estate del 1971, Every Good Boy Deserves Favour permette ai Moody Blues di tornare al numero uno della classifica inglese, conquistando ancora Stati Uniti e Canada dove arriva in seconda posizione. Il nuovo equilibrio sonico sta portando i frutti sperati, dove la psichedelia spinta ha ormai lasciato il passo a un più accessibile (e amato) pop progressivo. I fan della band sono ormai diffusi in tutto il mondo, appassionati al limite di un collegamento mistico. Spesso deviati dall’utilizzo delle sostanze lisergiche, gli aficionados dei Moodies si spingono a volte ad accamparsi davanti alle case dei membri del gruppo, in attesa di un aiuto spirituale per iniziare qualche forma di viaggio spaziale. Uno degli incontri ravvicinati più strani è con un altro fan prima e dopo una data in Texas: l’uomo accoglie entusiasta l’arrivo dei Moodies, convinto che il loro live salverà il mondo abbattendo tutti i regimi e le oppressioni. Alla fine, lo stesso uomo correrà verso di loro in aeroporto accusandoli di essere degli impostori, perché il concerto non ha certo fermato sofferenze e oppressioni. È questa la miccia che porta John Lodge a scrivere il singolo successivo, “I’m Just A Singer (In A Rock’n’roll Band)”, un uptempo condotto dalla frenetica sezione ritmica che è a tutti gli effetti un nuovo manifesto d’intenti: i Moody Blues sono solo un gruppo di rock’n’roll.
Nuovi orizzonti
Dallo stesso ritmo di un treno in corsa, il singolo “I’m Just A Singer (In A Rock’n’roll Band)” porta in dote una versione più grezza e sboccata dei Moody Blues. Il brano è una delle prime sperimentazioni di Mike Pinder con il chamberlin – che viene utilizzato per riprodurre il sassofono suonato da Thomas nel videoclip – lo strumento a tasti precursore del mellotron introdotto dall’inventore americano Harry Chamberlin nella prima metà degli anni 50. Il singolo non riesce a scavallare la Top 40 nel Regno Unito, ma è particolarmente apprezzato negli States, dove sfiora la Top 10 della Billboard Hot 100. Il secondo 45 giri pubblicato nella primavera del 1972 è “Isn’t Life Strange”, strutturato sulla giga barocca “Pachelbel’s Canon”, una suite di oltre sei minuti tra deflagrazioni elettriche su atmosfere sinfoniche e armonie vocali in stile Bee Gees. Particolarmente apprezzato dalla critica – sarà incluso nelle cento migliori canzoni progressive della storia – il brano non sfonda commercialmente, ma è l’intrigante anticipazione del disco Seventh Sojourn, pubblicato nell’ottobre successivo.
Vagamente ispirato dai “Canterbury Tales” di Chaucer, l’album è appunto la settima creatura sonica della line-up attuale dei Moodies, aperto dalla militaresca sezione ritmica di “Lost In A Lost World”, completamente asciugata da ogni sovraccarico orchestrale o lisergico. Il canto drammatico di Pinder guida la nuova esecuzione dei Moodies, che, al netto degli effetti del chamberlin, sembrano quasi stanchi di produrre piccoli film in musica. Dalla timida ballad pop-soul di Hayward “New Horizons” alle sonorità tra Irlanda e Sudamerica nella malinconia struggente di “For My Lady”, Seventh Sojourn è un disco minimale, eppure particolarmente sofferto nella sua genesi, a causa di una stanchezza generale all’interno della band. Mike Pinder – che firma la scheletrica, disperata e subito profetica “When You’re A Free Man” – non ne può più dei continui viaggi in tour. Graeme Edge sta affrontando un doloroso divorzio, mentre picchia sulle sue pelli nella sarabanda psych-folk “You And Me”. L’unico che sembra non patire la fatica è Justin Hayward, che mette a referto un’altra gemma elettro-acustica, “The Land Of Make Believe”.
A dispetto del nuovo numero uno tra Stati Uniti e Canada, Seventh Sojourn è un disco che trasuda oscurità, testimonianza in musica di un gruppo che sembra aver perso il tocco magico, in bilico tra rock’n’roll anti-fanatismi e velleità sperimentali più limitate.
Pubblicato il nuovo album, i Moodies si preparano a un gigantesco tour mondiale, la cui fine è prevista solo nel 1974 dopo lo sbarco in territorio asiatico. Tra una data e l’altra, Justin Hayward trova il tempo di registrare un nuovo brano, un potente western barocco in crescendo intitolato “Island”. Il singolo dovrebbe essere propedeutico alla registrazione di un ottavo album, ma resterà inedito per decenni fino a una nuova edizione di Seventh Sojourn in cui è incluso come bonus track. Per la band è arrivato quel momento traumatico legato al concetto di disgregazione, forzato ormai da ego e personalità completamente diverse che non riescono più a comunicare. Insieme da quasi dieci anni (almeno Thomas e Pinder), i Moody Blues sono esausti per tour infiniti e non hanno più la forza di trovare nuovi spunti creativi come un gruppo davvero unito. La decisione più drastica è ormai presa: i Moodies si separano per lanciarsi alla ricerca di nuovi orizzonti musicali.
L’ultimo sforzo collettivo prima del periodo sabbatico è per pubblicare, nell’ottobre 1974, la prima compilation su doppio album This Is The Moody Blues. Con il fido Tony Clarke, il gruppo decide che la raccolta dovrà essere mixata in maniera originale, ovvero senza pause tra un brano e l’altro, in una sola esperienza d’ascolto di quasi 95 minuti. Da “Question” al capolavoro “Nights In White Satin”, le quattro facciate del disco includono il meglio dai sette dischi prodotti dopo l’avvento di Hayward e Lodge.
Justin Hayward & John Lodge
Smembrati i Moody Blues, Mike Pinder è stufo del Regno Unito. Decide così di trasferirsi con la sua strumentazione in California, dove viene raggiunto da Hayward, che alla fine del 1974 sta ricevendo discrete pressioni dalla Decca per continuare a registrare materiale originale. Pinder accetta di lavorare solo con Justin, ma quando si presentano negli States anche Tony Clarke e John Lodge, rifiuta categoricamente un suo possibile coinvolgimento nel progetto. Hayward e Lodge sono invece rimasti in ottimi rapporti, così accettano la proposta della Decca e tornano a Londra per registrare l’album Blue Jays in uscita nel marzo 1975. Con il contributo dei Providence – sestetto di rock sinfonico prodotto dalla Treshold Records – Hayward e Lodge ricreano il Moodies-sound insieme a Clarke, a partire dal romanticismo epico di “This Morning”. Il disco attira l’attenzione di critica e fan dei Moody Blues, infarcito di sognanti atmosfere pop tra ritorno alla psichedelia e squarci orchestrali. Dalla beatlesiana “Remember Me (My Friend)” – tra le poche scritte davvero in coppia – alla ballad barocca “My Brother”, Blue Jays è fedele allo spirito degli ultimi lavori del vecchio gruppo, includendo composizioni che spaziano tra folk (“Who Are You Now”) e country-pop (“I Dreamed Last Night”).
Il disco è comunque sovrastato da trame tra il melodramma e fittissime partiture orchestrali, come nella straziante “Nights Winters Years” o nel dramma cinematografico “Maybe”. Manca ovviamente il guizzo sperimentale tipico dei Moodies, ma il singolo “Blue Guitar” – pubblicato dopo l’uscita del disco e suonato con i 10cc – scala le classifiche con un riuscitissimo mix tra blues elettrico e soul sinfonico. Hayward e Lodge portano il loro nuovo lavoro in un breve tour che parte alla Carnegie Hall di New York, fino alla Lancaster University, dove si esibiscono insieme a Mel Galley e Dave Holland dei Trapeze.
L’esperienza in coppia dura poco, perché i due si separano e avviano le rispettive carriere da solisti. Il disco d’esordio di Justin Hayward esce per la Deram nel febbraio 1977, con il titolo Songwriter. Con il ritorno di Peter Knight a condurre le parti orchestrali, Hayward recluta i Trapeze Mel Galley e Dave Holland e realizza un disco che esalta il suo talento tra misticismo e romanticismo. Si inizia con l’uptempo “Tightrope”, prima della title track in due parti, condotta dal pianoforte martellante e da preziose esplosioni elettriche. Dalla ninna-nanna acustica “Raised On Love” al misticismo etereo di “Nostradamus”, il lavoro di Hayward si avvicina parecchio a quello dei Moody Blues in un approccio cameristico, ma con un tocco molto più personale e intimo del chitarrista, ormai libero a livello creativo dalla macchina Moodies.
Se Hayward coltiva da solista il suo gusto per il romanticismo, John Lodge scatena il suo lato più rock’n’roll nell’esordio Natural Avenue, nel gennaio 1977. Prodotto da Tony Clarke con grandi musicisti – tra cui il batterista Kenney Jones – l’album è aperto dallo scatenato country-blues “Natural Avenue”, virando su ritmi funky in “Broken Dreams, Hard Road” e mostrando un gusto tra soul-pop e glam nella finale “Children Of Rock ‘n’ Roll”. Il disco non è però esente dal tentativo di ripoporre un sound più vicino ai Moody Blues, lavorando con l’orchestra nella barocca “Summer Breeze, Summer Song” o nell’ascendente “Who Could Change”. Ma è un approccio meno serioso e più fresco, come nella riproposizione della tipica marcetta psichedelica “Piece Of My Heart”.
Graeme Edge Band
Trafitto dal dolore causato dal divorzio, Graeme Edge entra in contatto con Adrian Gurvitz, chitarrista e songwriter di Stoke Newington, a nord di Londra (qualcuno lo ricorderà come hitmaker negli anni 80 con la sua ballata “Classic”). Gurvitz è entrato nel mondo della musica a soli 18 anni con la band The Gun e soprattutto con la hit “Race With The Devil”, feroce hard-rock pubblicato nell’ottobre 1968 e ripreso da Jimi Hendrix al Festival sull’isola di Wight due anni dopo. Formati i Three Man Army con il fratello bassista Paul, Gurvitz è andato in tour con il batterista Buddy Miles dopo la morte di Hendrix, entrando in contatto con Ginger Baker per fondare successivamente la Baker Gurvitz Army. Essendo il meno dotato tra i Moodies in fase compositiva, Edge chiede ad Adrian di aiutarlo a scrivere nuovi brani per l’album d’esordio della sua neonata band, che include anche Micky Gallagher alle tastiere. Kick Off Your Muddy Boots viene pubblicato su etichetta Treshold nel 1975, aperto dal ritmo funky-soul di “Bareback Rider”. Il talento alla chitarra di Gurvitz arricchisce brani più morbidi come “In Dreams”, mentre “Lost In Space” vira verso l’hard-blues e “Have You Ever Wondered” torna sul gusto orchestrale applicato al pop. La chitarra si scatena in wah-wah sulla strumentale “The Tunnel”, guidando aggressiva l’R&B teatrale “Gew Janna Woman” e flirtando addirittura con il glam-rock più spavaldo sulla conclusiva “We Like To Do It”.
Convinta del risultato ottenuto con l’album d’esordio, la band concede un bis due anni dopo, pubblicando con Decca Paradise Ballroom. Il disco si apre con la chilometrica title track, che strizza l’occhio alla disco music tra scatenati ritmi funky. Il gusto progressive riecheggia in “Human”, prima di tornare a cadenze da dancefloor (“Everybody Needs Somebody”) e poco ispirate sarabande R&B (“All Is Fair”). La nuova direzione sonica è poco incisiva, annegando il talento chitarristico di Gurvitz tra melodie country-pop (“Down, Down, Down”) e piatti soul sinfonici (“In The Night Of The Light”).
Mike Pinder
Trasferitosi in California, Pinder rifiuta l’offerta di Hayward e si mette al lavoro in solitaria, con il contributo dell’ingegnere del suono Robert Margouleff. Assoldati diversi musicisti provenienti dalle scene jazz e fusion, Mike si chiude negli Indigo Ranch Studios di Malibu per dare alle stampe “The Promise”. Dal soft-rock iniziale “Free As A Dove”, il disco è confezionato con l’eleganza tipica del tastierista, come nel mix tra gospel e soul in “You’ll Make It Through” o sulla country-ballad “I Only Want To Love You”. Seduto tra sintetizzatori e l’amato mellotron, Pinder non ha la stessa forza vocale di Hayward e in generale soffre una generale mancanza di robustezza, come quella garantita nei Moodies dal basso di Lodge o dalla batteria di Edge. In “Carry On” appare evidente un approccio troppo morbido al pop-soul, mentre gli svolazzi elettro-acustici di “Air” non riescono a riprodurre quel gusto prog tanto apprezzato nei precedenti album. Più interessate l’utilizzo di strumenti orientali come il giapponese shakuhachi nella lunga “The Promise”, che si sviluppa alla maniera dei Moodies tra partiture orchestrali, riff elettrici e ascensioni da spazio siderale.
Ray Thomas
Il flautista avvia una collaborazione con Nicky James, nativo di Tipton e già sulla scena del Brumbeat all’inizio degli anni 60, proprio con Denny Laine & The Diplomats. Per alcuni mesi nei primi Moody Blues 5, ha firmato un contratto per la Columbia Records per esordire con i suoi Nicky James Movement grazie al singolo “Stagger Lee”. Dopo un omonimo disco di debutto nel 1971, Nicky è entrato nello staff della coppia Bernie Taupin/Elton John come songwriter, successivamente nel parco artisti della Treshold Records. Thomas sta lavorando a diversi brani da solista, ma deve mettersi in fila perchè gli studi della Treshold sono prenotati prima da Hayward e Lodge, poi da Edge.
From Mighty Oaks viene così pubblicato solo alla metà del 1975, grazie al contributo dell’ingegnere del suono Derek Varnals (dal team di Tony Clarke) e del conduttore d’orchestra Richard Hewson. Come in Days Of Future Passed, il disco è introdotto dall’overture della title track, che richiama in un’unica sinfonia i principali componenti sonici dell’intero lavoro. Sulle dolci note tra piano e chitarra acustica, “Hey Mama Life” racconta la nuova consapevolezza maturata da Ray dopo anni di viaggi e sperimentazioni. La voce di Thomas è calda, come un crooner in stile Elvis, e ben si adatta allo stile dell’album, sempre in bilico tra British folk e progressive orchestrale. In coppia con James c’è comunque un recupero di certe sonorità gusto fifties – il divertissement in salsa hawaiiana “Rock-A-Bye Baby Blues” – e di numeri più robusti e martellanti come il soul-blues “High Above My Head”. L’album scorre piacevole e fresco tra brillanti classicismi lirici (“Love Is The Key” e “You Make Me Feel Alright”) e ballate di folk pastorale (“Adam And I”, dedicata alla nascita del figlio).
Nonostante uno scarso successo commerciale – nessuno dei Moodies riesce in questo periodo sabbatico a toccare le vette del collettivo – Thomas e James ci riprovano l’anno successivo con Hopes, Wishes And Dreams, con Terry James alla conduzione orchestrale. Il disco è aperto dall’insolito groove funky di “In Your Song”, lasciando alla voce calda di Thomas la guida delle pop-ballad “Friends” e “We Need Love”. Il disco prosegue sulla scia lasciata dal precedente, giocando su atmosfere cinematografiche da western (“Within Your Eyes”) e lanciandosi in territori più inesplorati, come la disco-music fine anni 70 (“One Night Stand”). Dal ritmo barrelhouse di “Keep On Searching” al valzer “Carousel”, Thomas e James non tradiscono i fan più incalliti.
The Day We Meet Again
È il 1977. Mantenuti intatti da collaborazioni e contatti per il business dell’etichetta Treshold, i rapporti tra i cinque Moody Blues conducono all’inevitabile proposta di una reunion. La Decca preme per un nuovo album in studio, tentando di rivitalizzare l’interesse generale per la band con la pubblicazione del doppio album dal vivo Caught Live + 5 in primavera. I primi tre lati del disco sono registrazioni in presa diretta dal concerto alla Royal Albert Hall di Londra, il 12 dicembre 1969. Prima di una sostanziale irriproducibilità del sound dal vivo, i Moodies si esibiscono nella prestigiosa venue londinese al picco della popolarità dopo il seminale Days Of Future Passed. Dalla roboante sinfonia elettrica “Gypsy (Of A Strange And Distant Time)”, l’album è il respiro dal vivo di una band ambiziosa che sta viaggiando verso la dimensione dei grandi. Dalla misteriosa nenia orientale “The Sunset” alle ampiezze ritmiche di “Never Comes The Day” e “Peak Hour”, lo spettacolo dei Moody Blues alla Royal Albert Hall è un concentrato di perizia tecnica in un trionfo anticipato del progressive rock, sul finale pirotecnico “Nights In White Satin”/ “Legend Of A Mind”/“Ride My See-Saw” che racchiude forse l’essenza dei Moody Blues.
Ad arricchire la proposta di Caught Live +5 – inizialmente contestato dalla stessa band perché reputato non all’altezza a livello qualitativo dopo il primo lavoro di remixaggio – il quarto lato del doppio disco presenta un totale di cinque brani registrati in studio tra il 1967 e il 1968 e non ancora inclusi in un disco ufficiale. “Gimme A Little Somethin’” e “Please Think About It” mescolano armonie vocali in stile Beach Boys con il pop tra psichedelia e vaudeville, mentre “Long Summer Days” si affida al mellotron al ritmo di valzer. Per quanto chicche incluse dalla Decca per rimpolpare il quarto lato dell’album e rivitalizzare i Moodies post-scioglimento, si tratta di brani minori che poco aggiungono in termini qualitativi alla produzione del gruppo fino a In Search Of The Last Chord.
Sul punto di ripartire, i Moody Blues hanno subito un problema non da poco. Mike Pinder si è trasferito da alcuni anni in California, dove ha anche trovato una nuova moglie. Non ha perciò alcuna intenzione di volare a Londra per registrare nuovo materiale con i vecchi compagni. In compagnia di Tony Clarke, i Moodies volano così verso gli studi Record Plant a Los Angeles nell’ottobre 1977, per iniziare ricolmi di speranza e confidenza le sessioni di quello che sarà il ritorno sulla scena discografica, Octave. Ma la nuova avventura dei Moody Blues parte malissimo, perché negli studi losangelini divampa un incendio improvviso che distrugge quasi tutto, master compresi. La frustrazione monta, mentre Clarke ha la testa da un’altra parte perché alle prese con diversi problemi familiari. Pinder propone di trasferirsi tutti agli Indigo Ranch Recording Studios a Malibu, dove ha registrato il suo disco d’esordio The Promise grazie a strumentazioni nuove di zecca. Come in una maledizione del destino, un feroce temporale scatena uno smottamento del terreno e di conseguenza un pauroso allagamento che ricopre il ranch di fango. I Moody Blues sono sempre più neri e meditano: forse qualcosa ci sta dicendo che tornare insieme è stata una cazzata? Ma il sempre serafico John Lodge ha la soluzione per andare avanti, esorcizzando l’episodio con il ritmo hard di “Steppin’ In A Slide Zone”, ispirata dal grande cambiamento introdotto dal punk e punto cruciale nel nuovo corso della band. Gli strumenti classici come mellotron e chamberlin vengono infatti soppiantati dal sintetizzatore, decisamente più in voga nell’era della disco music. La problematica per i Moodies, in fondo, è abbastanza semplice: dopo aver segnato l’era psichedelica e progressive, come tornare dopo una pausa di cinque anni e stare dietro al ritmo forsennato dei generi musicali? La risposta in Octave è ambivalente e di non facile comprensione per gli amanti della band. Ray Thomas torna alle sue calde melodie pastorali e orchestrali in una veste più ballabile (“Under Moonshine”), mentre Hayward naviga nella folk-ballad sulle correnti di Neil Young (“Had To Fall In Love” e “Driftwood”).
Più che un vero lavoro collettivo, Octave sembra il risultato sofferto di personalità differenti appena riunitesi, ancora troppo nervose per ritrovare il tocco magico degli album precedenti. Che poi risulti facile ritrovarlo in un’era musicale completamente diversa è altro conto. Mentre Graeme Edge mostra il rock’n’roll sperimentato recentemente con Adrian Gurvitz (“I’ll Be Level With You”), il ruolo di Mike Pinder è molto defilato, limitato a una malinconica quanto piatta “One Step Into The Light”. Mancano così il misticismo e la profondità compositiva, nel nuovo sound dei Moodies, che deve affidarsi al piglio vivace di Hayward per portare a casa il disco. Ma il funky-soul di “Top Rank Suite” e la sinfonia pop di “Survival”, pur essendo brani ben confezionati, non riescono nell’impresa di rilanciare il nome Moody Blues nell’orbita del panorama rock contemporaneo. Con l’eccezione dell’incedere progressive della conclusiva “The Day We Meet Again”, che per poco più di sei minuti permette un gradito viaggio in un tempo nemmeno poi così lontano.
Octave viene spinto dal successo del singolo “Steppin’ In A Slide Zone”, ma non riesce a superare il sesto posto in Uk e il tredicesimo negli Stati Uniti. Già in zone molto periferiche nella realizzazione del disco, Mike Pinder annuncia agli altri che non intende partire per il gigantesco comeback tour già organizzato tra la metà del 1978 e il 1979. La decisione spiazza in primis Thomas e Graeme Edge, che accusano Pinder di essersi rimangiato la parola data. Ma Pinder parla di impegni familiari più importanti, mentre la Decca dice alla stampa in modo molto vago che si assenterà dal tour negli Stati Uniti.
L’Octave World Tour è in partenza e ai Moodies serve un tastierista. Lo trovano nel trentenne Patrick Moraz, prodigio di origini svizzere abbandonato dagli Yes nel bel mezzo delle sessioni di registrazione del loro ottavo disco, “Going For The One”. Cresciuto in una famiglia devota alla musica, Moraz ha iniziato a comporre al pianoforte all’incredibile età di cinque anni, ottenendo il Best Soloist award al prestigioso festival jazz di Zurigo a soli sedici anni. La sua avventura nel rock è partita nei Mainhorse alla metà del 1969, poi nei suoi Refugee – gruppo formato con Keith Lee Jackson di The Nice – e infine negli Yes che si sono ritrovati a dover sostituire Rick Wakeman nella primavera del 1974. Si arriva così all’incontro con i Moody Blues, che organizzano un’audizione a Londra nel luglio 1978, prima di partire per il gigantesco tour mondiale tanto pubblicizzato dalla Decca. Dal carattere estroverso, persino eccentrico, Moraz carica il gruppo di nuovo entusiasmo e dopo il tour del 1979 arriva il momento di tornare in studio a fare sul serio.
Il sogno dei gemelli
In mancanza dello storico produttore Tony Clarke, i Moody Blues assoldano Pip Williams, ex-chitarrista inglese al lavoro alla fine degli anni 70 con gli Status Quo sul loro “Rockin’ All Over The World”. Dopo la fine del tour, Moraz è considerato a tutti gli effetti un nuovo membro della band, facendo infuriare Pinder che vorrebbe rientrare in sala di registrazione in quanto le sue problematiche sarebbero legate solo ed esclusivamente ai concerti. Ma i Moodies non perdonano e Mike arriva persino ad avviare una causa legale contro i vecchi compagni con l’intento di bloccare il prosieguo della loro carriera, almeno con il nome Moody Blues. Le richieste di Pinder non preoccupano – infatti perderà – e non bloccano certamente i lavori per il disco successivo, Long Distance Voyager. Pubblicato dalla Treshold nel 1981, l’album segna l’effettiva svolta nel sound del gruppo, che abbandona definitivamente gli impatti orchestrali e l’uso massiccio del mellotron per radicalizzare quello del sintetizzatore ed entrare diretto nel nuovo decennio.
Finalmente liberi da frustrazioni e musi lunghi, i Moodies possono liberare in volo un nuovo modo di intendere il progressive rock, aggiornato e rivisto in maniera fresca e pulita per adattarsi alle esigenze più commerciali degli anni 80 appena iniziati. “The Voice” è la chiamata alla nuova avventura, costruita su un uptempo per chitarra che guida le magnifiche aperture del sintetizzatore con la voce perfetta di Hayward a far muovere le anche. Solo parzialmente un concept-album sul viaggio spaziale, il disco è una raccolta di canzoni costruite con estrema intelligenza, come la melodica in crescendo di “Talking Out Of Turn” sulla indimenticabile base di vocoder e mini-moog suonata da un Moraz ovviamente a suo agio con qualsiasi strumento a tasti e manopole. Il grande colpo balistico è la successiva “Gemini Dream”, ritorno alla collaborazione tra Hayward e Lodge in fase di scrittura, che di fatto segna il passaggio dal progressive dei tanto vituperati dinosauri (per maggiori informazioni chiedere ai punk-rocker più oltranzisti) al prog-pop in salsa disco, se non alla new wave. Il groove è irresistibile e viene scelto come primo singolo per lanciare l’album, scalando le classifiche fino a sfiorare la Top 10, un risultato non da poco vista la considerazione generale verso i gruppi seventies. Se la languida e ipnotica ballata “In My World” torna alle atmosfere di Seventh Sojourn, “Meanwhile” accelera sul beat-pop con la consueta eleganza di Hayward. Edge fornisce prove di grande maturazione compositiva nella sua “22,000 Days”, epica corale su battito monocorde che arriva a non far rimpiangere le sperimentazioni di Pinder.
L’album fornisce una sorprendente prova d’unione d’intenti rispetto all’ultimo Octave, con le strumentazioni di Moraz perfettamente integrate. E Ray Thomas? A lui il compito di chiudere un disco perfetto con una mini-suite in tre parti, “Painted Smile”/“Reflective Smile”/“Veteran Cosmic Rocker”. Tra giravolte in chiave vaudeville, caroselli circensi e l’inquietante martellare blues sul finale, la composizione di Thomas sembrerebbe non azzeccarci nulla con il resto del disco, invece risuona perfetta a scolpirci sopra il nome Moody Blues.
Long Distance Voyager assicura al gruppo il ritorno al numero uno in classifica negli Stati Uniti, mentre nel Regno Unito si piazza nella Top 5 nel ranking stilato dalla Official Charts Company (Occ). Galvanizzati, i Moody Blues tornano in studio nella primavera del 1982, pubblicando nell’agosto dell’anno successivo il nuovo album, The Present. Il primo singolo ad anticipare il disco è “Blue World”, scritto da Hayward con la più classica delle melodie pop in downbeat tra le alterazioni synth delle tastiere di Moraz. Il chitarrista, sempre tra i più lucidi in fase compositiva, non riesce però a bissare i recenti successi con la molle “Meet Me Halfway”, così come in “Running Water” – scelta come terzo singolo – non basta la performance vocale a salvare un arrangiamento insapore. Più efficace lo sforzo di John Lodge in “Sitting At The Wheel”, in cui si continua a sperimentare tra synth-pop e new wave in stile Electric Light Orchestra. Il bassista firma anche la ballad “Under My Feet”, tra country e pop mellifluo, ma a salvare il disco dal vero disastro è ancora Ray Thomas, a cui è ancora una volta affidato il compito di chiudere il cerchio. Introdotta dalle atmosfere orientali di “I Am”, “Sorry” è una pregevole cavalcata progressive in cui si inserisce il gusto tipico del flautista per gli arrangiamenti più epici e drammatici.
A nemmeno due anni dall’ottimo Long Distance Voyager, The Present è comunque un lavoro insoddisfacente, che riporta indietro la band nel suo viaggio verso il futuro.
Dopo la partenza dei Moodies per un nuovo tour mondiale, alla fine del 1984 viene pubblicata la lunga raccolta Voices In The Sky: The Best Of The Moody Blues, su etichetta Decca nel Regno Unito e ultima uscita per la Treshold negli Stati Uniti (con una tracklist differente) prima della chiusura voluta dal gruppo. Continuamente in tour, i Moodies rinforzano la line-up con un secondo tastierista, Bias Boshell, tra i fondatori della folk-band Trees e poi al lavoro con Kiki Dee nella prima metà degli anni 70. Nel marzo 1986 partecipano all’evento benefico Heart Beat al National Exhibition Centre di Birmingham, organizzato da Bev Bevan degli Elo per raccogliere fondi in favore del locale Children’s Hospital. Tra i tantissimi ospiti, c’è anche la vecchia conoscenza Denny Laine, che canta la primissima hit “Go, Now!”.
Le esibizioni dal vivo dalla seconda metà degli anni 80 diventano l’unica opportunità per i fan di godersi il talento di Ray Thomas, sempre più ai margini della creatività del gruppo. La nuova direzione tracciata da The Present verso il synth-pop non offre più spazi per strumenti come il flauto o drammatiche partiture orchestrali, affidando ai soli Hayward e Lodge il controllo del sound.
Infatti nel successivo The Other Side Of Life – pubblicato nella primavera 1986 dalla Polydor che nel frattempo ha acquisito la Decca – il contributo di Thomas come autore è praticamente nullo. I Moodies decidono di affidarsi alle sapienti mani del produttore Tony Visconti, che porta dentro l’esperto di sintetizzatori Barry Radman per cucire su misura un nuovo approccio sonico in grado di competere in un mercato pop agguerritissimo dopo l’esplosione di Mtv. Seguendo le indicazioni di Visconti, il gruppo punta tutte le sue fiches sul singolo “Your Wildest Dreams”, scritto da Hayward e dominato dalle trame sintetiche della Yamaha DX7 con un tempo pop accelerato a oltre 140 Bpm. L’irresistibile ritornello viene amplificato in modo virale dal video realizzato proprio per Mtv, dove la band inglese Mood Six viene reclutata per rappresentare il gruppo agli albori della carriera. La strategia funziona e il brano spopola negli Stati Uniti, spaccando la classifica del mainstream rock e prendendosi anche il premio Billboard Video of the Year. Ufficialmente è la fine dell’era progressive, sotterrata da un beat più frenetico e plasticoso, come in “Talkin’ Talkin’” e “Slings And Arrows”. Sono i brani comunque più efficaci all’interno di un disco di rottura, in cui il contributo di Edge è limitato in coordinamento con Moraz sulla monocorde e monotona “The Spirit”. Lodge cerca di bissare l’originalità di “Gemini Dream” sull’heavy-synth “Rock’n’Roll Over You”, con una scarsa lucidità che sembra attanagliare anche Hayward nella ballata romantica “I Just Don’t Care”.
Più intriganti ritmo e cori nella ballabile “Running Out of Love”, seguita dalla seconda hit del disco, la title track, che vede un Hayward insolitamente lugubre lanciarsi in uno shuffle spruzzato di blues. A parte la finale “It May Be A Fire”, che ricorda le brillantezze melodiche di Blue Jays, la sensazione generale all’intero ascolto è che i Moody Blues stiano provando a ripartire con un sound diverso, ma con una fiacchezza creativa inquietante.
Punto di rottura
Mentre il sound dei Moody Blues subisce la più profonda trasformazione con il lavoro di Tony Visconti e i video in heavy-rotation su Mtv, la sussidiaria americana London Records pubblica la raccolta Prelude, ad accontentare i fan di vecchia data. Una retrospettiva interessante fatta di B-side e materiale non incluso nei diversi dischi, a partire dall’irresistibile ritornello colorato di “Fly Me High”, singolo risalente al 1967. C’è l’organo barocco di “Cities”, scelto come accompagnamento di “Nights In White Satin”, l’incedere drammatico di “A Simple Game” e le scheletriche atmosfere panoramiche di “King And Queen” dal periodo d’oro tra Days Of Future Passed e il successivo In Search Of The Lost Chord. Una compilation sicuramente diversa dal solito, non certamente buona per le classifiche ma interessante per il fan più incallito.
Caricati dal successo in classifica del mediocre The Other Side Of Life, Hayward e Lodge cavalcano l’onda di Mtv insieme a Visconti. La Polydor si sfrega le mani in attesa del nuovo singolo, facendo pressioni ben chiare sulla band: i brani dovranno essere principalmente composti dai due membri più adatti alle hit commerciali, mentre Moraz si può sbizzarrire tra sequenziatori e drum machine. È chiaro allora che non c’è più posto per Ray Thomas, che resta completamente in disparte nel successivo Sur La Mer, pubblicato nell’estate 1988. Il nuovo singolo è un synth-pop ben confezionato, “I Know You’re Out There Somewhere” è il sequel concettuale di “Your Wildest Dreams” e grazie al video riesce a scalare la Top 40 di Billboard negli Stati Uniti. Le trame di Moraz si accoppiano finemente alla voce di Hayward, che è ormai stabilmente al comando della band con il contributo di Lodge. È l’unico sussulto di un disco ai limiti dell’inconsistenza, affossato da una eccessiva ripetitività dell’approccio sonoro senza il contributo di personalità differenti come quella di Thomas. Brani come “Want To Be With You” e “River Of Endless Love” sono schiacciati da una colata di sintetizzatori e da interpretazioni sempre simili, tra il melodico e l’aggressività di plastica. Il secondo singolo “No More Lies” è salvato in calcio d’angolo dai colpi elettro-acustici e da una prova vocale all’altezza da parte di Hayward. L’aspetto preoccupante è che uno dei migliori brani è “Vintage Wine”, che presenta un sound più sixties in stile Tom Petty. Ma il brano è poi seguito dalle oscurità elettroniche di “Breaking Point”, totalmente slegate all’interno di un disco che sembra non avere una direzione precisa, un vero punto di rottura nel senso letterale del termine.
Dopo la pubblicazione di una nuova compilation, Greatest Hits, i Moodies sono al lavoro su un nuovo disco agli Olympic Studios di Mayfair, Londra. Tutto sembra filare liscio quando Patrick Moraz rilascia un’intervista alla rivista Keyboard in cui si lascia andare ad alcuni commenti su una sua crescente insoddisfazione personale nel lavorare con il gruppo. La nuova direzione musicale sarebbe troppo banale, con Hayward e Lodge troppo accentratori e poco disponibili al dialogo in studio. Distratto dall’organizzazione di un evento per celebrare in musica i 700 anni dall’indipendenza ottenuta dalla natia Svizzera, Moraz viene licenziato dai Moody Blues e sostituito da Paul Bliss insieme al già integrato Boshell. Il gruppo non la prende bene, perché Moraz verrà successivamente citato semplicemente come un additional musician e mai come un membro effettivo. Da sempre fumantino ed eccentrico, il tastierista citerà in giudizio i Moodies nel 1992 chiedendo mezzo milione di dollari in risarcimento per il trattamento subito. Ne riceverà circa 78mila dopo la causa civile trasmessa in diretta alla Court Tv americana.
Il massiccio sforzo in studio di registrazione – altri due produttori insieme a Visconti, due nuovi tastieristi ed un secondo batterista, Andy Duncan – partorisce un altro album mediocre, Keys Of The Kingdom. Il nuovo singolo “Say It With Love” cerca di allargare gli orizzonti del pop sintetico con ampiezze melodiche in stile Paul McCartney, a caccia di un sound più airy-rock. Ma la classifica piange, trascinando a picco tutto il disco. Senza le complessità di Moraz – che effettivamente è stato sfruttato pochissimo nel corso della sua militanza nel gruppo – i brani di Keys Of The Kingdom sembrano realizzati con uno stampino per muffin soffici ma insapori. Alla ricerca di un sound più mainstream, Hayward firma un soul-blues industrializzato (“Once Is Enough”), mentre Lodge almeno prova a recuperare gli antichi fasti con la brillantezza dei toni pop di “Lean On Me (Tonight)” in stile George Harrison.
Le idee quindi scarseggiano, il gruppo sembra aggrappato alla necessità di restare sulla cresta dell’onda senza averne attualmente i mezzi creativi. Anche il sommesso ritorno di Ray Thomas in “Celtic Sonant” non riesce a rivitalizzare il disco, tra i soliti vocalizzi caldi da crooner e una marcia atmosferica dal gusto Irish. A peggiorare le cose un nemmeno troppo velato citazionismo nel pop “Is This Heaven?”, reminiscenza dei Beach Boys che sconfina molto pericolosamente nel copia e incolla.
Il nuovo flop commerciale non ferma le attività dal vivo. Il gruppo è invitato al prestigioso Montreux Jazz Festival, mentre continua l’esperimento del doppio tastierista (Bliss e Boshell) e di un secondo batterista (Gordon Marshall) per dare maggiore supporto a un Edge che, a causa di un infortunio, non riesce a tenere i ritmi alle pelli per lunghi live set. L’evento che sorprende gli addetti ai lavori è il grande concerto nella bellissima cornice naturale al Red Rocks Amphitheatre in Colorado, per festeggiare il 25° anniversario dall’uscita di Days Of Future Passed. Il 9 settembre 1992 i Moodies salgono sul palco per la prima volta con un’intera orchestra, la Colorado Symphony condotta da Larry Baird, a cui è affidato il compito di aprire l’esibizione con una overture di oltre sette minuti con alcuni tra i principali motivi del passato.
A Night At Red Rocks With The Colorado Symphony Orchestra esce nella primavera del 1993 con annesso video ufficiale dopo la registrazione per l’emittente statunitense Pbs. Da “Tuesday Afternoon (Forever Afternoon)” all’immancabile “Nights In White Satin”, il disco è da brividi lungo la schiena perché riesce nel tentativo di riacciuffare lo spirito dei primi lavori tra pop psichedelico, gusto progressive e, ovviamente, digressioni sinfoniche. L’introduzione del doppio tastierista permette alla band di rinvigorire il sound dal vivo, supportato dal materiale storico e dai fan in delirio. Il successo del concerto a Red Rocks porta i Moody Blues a concentrarsi maggiormente sull’adattamento orchestrale in tour, iniziando a lavorare con diversi complessi sinfonici in giro per il mondo.
Tempi strani
In seguito ai fallimenti commerciali (e creativi) degli ultimi due album, i Moody Blues si concentrano sulle attività live, data la buona riuscita del concerto a Red Rocks con la Colorado Symphony Orchestra. Nel settembre 1994, vista la decisione del gruppo di mettere nuovamente in stand-by la produzione di nuovo materiale in studio, la Polydor investe per una gigantesca retrospettiva in cinque dischi e oltre trecento minuti di musica. Time Traveller è di conseguenza imperdibile per gli amanti dei Moodies, dai classici ormai intramontabili ad alcune chicche per i più incalliti. “Forever Autumn” è il folk-pop cantato da Hayward per il doppio disco “Jeff Wayne’s Musical Version Of The War Of The Worlds”, mentre “This Is The Moment” è la cover dal musical “Jekyll & Hyde” realizzata con l’epica da stadio per essere inserita nella raccolta “Soccer Rocks The Globe” in occasione dei Mondiali di calcio Usa 1994.
All’antologia pubblicata dalla Polydor seguono altre due raccolte – The Best Of The Moody Blues e Anthology – sostanzialmente ininfluenti, prima che la band decida di tornare in studio a ben otto anni di distanza dall’ultimo album. A caccia di nuove ispirazioni, i Moodies si trasferiscono in Italia, a Recco, per lavorare insieme al compositore e produttore Danilo Madonia. Pubblicato nell’estate del 1999 e completamente auto-prodotto, Strange Times è lanciato dal singolo “English Sunset”, che colpisce subito gli osservatori per un arrangiamento tra drum and bass e techno sulla solita voce gentile di Hayward. L’azzardo funziona, soprattutto a distanza di così tanti anni dagli ultimi mediocri lavori. I Moody Blues sembrano non volersi prendere sul serio con trame semplici e lineari, dal ritornello spensierato di “Haunted” alla power-ballad “Sooner Or Later (Walkin’ On Air)”.
Il nuovo approccio è così meno sinfonico e poco guidato dalle abituali tastiere, concentrato sul confezionamento di canzoni gradevoli e fresche. “Wherever You Are” rallenta su basi elettroniche e sfumature quasi new age, mentre “Foolish Love” lavora di chitarre sia in elettrico che in acustico, alla maniera di Tom Petty. In particolare, sembrano tornati lo smalto e la verve compositiva in Hayward, che guida il rock più duro “The One”, esaltando le note da camera e le antiche influenze beatlesiane nella piccola gemma “The Swallow”.
All’inizio del nuovo millennio viene pubblicato un nuovo disco dal vivo, Hall Of Fame,registrato alla Royal Albert Hall nello stesso formato del concerto a Red Rocks, questa volta con la World Festival Orchestra. È l’ultimo tour in formazione completa, con Boshell che lascia la band l’anno seguente, sostituito da Bernie Barlow. Ma l’addio più importante è quello di Ray Thomas nel 2002, ormai ai margini del gruppo e desideroso di lasciare definitivamente lo show business per ritirarsi a vita privata e curare alcuni importanti problemi di salute.
Ridotti a un trio, i Moodies assoldano la chitarrista e flautista Norda Mullen per continuare a esibirsi dal vivo. Nell’autunno 2003 esce l’album December, classico album natalizio che comprende la cover di “Happy Xmas (War Is Over)” della coppia Lennon–Ono. Due anni dopo arriva un nuovo doppio disco dal vivo, Lovely To See You: Live,registrato al Greek Theatre di Los Angeles in versione più rock senza orchestra. Dopo Live At The Bbc: 1967–1970,il più interessante (e storico) Live At The Isle Of Wight Festival 1970 viene recuperato dalla Eagle nel 2008.
Sul gruppo inizia ad aleggiare lo spettro della fine. Clint Warwick, il bassista originale dei Moodies, muore nel 2004 all’età di 63 anni. Nel 2010 tocca allo storico produttore Tony Clarke, seguito da Ray Thomas all’inizio del 2018, pochi mesi prima dell’induzione del gruppo nella Rock’n’roll Hall of Fame. Il canto del cigno a livello discografico è Days Of Future Passed Live, riproduzione dal vivo di quello che resta il capolavoro al Sony Center for the Performing Arts di Toronto, nel 2017. Come a voler chiudere un cerchio, Hayward e Lodge ripropongono dal vivo il nome del vecchio amico Mike Pinder – fino a questo momento escluso e mai troppo citato nelle scalette – mentre l’attore Jeremy Irons prende il suo posto sul palco nelle parti narrate sul disco che li ha resi immortali.
Nel 2021 lascia il mondo dei vivi anche Graeme Edge all’età di 80 anni, mettendo definitivamente il punto alla storia dei Moody Blues.
Antonio Santini for SANREMO.FM