Capita spesso che Florence Welch sia ansiosa. «L’ansia è una presenza costante nella mia vita», dice. «Quando poi salgo sul palco però sparisce». Ed è lì, sul palco, che si trova in questo momento, avvolta in un lungo abito bianco, seduta di fronte a 150 persone al Cherry Lane Theatre di New York, affascinante teatro di downtown noto per essere stato la culla dell’off-Broadway. Manca una settimana all’uscita di Everybody Scream, il sesto album realizzato coi Florence + The Machine, e Welch è qui per la prima edizione live di Rolling Stone Interview, la storica serie di conversazioni approfondite (l’intervista inaugura anche il video-podcast del format, lo si può vedere qui sotto, sul canale YouTube di Rolling Stone e sulle altre piattaforme).
Nel corso dell’intervista e della performance acustica che la accompagna, l’aria in sala è elettrica tanto quanto quella dell’album, anche quando gli argomenti non sono propriamente leggeri. Realizzato con collaboratori come Aaron Dessner dei National, Mark Bowen degli Idles, Mitski e James Ford, Everybody Scream è una riflessione viscerale e mistica sulla vita e sulla perdita, oltre che uno showcase per la voce straordinaria di Welch, che fin dal debutto del 2009 è uno degli strumenti più potenti della musica pop. Le canzoni sono nate dalle esperienze del tour di Dance Fever, quando l’artista ha avuto una gravidanza extrauterina e la rottura di una tuba di Falloppio, che ha richiesto un intervento d’urgenza per salvarle la vita.
Nel corso della conversazione, Welch alterna sincerità e ironia, e riflette su com’è cambiata negli anni e sugli effetti che questo cambiamento ha sulla musica. «Più la mia vita diventava tranquilla e più riuscivo ad essere selvaggia nelle performance, nei video, negli artwork», osserva a un certo punto. «Ho scoperto che liberarsi dalla vergogna ti permette di andare a fondo a moltissime cose, e questa la considero una cosa straordinaria».
La storia dell’album comincia col tuo ultimo tour, quello di Dance Fever. Puoi raccontarmi com’eri prima che iniziasse e dopo?
Credo che in un certo senso Dance Fever fosse un disco profetico, mentre questo è sulla catastrofe. Anche quello parlava di performance, del fatto che improvvisamente ci erano state tolte. C’è stato un periodo in cui i musicisti non sapevano se la musica dal vivo sarebbe mai tornata e in quel disco mi chiedevo se volevo continuare o se invece desideravo metter su famiglia. E poi, durante il tour, ho vissuto un’esperienza di vita o di morte che mi ha spinta a creare questo album. Everybody Scream è nato dal desiderio di addentrarmi più a fondo nella magia e nel misticismo. Tipo: devo capire che diavolo sta succedendo. Mi si è aperto un portale verso un altro luogo. È stato un viaggio di esplorazione autentico, che ha fatto emergere tante mie diverse sfaccettature.

Ti era mai capitato che un album o una canzone profetizzassero ciò che sarebbe accaduto dopo?
Mai in modo così letterale. Avevo scritto un pezzo per Dance Fever chiamato King in cui mi interrogavo sul desiderio di diventare madre. Un verso diceva: “Non sapevo che il mio assassino sarebbe venuto da dentro di me”. Mi ha quasi uccisa una complicazione dovuta a un aborto spontaneo avvenuto sul palco. Non era mai stato tutto così diretto prima.
E cosa ti ha spinta a studiare di più la magia e il misticismo?
Quando succede qualcosa al tuo corpo, ti senti impotente. Credo che stessi cercando una qualche forma di potere e che mi sentissi in uno stato primitivo. È stato tutto improvviso, violento, e mi ha salvato la vita. Quando devi sottoporti a un intervento d’urgenza, le luci sono accecanti, è tutto così asettico. E quindi dopo ho sentito il bisogno di stare vicino alla terra. Avevo bisogno della natura. Tra le storie di nascita, vita e morte, trovavo sempre racconti che avevano a che fare con la stregoneria. Non puoi documentarti su quelle cose senza imbatterti in leggende, folclore o racconti di magia. È un campo dominato dall’ignoto. Nessuno sapeva dirmi perché mi fosse successo. Sfortuna, dicevano. Quando nessuno sa spiegarti il motivo, lo cerchi tu un significato, è un modo per capire e anche un po’ per cercare di avere il controllo sulle cose.
Hai vissuto la perdita di gravidanza sul palco, davanti a migliaia di persone. Come hai gestito questa cosa in quanto performer?
Mi sentivo male, ma come fanno tutte le donne ho preso dell’ibuprofene e sono andata a lavorare. Ero in un luogo che conoscevo, in uno spazio di potere e di controllo del corpo, e stavo vivendo una perdita. Non sapevo quanto fosse pericolosa, ma pensavo: devo farcela, se riesco a finire questo concerto, almeno non avrò perso un’altra cosa. Quando sono salita sul palco il dolore è sparito e mi sono sentita libera. È stato paradossalmente uno show incredibile, in un certo senso stavo rischiando di morire, ma non lo sapevo. Non sapevo di avere un’emorragia interna. Ho sentito una presenza, quella che mi accompagna sempre sul palco, prendere il controllo e aiutarmi ad arrivare fino alla fine. Forse era amore o qualcosa del genere. Ero nel fango, ero in un uragano, e in modo strano è stato bellissimo. Sembra assurdo a sentirlo, vero?
Hai iniziato a scrivere l’album subito dopo o ti è servito del tempo per elaborare l’accaduto?
Avevo già iniziato. Il primo con cui ho lavorato è stato Mark Bowen degli Idles. Quando avevamo del tempo libero dai tour, ci incontravamo e cominciavamo a buttare giù idee. One of the Greats stava già prendendo forma e poi credo sia arrivata Everybody Scream. Sono passata direttamente dal tour allo studio di registrazione. Avevo bisogno di elaborare quello che era successo. Ho fatto anche un po’ di terapia per via del trauma. La terapeuta è stata bravissima, specializzata nelle esperienze come la mia. Mi ha detto che a volte la gente sente il bisogno di provare ad avere subito un altro figlio, come una sorta di riparazione. «L’unico consiglio che posso darti», mi ha detto, «è di non riprovarci finché non ti senti di nuovo te stessa». E io mi sento me stessa solo quando faccio musica, quindi ho elaborato l’accaduto in quel modo lì.
Non ricordo bene i primi sei mesi in cui abbiamo lavorato sul disco. Canzoni come Witch Dance e You Can Have It All, le prime scritte subito dopo, quasi non le ricordo. È stato straordinario lavorarci con Bowen, ha un approccio dissonante, punk, usa suoni brutali. È quello di cui avevo bisogno. Era stato un evento brutale nella mia vita e lui era la persona giusta con cui scrivere musica in quel momento.
C’è anche molto umorismo. In Music by Men canti: “Mi spezzo le ossa / Prendo quattro stelle su cinque / Ascolto una canzone dei 1975 / E penso: al diavolo, tanto vale provare la musica fatta dagli uomini”. Quale canzone dei 1975 stavi ascoltando?
(Canta, nda) “We’re fucking in a car / Shooting heroin / Saying controversial things…”.
Love It If We Made It?
Sì. Ho pensato che era una bella canzone. Sai, spesso scrivere è anzitutto una questione di rime. Avevo bisogno del nome di una band che facesse rima con “five”. Quando mi sono rotta un piede sul palco, quel concerto ha preso quattro stelle su cinque. E ho pensato: cos’altro devo fare? Ho letteralmente sanguinato sul palco, l’hanno dovuto pulire finito il mio show, e alla fine? Quattro su cinque. Cristo santo. E adesso?
In One of the Greats canti: “Sarò lassù con l’uomo e le dieci altre donne e i 100 dischi più grandi di tutti i tempi / Dev’essere bello essere un uomo e poter fare musica noiosa solo perché puoi”.
Lo trovo divertente. Pensavo: quando mai sarà abbastanza? Do così tanto di me e a volte mi chiedo se non vengo presa sul serio perché non ho quella forma di riservatezza maschile, quel distacco freddo, il non dire tutto – il classico «cosa vorrà dire? È così enigmatico e cool». Però poi ascolto certe cose con quel riserbo maschile e penso: ma non è noioso? Cosa stanno dicendo, in fin dei conti? Forse sarebbe più facile trattenersi, essere semplicemente affascinante e sentirmi dire «wow, rivoluzionario». Sono invidiosa. Quando si insulta qualcuno, spesso è proprio da lì che viene: dall’invidia.
È stata quella recensione o un altro episodio a spingerti a riflettere sui limiti della percezione delle donne nell’industria musicale?
Se guardi le classifiche o le liste, vedi che c’è un numero di posti limitato per le donne e una volta che li hanno riempiti pensano: «Ok, casella spuntata». A dirla tutta, non mi sono mai identificata con il mio genere e ancora oggi non so cosa significhi essere donna. Non so che sensazione sia. Non le attribuisco un significato particolare. Per questo non ho mai percepito barriere. Solo crescendo mi sono resa conto che non mi prendevano sul serio perché ero giovane e donna. E io che pensavo che fosse perché mi trovavano fastidiosa… Poi ci ripensi, vedi che lo stesso schema si ripete con altre ragazze e capisci: aspetta un attimo, forse non c’entrava niente con me. E con la saggezza arriva anche la rabbia. Questo disco parla dei sacrifici aggiuntivi che servono per dedicarsi completamente a questa vita e al palco. Ne ho parlato con Mitski, e lei m’ha detto: «Sì, ma l’intimità che ti regala è straordinaria». Lo penso anch’io.
Ti sei mai sentita sottovalutata in quanto artista?
Non è una questione d’essere sottovalutata, è solo che a volte cerchi una convalida nelle persone sbagliate. C’è tanta gente che ama quel che fai, però poi arriva un tizio, uno solo che dice: «Mah, non mi piace». Col tempo cresci ed è bellissimo smettere di dipendere da cose del genere. E poi, il modo in cui vengo apprezzata è l’unico che vorrei. Non ho mai desiderato essere più famosa di così. Questa è esattamente la quantità di notorietà che riesco a gestire. Alla fine, grazie al lavoro, ho avuto la carriera che volevo. C’è stato un momento, ai tempi di Lungs, in cui avrei potuto imboccare una strada più mainstream. Ma non ho la testa per reggere tutta quell’attenzione. Ho sempre fatto scelte che mi riportavano lontano dai riflettori, verso la musica.
E quando esci dai panni della rockstar sul palco, com’è la tua vita?
Piuttosto noiosa. Il punto è proprio questo: essere tranquilla nella vita per poter essere selvaggia sul palco. Per me è così. Più facevo una vita tranquilla e più riuscivo a essere audace sul palco, nei video, negli artwork. Tutta l’autocritica e la vergogna che cercavo di annegare nell’alcol o nelle droghe… una volta sobria, con una vita più quieta, ho scoperto che liberarsi dalla vergogna apre enormi spazi creativi. Cammino, leggo, guardo la tv. Quando sei in tour pensi che vuoi solo tornare a casa. Poi torni a casa e senti che dentro di te c’è una belva che vuole uscire. Non sono fatta per la vita casalinga, ma tutte le altre cose connesse alla fama non mi interessano, mi stressano.
Per esempio?
C’è una frase in Sympathy Magic che parla delle vaghe umiliazioni della fama. Ecco, la fama per me è proprio questo: una serie di piccole umiliazioni. Il lato celebrity non mi ha mai attratta. Sono timida, ansiosa, ho bisogno di sognare a occhi aperti, di passare del tempo lontana dai riflettori. Non amo l’attenzione, a meno che non riguardi il mio lavoro. Giù dal palco, voglio una vita riservata e silenziosa.

Uno dei primi che hai chiamato per questo album è stato James Ford, che aveva già lavorato con te su Dog Days Are Over. Cosa ricordi della nascita di quella canzone che ti ha cambiato la vita?
Ho ancora il CD col demo originale di Dog Days. Stavamo provando ai Premises Rehearsal Studios, a East London. James aveva lo studio al piano di sopra e sono andata a bussare alla sua porta. Lui racconta che sono entrata e ho cominciato a battere sul tavolo cantando il brano. L’etichetta con cui lavoravo non capiva per niente il provino. Dicevano di no: «Dov’è un’altra Kiss With a Fist? Quella sì che era divertente, carina, con chitarre orecchiabili». E invece James l’ha capito subito. La prima cosa che ha fatto è stata accelerare un po’ la canzone. Avevo bisogno di un singolo di lancio per questo disco e il demo di Everybody Scream che avevo selvaggio e un po’ confusionario. Lui ne ha capito subito lo spirito e anche stavolta la prima cosa che ha fatto è stata aumentare il tempo. Ho pensato: ok, mi fido, l’altra volta è andata bene.
Hai avuto dei mentori nel corso della carriera?
Nick Cave è stato incredibilmente gentile con me. Nick e Susie Cave sono amici meravigliosi. Ho mandato a Nick alcune delle mie poesie e lui mi ha aiutata a editarle. Gli scrivevo e-mail stressate dal tour e lui mi rispondeva con estrema gentilezza. In quanto performer che usa il corpo, capiva quel che stavo attraversando. È un essere umano fuori dall’ordinario.
Sei sempre stata selettiva nelle collaborazioni, ma una importante è Florida!!! con Taylor Swift. Com’è nata?
Mi ha scritto: «Mi piacerebbe averti in questa canzone». Lei scrive canzoni che sono racconti brevi. Aveva già tutta una storia dietro il brano, sul perché voleva scriverla e sul folklore della Florida. Io ho voluto portare ciò che conoscevo della Florida, cioè Lauren Groff. Uno dei miei libri di racconti preferiti si chiama Florida ed è da lì che viene Groff. C’è un racconto, Eyewall, su una donna che si barrica in bagno durante un uragano e viene visitata dai fantasmi dei suoi ex. E lei è ubriaca e con un pollo in mano. È un racconto breve fantastico. Taylor è stata una collaboratrice apertissima. Diceva: «Sì, fai pure quello che vuoi. Metti tutti i cori che vuoi, voglio che sia il più Florence possibile». «Voglio anche suonare un tamburo». E lei: «Sì, fallo». Vederla costruire quelle armonie è stato incredibile.
In One of the Greats canti che ti sentivi “bruciata a 36 anni”. Ti senti ancora così?
In realtà credo che quando compirò 40 anni mi sentirò benissimo. Davvero. Quando ti avvicini a un nuovo decennio inizi a sentirti sempre peggio, ma poi quando ci arrivi ti senti di nuovo giovane. Questo disco aveva un’urgenza disperata di uscire. Se non l’avessi pubblicato ora, credo non lo avrei più fatto. È legato profondamente all’età che ho e alle esperienze che sto vivendo. Se avessi avuto più tempo per prendere le distanze da ciò che mi è successo, sarebbe stato tutti diverso. Sono felice di essere riuscita a metterlo assieme, perché è un’esperienza che tante persone fanno nel silenzio, nell’ombra. E l’idea che anche quest’album potesse non farcela mi rattristava. Sono contenta che ce l’abbiamo fatta.
Da Rolling Stone US.
