Dal divertimento giovanile più spensierato alla malinconia che arriva con la fine dell’adolescenza lunga, aggravata da problemi di tossicodipendenza e depressione. La storia di Mac Miller è stata tragicamente breve e ha contraddetto le aspettative di chi lo ha visto esordire giovanissimo, spavaldo e pieno di quell’allegria contagiosa e un po’ superficiale tipica dei quindici anni: sembrava candidato a una carriera di successi pop-rap, come una versione bianca dell’amico Wiz Khalifa, tra feste e marijuana, sesso e consumismo edonista. Invece, all’ascesa velocissima al mainstream, culminata nel clamoroso successo di Blue Slide Park (2011), è seguito un ripensamento sostanziale del suo modo di fare musica, causato da grandi cambiamenti nella sua vita privata. Con amara ironia, proprio l’aggravarsi della dipendenza da sostanze, l’elaborazione di questo dolore e la difficoltà di superare le insidie delle droghe hanno trasformato la penna di Mac Miller: alla party life si è sostituita l’introspezione, e così è passato dai singoli per college night epocali a riflessioni sulla vita, le relazioni e la morte. Di pari passo, anche i beat si sono evoluti rispetto alle prime pubblicazioni, integrando più jazz e soul, compagni sonori ideali per composizioni più emotive e dolenti, ma anche dialogando con l’estetica della musica psichedelica.
Mac Miller, nato Malcolm James McCormick il 19 gennaio 1992 a Pittsburgh, Pennsylvania, è stato un rapper, cantante e produttore discografico statunitense tra i più influenti, celebrati e discussi della sua generazione. Nonostante sia morto per overdose nel 2018, ad appena 26 anni.
“Kool Aid & Frozen Pizza”: dall’infanzia a K.I.D.S..Cresciuto in una famiglia di padre ebreo e madre cristiana, lui architetto e lei fotografa, Mac Miller studia a Pittsburgh mentre impara da autodidatta a suonare pianoforte, chitarra, batteria e basso. Arriva al rap a 14 anni e a 15 anni è praticamente l’unica cosa che occupa le sue giornate. Come Easy Mac pubblica il suo primo mixtape, But My Mackin’ Ain’t Easy (2007). Insieme al concittadino Beedie forma anche il duo Ill Spoken, attivo giusto il tempo di pubblicare How High (2008). Rinominatosi Mac Miller, il suo nickname definitivo, pubblica altri due mixtape giovanili nel 2009: The Jukebox: Prelude to Class Clown e The High Life. Le produzioni e le rime dell’esordio sono ancora elementari, come ci si aspetterebbe da un adolescente alle prime armi e nell’unico mixtape degli Ill Spoken domina soprattutto un senso di divertimento e di sicurezza di sé, ma nulla che possa dirsi indispensabile per capire la musica del periodo. Si tratta di brani giovanili, che per esempio sfruttano l’occasione per tributare un mito come J Dilla in “Whatup Dilla” e non sembrano ancora pensati per un grande pubblico di ascoltatori. The Jukebox: Prelude To Class Clown (2009) è appena più evoluto. Qui la sua prolificità è buona per esplorare le possibilità del suo rap ma non aiuta nell’ascolto per intero della scaletta.
Il mixtape che cambia la sua carriera è K.I.D.S. (Kickin’ Incredibly Dope Shit) (2010), un perfetto esempio del cosiddetto frat rap. Più di tutto il resto, è un album divertente e sincero fino all’ingenuitá. “Kickin’ Incredibly Dope Shit (Intro)” dichiara un amore per la musica, amica delle giornate dell’adolescenza. Per Mac Miller sarà la più importante, e forse l’unica positiva, tra le sue dipendenze. Curiosamente, il brano cita il film diretto da Larry Clark e sceneggiato da Harmony Korine del 1995 “KIDS”, in Italia edito come “KIDS – Monelli”, e sostituisce la parola pussy con music con un effetto comico.
When you’re young, not much matters
When you find something that you care about, then that’s all you got
When you go to sleep at night, you dream of music
When you wake up, it’s the same thing
It’s there in your face, you can’t escape it
Sometimes when you’re young
The only place to go is inside, that’s just it
Music is what I love
Take that away from me and I really got nothing
Pur attraversando una rilassata malinconia, si ascolti “Outside”, è una dolce vita edonista e tardo-capitalista quella descritta in queste canzoni. La veste può diventare inaspettatamente notturna e jazz-rap, come in “Nikes on My Feet”, ma prevale un senso di benessere. Il compimento di questa energia positiva è probabilmente “The Spins” (con un ruolo fondamentale degli Empire of the Sun), un pop-rap già perfetto. Le fa concorrenza la filastrocca un po’ vintage di “Knock Knock” (disco di platino negli USA).
Il manifesto è però “Kool Aid & Frozen Pizza”, un jazz-rap alla marijuana, che trasforma il racconto di Nas in una serie di selfie degli adolescenti cresciuti negli anni Zero.
Yeah, I live a life pretty similar to yours
Used to go to school, hang with friends and play sports
Every single summer taking trips to the shore
And that was all gravy but I knew I wanted more
Questo mixtape cambia la carriera e la vita di Mac Miller, facendone un riferimento soprattutto per i suoi coetanei: racconta il loro mondo, appoggiandosi all’hip-hop mainstream che ha ascoltato mentre cresceva. Non è un album nel quale cercare innovazione o rivoluzioni, ma un più modesto campionario di certa vita dei giovanissimi statunitensi, riproposta senza filtri e sovrastrutture.
Il successo: da Best Day Ever a Macadelic.
La scossa di assestamento è il mixtape Best Day Ever (2011). La produzione è più eterogenea, i testi iniziano a riflettere una maggiore introspezione pur continuando a raccontare una quotidianità adolescenziale.
Dall’introduzione drumless di “Best Day Ever”, in un clima trasognato, si capisce che le cose sono cambiate ed è tutto più ambizioso. “Donald Trump” (disco di platino in patria) è la prima hit, di nuovo una filastrocca pop-rap, ma è facile trovarsi a canticchiare il motivetto di synth di “Oy Vey” o unirsi al coretto di “Life Ain’t Easy”. Compare un pizzico di soul in “I’ll Be There” (featuring Phonte) mentre si mischia all’elettronica “Wake Up”, un ballabile incentrato sul groove.
Mac Miller è cresciuto anche come rapper, come dimostra “In the Air”, un’elettronica da cameretta su cui accelera con le rime.
Chiaramente anche per lui sta finendo l’adolescenza, ma può ancora provare a sognare a occhi aperti come racconta in “Snooze”: c’è dentro la malinconia dolce di certi tramonti estivi, quando si capisce che le giornate spensierate non dureranno ancora per molto.
Now my clothes look cleaner, and my kicks look flyer
We be buyin’ more reefer, so my crew gettin’ high
Now the girls keep callin’, and the money keep comin’
I be jumpin’ off the bridge, but I’ma hit the ground runnin’
When the fuck will I wake up?
Non manca anche un inno per fattoni come “Keep Floatin'” (featuring Wiz Khalifa) (“Passin’ around the weed, no problems at all/ And you haters keep on hatin’, I ain’t talkin’ to y’all”).
L’Ep On And On And Beyond (2011) contiene sei brani, solo due inediti. Più corposo il mixtape I Love Life, Thank You (2011), pubblicato per festeggiare un milione di follower su Twitter. È un insieme di brani festosi distibuiti in 38 minuti, con pochi momenti più riflessivi, come “Family First” (feat. Talib Kweli).
I tempi sono maturi per l’esordio ufficiale, il suo primo album Blue Slide Park (2011), che ha esordito al primo posto nella Billboard 200, vendendo oltre 144 000 copie nella prima settimana. Nonostante il successo commerciale, l’album ha ricevuto recensioni contrastanti dalla critica, con la famigerata stroncatura di Pitchfork che gli ha assegnato un catastrofico 1 su 10. Nel tempo otterrà il disco d’oro in patria e in Canada.
Aperto la malinconica “English Lane”, è un album che indovina un banger come “Party On Fifth Ave.”, con i suoi ottoni contagiosi e un ritornello quasi crunk. Inizia ad emergere una più precisa influenza della scena southern che alimenterà alcuni dei suoi brani più vivaci.
Ma a questo lato gioioso si contrappongono le ombre di “PA Nights”, dove il divertimento sembra iniziare a mostrarsi come qualcosa che, vissuto al massimo, finisce per esaurirsi.
Certamente si cercano le hit con brani come l’electro-rap di “Frick Park Market”, il quadretto piovoso di “Under The Weather” o il pop-punk-rap da college party di “Up All Night”.
Accede anche a un pop-jazz-rap torrenziale come “Of The Soul”, la migliore prova al microfono di quest’album.
L’album si dilunga e disperde la propria energia ma, nei momenti più riusciti, è uno dei esempi migliori di pop-rap del periodo. La conclusiva “One Last Thing”, rallentata fino all’onirico, conferma comunque che Mac Miller può tentare anche soluzioni molto più ambiziose e creative. C’è solo da aspettare.
Macadelic (2012) è un mixtape che segna un’inaspettata svolta verso sonorità più psichedeliche e testi più profondi, a tratti anche interpretati con intensità poetica. Numerose le collaborazioni, tra cui Kendrick Lamar, Lil Wayne, Joey Bada$$, Sir Michael Rocks of The Cool Kids, Cam’ron e Juicy J.
Introdotto dalla nuvola psichedelica di “Love Me As I Have Loved You”, per voci femminili che riecheggiano in un contesto di sogni, è un album che si apre al rock in “Desperado”, con un synth a imitare una chitarra, e trova una hit nella trap bombastica di “Loud”, invero abbastanza banale (otterrà comunque il disco di platino negli Stati Uniti).
Ottenebrato dalle sostanze, il rap di “Vitamins” sembra ovattato e stordito e pare sciogliersi in “Fight The Feeling” (featuring Kendrick Lamar e Iman Omari). L’overdose di sesso e droga di “Lucky Ass Bitch” (featuring Juicy J), una trap con un beatelastico, è meno originale della pensosa “The Mourning After”, intensa come una dolente resa alla disperazione.
Somethin’ ’bout the pain makes me want more
Done a lotta drugs, never felt like this before
I hope one day it all makes sense
It’ll all make sense
L’introspezione è protagonista anche in “The Question” (featuring Lil Wayne) e negli echi disorientati di “Angels (When She Shuts Her Eyes)”, nonché nella pacata “Clarity”.
È un po’ troppo considerarlo sperimentale, ma Macadelic è quantomeno eccentrico e distorce il pop-rap di Mac Miller secondo una lente che, più che psichedelica, mette in musica un mix di droghe ed eccessi, tra iperstimolazione e flessioni depressive dell’umore.
A fine 2012 arriva anche un Ep, You, sotto il nome Larry Lovestein & The Velvet Revival, che vira verso il lounge-jazz conservando una forte componente psichedelica e allucinata. C’è persino un brano strumentale di jazz, un po’ amatoriale. Una curiosità per completisti.
La maturità e il debutto in major: da Watching Movies With the Sound Off a Faces.
Il 2013 vede Mac Miller fondare un’etichetta discografica, la “REMember”, chiamata così in onore di un amico morto le cui iniziali erano, appunto, R, E ed M. Diventa anche il protagonista di un reality show, “Mac Miller And The Most Dope Family”, su MTV2.
In attesa di un nuovo album, arriva il mixtape Run-On Sentences, Volume One (2013), di sole strumentali del suo alter ego Larry Fisherman. È un sandbox dove l’estro di Mac Miller si orienta verso beat spesso astratti e psichedelici, che ritroviamo anche in altre pubblicazione che risalgono a questo periodo (compreso Baloonerism, l’album postumo pubblicato solo nel 2025). Compare persino in una canzone di Ariana Grande, “The Way”. I due, poi, confermeranno una relazione.
Le idee di Macadelic sono tradotte in modo più maturo su Watching Movies With the Sound Off (2013), il primo album che mostra le potenzialità del Mac Miller adulto. Ai colori sgargianti dei primi tempi si è sostituita una palette di dolcezze e malinconie, a dipingere brani che pur trovando in un rap riflessivo il loro cardine non mancano di avventurarsi verso altri lidi, recuperando le suggestioni allucinate, i rimandi jazz, gli arrangiamenti elaborati di certo pop cameristico. Mac Miller ora canta, a volte quasi sussurra, ed è spesso lontano dal rap dei primi anni, più frenetico e adrenalinico.
Anche questa volta, gli ospiti sono numerosi e importanti, e comprendono, tra gli altri, Earl Sweatshirt, Ab-Soul, Action Bronson, Schoolboy Q e Tyler, the Creator mentre il team di producer comprende lo stesso Miller insieme a Diplo, Tyler, the Creator, Flying Lotus, The Alchemist, Clams Casino, Earl Sweatshirt (in un doppio ruolo, dunque), J. Hill, Chuck Inglish e Pharrell Williams.
La scaletta finale è selezionata, a detta dell’autore, da un gruppo di oltre 400 brani. I 16 scelti alla fine rappresentano lati diversi della sua creatività e sfruttano la grande qualità della produzioni, spesso creative e cangianti.
Il blues-rap psichedelico e un po’ inquietante di “The Star Room” (“Prayin’ I don’t waste it gettin’ faded/ ‘Cause I’m smokin’ **** until I’m coughin’ up tar”), la filastrocca pianistica sugli uccelli migratori di “Avian” e la funebre e ansiogena “I’m Not Real” (featuring Earl Sweatshirt) (“I’m not real, I think I never was”, “If I go tomorrow, I just hope it ain’t in vain, but I can’t complain”) definiscono il tono generale dell’album, alleggerito dal beat frenetico di Flying Lotus su “S.D.S.”.
Il divertimento di un tempo diventa un’allucinazione deformante (“Bird Call”, “Watching Movies”), mentre spesso emergono toni ultraterreni, come in “I Am Who Am (Killin’ Time)” (featuring Niki Randa) o nella dedica a un amico morto di “REMember”, dove canta:
It’s a dark science when your friends start dyin’
Like, “How could he go? He was part-lion”
Life goes on, the tears all dried and
Couple years are gone by by then, uh
Can you please help me find my friend?
I give you anything you need multiplied by ten
I heard he moved to a place where the time don’t end
So you don’t need money, all you got is time to spend
Yeah, life’s short, don’t ever question the length
It’s cool to cry, don’t ever question your strength
I recommend no limits, intricate thought
Go ‘head, just give it a shot, you’ll remember shit you forgot
Uno dei brani centrali dell’album e della discografia è il rap dolente di “Objects In The Mirror”, che finge di essere una canzone d’amore per parlare delle sue dipendenze (come emerso in un’intervista per Billboard). Se il ritornello è toccante nel suo sogno di libertà impossibile:
Just a little taste and you know she got you
Can you hide away? Can you hide away?
Sound of silence as they all just watch you
I kinda find it strange how the times have changed
I wish we could go and beFree once, baby, you and me
We could change the world forever
And never come back againLet’s leave it all in the rear-view
Let’s leave it all in the rear-view, girl
You don’t have to cry
You don’t have to cry
È tutto il brano a funzionare nel suo descrivere l’insoddisfazione, il rimorso e il dolore delle dipendenze di ogni tipo:
I promise that I’ll be a different man
Please give me the chance to go and live again
I’m havin’ some trouble, can you give a hand?
It seems perfection really is so unattainable
D’altronde l’idea di essere arrivati al limite, a un passo dalla morte, pervade anche la successiva “Red Dot Music” (featuring Action Bronson e Loaded Lux). Dopo quattro minuti questo brano sfuma nel silenzio, ed è difficile non vedere anche questo come un riferimento funebre, anche se precede uno skit comico.
L’ultima parte della scaletta è valida ma meno sorprendente, nonostante le produzioni siano sempre molto curate, ma almeno l’intervento di Jay Electronica in “Suplexes Inside Of Complexes And Duplexes”, arrivato apparentemente poco prima della conclusione dell’album, merita tutta l’attenzione.
Considerato uno dei suoi lavori più maturi, l’album ha debuttato al terzo posto nella Billboard 200, vendendo circa 102.000 copie nella prima settimana. Otterrà, nel tempo, il disco d’oro della RIAA (Recording Industry Association of America) per il mezzo milione di copie vendute.
Nel frattempo riceve persino le chiavi della città di Pittsburgh, con tanto di proclamazione del 20 settembre 2013 come il “Mac Miller Day”. È un anno frenetico, in cui trova il tempo anche per pubblicare, insieme a Vince Staples, il mixtape collaborativo Stolen Youth, dove usa nuovamente il nomignolo da producer Larry Fisherman e un mixtape con un ulteriore nome d’arte, l’eponimo Delusional Thomas. A chiudere l’anno arriva il suo primo e unico documento dal vivo, Live From Space.
Se Stolen Youth è reso inquietante da suoni spettrali (“Fantoms” featuring Joey Fatts) e deformati (“Heaven” featuring Hardo e lo stesso Mac Miller al microfono), quando non da testi thriller (“Killin’ Y’all” featuring Ab-Soul), il depresso e breve Delusional Thomas sconta il fatto che la voce sia filtrata e pitchata per essere irriconoscibile: non è il male della trovata, se vogliamo anche affine agli stilemi dell’hip-hop sperimentale, quanto la fatica di questa soluzione protratta per l’intero mixtape a togliere godibilità ai brani, racconti allucinati e sinceri, dove il jazz-rap che Mac Miller ama è nascosto da manipolazioni e filtri.
Live From Space vale più come testimonianza che come oggetto musicale: sul palco emerge la natura più funk e rock di molti brani, con Mac Miller che spesso ruggisce, a tratti quasi urla. È, peraltro, un mezzo live a cui si affiancano alcuni brani di studio. Per completisti.
Ben altro spessore lo ha il mixtape più acclamato di questa presa di coscienza sulle proprie dipendenze e sulla propria accidentata salute mentale, Faces (2014). La critica ha lodato la sua profondità lirica e la complessità della produzione, consolidando la reputazione di Mac come artista versatile e riflessivo.
Nonostante la veste di lavoro “non ufficiale”, e delle produzioni gestite da Mac Miller direttamente, non manca di radunare alcuni ospiti: Rick Ross, Earl Sweatshirt, Schoolboy Q, Mike Jones, Sir Michael Rocks, Vince Staples, Ab-Soul e Dash.
Spesso orientato al jazz-rap e attraversato da deformazioni psichedeliche, come nella disorientante e psicotica “Friends” (feat. Schoolboy Q) o nell’invasata religiosità di “It Just Doesn’t Matter”, è un album che cita l’amalgama coloratissimo degli OutKast (“Angel Dust”) ma racconta anche brutalmente la disperazione di un tossicodipendente affetto da malattie mentali (“Malibu”, “What Do You Do”), che arriva a fantasticare sulla morte (“Funeral”, “Rain”).
Wish I could get high, space migration
Pretend I could just fly to great vibrations
The magazines need a quote
When I’m gone, sorry, I don’t leave a note, yo
È in grande forma anche come rapper, come mostra per esempio nell’abstract di “Polo Jeans” (feat. Earl Sweatshirt).
A volte la creatività sfocia in composizioni che si possono definire sperimentali, come il desolante e allucinato gospel-rap di “Wedding”, il blues-rap psichedelico e voodoo di “Ave Maria” o l’incorporeo jazz-rap ultraterreno di “Colors and Shapes” (peraltro, un brano suicidario: “If I jump, let me fall”).
Nonostante sfori i 90 minuti se si conteggia la traccia bonus, Faces ha pochi momenti da scartare e funziona splendidamente come un puzzle di rap multiforme, nel quale reale e immaginato, sogno e incubo, felicità e disperazione si confondono.
Un tuffo nel mainstream: da GO:OD AM a Swimming
Il terzo album, GO:OD AM (2015) è il primo album sotto una major, la Warner. Ha debuttato al quarto posto nella Billboard 200 ed è stato certificato oro negli Stati Uniti. Considerato Faces, questo sembra un compromesso con il mercato, che diluisce l’introspezione e la sperimentazione in dosi di hip-hop più edonistico e immediato. Cerca, insomma, di accontentare un po’ chi già lo segue ma anche di vendere la sua musica al pubblico mainstream.
Il jazz-rap trasognato e nostalgico di “Two Matches” (feat. Ab-Soul) e il rap ubriaco di “Perfect Circle / God Speed” sono due esempi di dove possa condurre questa ricerca dell’equilibrio tra espressione del proprio malessere e della propria creatività e le esigenze aziendali. Altre volte, si è intrattenuti da un pop-rap sofisticato, per esempio quello di “Time Flies” con Lil’ B, colorato ma meno memorabile. Tornano anche dei brani da festa, come il crunk di “In The Bag” e qualche momento più creativo, come il rap emotivo su beat frenetico di “Jump”. Il singolo di maggior successo è il quintuplo platino “The Weekend”, con Miguel, un party-rap stordito, ma arriva al platino anche il pop-rap corale di “100 Grandkids”. Questa volta però i 70 minuti totali suonano sovrabbondanti. I risultati commerciali si confermano interessanti: vende 73 mila copie nella prima settimana e arriverà, nel 2018, al disco d’oro per il mezzo milione di copie vendute negli Stati Uniti.
Sempre nel 2015 pubblica anche il mixtape strumentale Run-On Sentences, Volume Two, sempre come Larry Fisherman. Valgono le considerazioni fatte per il primo capitolo.
Il quarto album ufficiale, The Divine Feminine (2016), è un concept che esplora temi legati all’amore e alla femminilità, scartando dai precedenti. Anche questa volta, i nomi nella lista degli invitati sono notevoli: Kendrick Lamar, Anderson .Paak, CeeLo Green, Ty Dolla Sign e la popstar Ariana Grande, con cui Mac Miller ha anche una relazione sentimentale.
Album più breve e con meno titoli in scaletta, è più emotivo e sentimentale ma il tema relazionale non aiuta sempre a scansare i cliché. Già gli archi di “Congratulations” (feat. Bilal) suonano come parte di un linguaggio ben conosciuto e i testi non sono da meno, in quanto a luoghi comuni (si ascolti “Stay”). Quando la sensualità si sviluppa per gemiti e sax come in “Skin” si ha la conferma che non è il suo album più creativo, neanche nelle produzioni.
Il singolo “Dang!” (feat. Anderson .Paak; disco di platino) è invece un funk elettronico, non particolarmente originale.
Almeno in “Cinderella” (feat. Ty Dolla Sign) il punto di riferimento diventa un certo modo di fare pop grandioso degli anni Settanta, perdendosi tra orchestrazioni e allucinazioni lisergiche.
Ha debuttato al secondo posto nella Billboard 200, vendendo circa 48.000 unità nella prima settimana (un significativo calo rispetto al precedente album).
Nuotare in cerchio: Swimming, Circles, Baloonerism
Il quinto album Swimming (2018), l’ultimo album pubblicato in vita, ha ricevuto una nomination ai Grammy Awards nella categoria Best Rap Album. Ha debuttato al terzo posto nella Billboard 200, vendendo circa 66 000 unità nella prima settimana. In seguito alla morte, tornerà nei piani alti della classifica. Otterrà così il doppio platino in patria, più altri risultati rilevanti in Danimarca, Nuova Zelanda, Francia e Regno Unito.
Tra gli ospiti compaiono anche Dâm-Funk, Dev Hynes, Snoop Dogg, Syd, Thundercat e JID, anche se nessuno risulta nei crediti. La produzione è dello stesso Mac Miller, insieme a Jon Brion, Dev Hynes, J. Cole, ID Labs, Dâm-Funk, DJ Dahi, Tae Beast, Flying Lotus, Cardo e altri.
Attraversato dal tema della fine della relazione con Ariana Grande, è un album in cui Mac Miller esplora la sua fragilità emotiva senza rinunciare alla sensualità di The Divine Feminine. Malinconico e riflessivo sin dall’iniziale blues-pop senza batteria di “Come Back To Earth” ma capace anche del sofisticato soul-r’n’b-rap di “Perfecto”, di un pop-rap psichedelico che si trasforma in un mumble-rap come “Self Care” o della nuvola onirica di “Wings”, è un album multiforme di un rapper nel pieno della sua maturità, a suo agio con declinazioni differenti del suo sound.
Swimming è l’album del festoso funk di “Ladders” (feat. Pomo e Nice Rec) e della felpata, sonnolenta “Conversation, Pt. 1” (feat. Cardo, Yung Exclusive e Flying Lotus), dell’r’n’b per cori di “Jet Fuel” (feat. DJ Dahi e Steve Lacy) e della chiusura quasi liturgica di “So It Goes”, che cita Kurt Vonnegut.
Tragicamente, proprio il finale di “So It Goes” è protagonista dell’ultima storia su Instagram di Mac Miller, dove descrive come la coda del brano dovesse suonare come “un’ascesa in Paradiso”.
Gli eredi iniziano ad attivarsi per la pubblicazione di materiale postumo nel 2019, con alcune collaborazioni in brani singoli, ma ad attirare l’attenzione è il primo album postumo, Circles, pubblicato a inizio 2021. Ha debuttato al terzo posto nella Billboard 200, vendendo circa 164.000 unità nella prima settimana.
Ridurre Circles a un coccodrillo è poco generoso, perché indipendentemente dal contesto funebre in cui nasce è un grande esempio di emotività pop-rap e neo-soul.
Adagiando riflessioni malinconiche su beat educati, l’album scopre un equilibrio tra struggimento e leggerezza, intimismo e poesia. È un caldo abbandonarsi a un corollario di brani scritti con la maturità di un narratore che non lascia mai che un colpo di scena possa distogliere l’attenzione, preferendo che ogni canzone porti naturalmente alla successiva. Un flusso a tratti indiscutibilmente pop (“Blue World”, “Everybody”), altre volte a suo agio anche nel masticare ritmi funk e sensualità r’n’b (“Complicated”, “I Can See”, “Woods”), sussurrare pensosi rap (“Circles”, “Good News”) o lasciarsi avvicinare da giostre melodiche folk (“That’s On Me”) o blues (“Surf”).
In questo succedersi di emozioni color pastello il finale di “Hand Me Downs”, per un assolo di fischi theremin-iani, costituisce l’ideale momento in cui salgono i lucciconi agli occhi: gioca di fioretto Miller, ma proprio per questo gli affondi di fragile malinconia suonano particolarmente toccanti.
Poi succede inevitabilmente: finisce “Once A Day” e rimane un terribile vuoto. La trance dell’ascolto lascia spazio alla riflessione sul contesto. La vicenda umana, certo, ma anche il fatto che Circles doveva completare con Swimming un progetto unico, da estendere a una trilogia dal finale marcatamente più hip-hop.
Preceduto da alcune riedizioni di mixtape, nel 2025 arriva il secondo album postumo, Baloonerism. Cronologicamente, si colloca nello stesso periodo di Faces e riprende lo spirito psichedelico di quel periodo della carriera del rapper, pur mostrandone il lato più malinconico. Già oggetto delle attenzioni dei fan, che hanno ascoltato versioni non ufficiali circolate online nel corso degli anni, comprende la collaborazione di SZA e la comparsa dell’alter ego Delusional Thomas.
Il delicato lavoro sul materiale ha cercato di conservarne la natura originaria, senza smussare troppo gli spigoli di brani che non erano ancora stati conclusi al momento della morte del cantante.
Una breve introduzione e inizia la liturgia di “DJ’s Chord Organ” (featuring SZA; DJ sta per Daniel Johnston), che sembra emergere direttamente da un altro mondo, tra voci angeliche, prima di diventare un sensuale funk-pop-rap allucinato, con coda funebre. È un ottimo modo per presentare un album multiforme, che cambia spesso registro e mood, rivelando sviluppi inaspettati che mettono in contatto estetiche molto diverse: il cloud rap con lo psych-rock, l’r’n’b con il neo-soul, il rap più astratto con quello più conscious ed emo. Un album anche raffinato e ricercato, che ritorna occasionamente verso il jazz (“5 Dollar Pony Rides”), scopre riferimenti persino verso la scuola west-coast nei synth pigolanti di “Friendly Hallucinations”. È una dolce, disperata confusione, come riassumono alcuni versi di “Mrs. Deborah Downer”:
All roads lead to the same confusion
I mean, all roads lead to the same conclusions
Il viaggio, come in Circles, è un unico flusso creativo, o se si preferisce un unico trip che a volte si intensifica (“Shangri-La”; “Transformations”, dove torma l’alter ego Delusional Thomas) e altre volte piega verso un onirico quotidiano (“Funny Papers”; il ricordo di “Excelsior”). Non importa neanche fare molte congetture per intravedere l’ombra della morte in questi brani, basta leggere versi come quelli di “Manakins” (“It feels like I’m dyin’”). Questo però non significa che prevalga la disperazione, anzi il sogno è dietro l’angolo, alimentato da una speranza ammaliante come quella che emerge dal piano di Rick Rubin in “Rick’s Piano”.
Il finale è affidato alla lunga “Tomorrow Will Never Know”, il suo capolavoro psichedelico, che riesce a concludere con un’impennata creativa un album che già così si fatica a considerare meno che eccezionale. Il secondo album postumo di Mac Miller, che riesce a mettere insieme Faces e Circles, si conclude con 12 minuti che uniscono il suo atipico pop-rap psichedelico e malinconico con atmosfere onirico-inquietanti degne di un film di David Lynch. Le domande finali racchiudono questo misto di angoscia e sogno, immaginando la vita dopo la morte:
Do they dream just like we do?
Do they love just like we do?
Baloonerism, prodotto principalmente dallo stesso Mac Miller insieme a contributi importanti di alcuni amici e collaboratori come Thundercat, fondamentale anche per le linee di basso, è un pugno allo stomaco. La sua lunga coda, che scioglie l’emozione in una musica bandistica disordinata e cacofonica, dolorosamente nostalgica e che ricorda il colossale “Everywhere At The End of Time” si chiude con una frase che suona come un epitaffio: “Give you a chance to start over”. Poi un telefono continua a squillare, ma nessuno risponderà mai.
Antonio Santini for SANREMO.FM