C’è chi dice che in fondo una lingua altro non è che un dialetto che ha fatto fortuna, oppure, più cinicamente, chi sostiene, come Noam Chomsky, che una lingua è un dialetto con un passaporto e un esercito. Massimo Silverio, cantautore e polistrumentista che arriva dalla Carnia, decide, incantando tutti, che la lingua – una seconda pelle – suona più di ogni strumento musicale.
Il suo disco d’esordio, Hrudja, è stato universalmente riconosciuto come uno dei migliori lavori del 2023 oltre ad aver stregato Iggy Pop che nel suo programma su BBC Radio6 ha trasmesso una canzone del musicista di Cercivento, e non era affatto scontato per un disco scritto e cantato in carnico. Silverio sembra appartenere a quella generazione di letterati che, alla fine del secondo conflitto mondiale, si dedicò all’uso della propria lingua, in poesia e prosa, e allo studio delle tradizioni, riversando nella musica la potenzialità del valore meta linguistico che mantiene salva una zona di mistero.
La dimensione atemporale di Hrudja gode di una sacralità radicale e autentica nella limpidezza di un grembo sonoro tanto accogliente quanto labirintico; Silverio si fa custode di storie e luoghi rivendicando un’identità ben precisa; nella sua parabola estetica e sonora sembra scorgersi un’opera di ricodificazione del proprio passato, della propria lingua attraverso una lettura profonda e pulsante del suono che hanno le parole.
La visceralità con cui Massimo Silverio affronta ogni ciclo del proprio processo creativo è estremamente preziosa e la ricerca di verità di cui mi ha parlato in questa lunga intervista mi ha fatto pensare spesso a Pasolini secondo cui “la verità ha un suono speciale, e non ha bisogno di essere né intelligente né sovrabbondante (come del resto non è neanche stupida né scarsa)”. L’epitome perfetta per raccontare l’universo sonoro di Silverio, il suo garbo, la sua cura, il suono speciale di Hrudja.

«Vorrei essere scrittore di musica» scriveva nel 1966 il tuo conterraneo Pier Paolo Pasolini, che oltre a essere poeta, narratore, regista e drammaturgo era anche appassionato e studioso di ogni rito sonoro, di ogni incanto fonico. Nel suo caso la passione per la musica nacque con Bach, fu una rivelazione, un’epifania. La tua qual è stata? Qual è il tuo primo ricordo musicale?
Mi ricorderò sempre che quando ero alle elementari mio padre mi regalò Fabrizio De André in concerto – Arrangiamenti PFM, quello resta in assoluto il disco che ho ascoltato di più nella mia vita. In Carnia i negozi di dischi non erano molti quindi vivevo con ciò che mi passava mio padre. Ascoltavo questo disco di continuo, anche durante la notte, e soprattutto Amico Fragile – in chiusura di scaletta – mi accendeva in modo particolare. Credo sia stata quella la volta in cui mi sono detto che un giorno sarei voluto essere musicista, che avrei voluto scrivere qualcosa del genere. È il mio primo ricordo in cui mi sono detto “potrei farlo nella vita”.
Sono felice di parlare di De André perché personalmente inserisco Hrudja nello stesso solco di dischi come Creuza de mä per il coraggio di aver scelto una lingua minoritaria ma che è una lingua a tutti gli effetti, il carnico (cjarniel) isolando in qualche modo le tue canzoni, come lui lo aveva fatto usando il genovese stretto. Immagino che il carnico sia per te come una seconda pelle ma resta il fatto di aver un po’ rinunciato, peraltro con il disco d’esordio, al senso della parola, a una comprensibilità immediata e pervasiva, una delle armi più determinanti e affilate per un cantautore. Cosa ha significato per te questa scelta? In questo si può ritrovare anche un sentimento di tipo politico?
Un sentire da un punto di vista politico può esserci perché quando ho deciso di fare questo disco, raccogliendo anche canzoni che avevo scritto dieci anni fa e che non ero mai riuscito a pubblicare, ho deciso di farlo in friulano principalmente (nel disco è presente anche l’utilizzo della lingua inglese, ndr), perché ho sentito il bisogno di seguire anche una tradizione di cantautori che aveva portato avanti questa scelta tempo fa, soprattutto negli anni novanta, e poi perché cercavo, dando molto peso a quello che scrivo, di farlo utilizzando la lingua che parlo per essere il più sincero possibile. Ho così avuto la possibilità di far vivere quello che è il mio mondo interiore nelle canzoni, che altro non sono che paesaggi di ciò che sento dentro di me, di quello che ho vissuto in questi anni in Friuli. Il friulano è la mia lingua madre, la mia prima lingua, quella che parlo tutti i giorni, quindi se volevo essere sincero dovevo scrivere in friulano. Non volevo certo trovarmi nella condizione di dover tradurre le mie canzoni per renderle fruibili ai più, e poi perché penso che una lingua come la mia, così come anche il genovese, sono lingue che trasportano già al loro interno quello che sono i paesaggi in cui vengono parlate. E visto che oltre alla mia interiorità volevo che il disco potesse parlare di montagne, di cosa significa viverci, ho pensato che il suono, il timbro di queste parole portasse tutto quanto è per me la Carnia.
Un po’ come il Mediterraneo immaginato da De André e Mauro Pagani che inizialmente avevano optato per un idioma immaginario, una sorta di grammelot degli uomini di mare. Credo che anche per te fosse necessario trovare una lingua che scivolasse sopra suoni e strumenti, che evocasse attraverso fonemi cantati – indipendentemente dalla loro immediata comprensibilità – le stesse atmosfere che i tuoi luoghi evocavano. Gli ascolti che hai fatto da piccolo sembrano essere tornati.
Sì assolutamente, anche perché crescendo ho iniziato ad ascoltare De André in maniera più intensa, e credo che le canzoni che ha scritto in genovese siano state, in maniera retroattiva e non esattamente conscia, una sorta di incoraggiamento, un aiuto a fare questa scelta. Avevo iniziato a scrivere in italiano ma quando si è presentata la possibilità di fare un disco, il mio primo disco, mi era chiaro che volevo farlo in carnico anche perché nel panorama musicale italiano sentivo il bisogno di fare qualcosa che mi rappresentasse nella totalità, non volevo di certo finire in mezzo a una corrente di musicisti che non ascolto più di tanto.
Pensando ai titoli dei brani del disco ravviso un forte riferimento al corpo, alla fisicità che si fa luogo. La schiena (Šchena), il grembo (Grim), la pelle (Piel). Si cela una ricerca dietro a questa corporeità espressa attraverso elementi così universali o è stato un processo naturale?
Prima tu hai parlato di lingua come seconda pelle, ed è giustissimo, è esattamente quello che sento. Mi ricollego un attimo a quello che dicevamo prima, la decisione politica: il carnico, che è la variante più antica del friulano, è una lingua che sento che pian piano sta scivolando via dalla pelle di una lingua – il friulano – molto più parlata. Nella Carnia, oltre a sentire la desolazione che sta prendendo piede in quelle zone, percepisco anche quanto questa lingua venga parlata di meno quindi c’è anche la mia volontà di salvare determinate parole.
Di fare memoria attraverso il suono
Esatto, anche perché i miei coetanei tendono a parlare un carnico molto più moderno, molte espressioni vengono tradotte dall’italiano in friulano quando in realtà quella parola già esiste nel vocabolario carnico. Anche il titolo del disco, Hrudja è l’antenato longobardo della parola “grusa” che in friulano indica la crosta che si crea al rimarginarsi di una ferita; mi piace molto l’idea della crosta perché sento anche fisicamente come questa lingua se ne sta andando via dalla pelle, proprio come accade con la crosta che scompare senza accorgercene. Questa caducità dello strato che si tiene aggrappato in maniera non così decisa, mi ha portato a ragionare un po’ sul perché scrivevo certe canzoni e sul perché avessero un significato fisico. Il carnico è una lingua che quando io canto sento in tutto il mio corpo. Vedo Šchena legata a una figura paterna, Grim a una figura più materna, è un disco che vive di dualità, ogni canzone ha il proprio corrispettivo, che lo contrasta o lo completa. E sì, questa fisicità di cui parli, è data anche dal fatto che natura corpo e spirito sono una cosa sola e questa totalità riesci a percepirla vivendo in Carnia. Questi sono testi che escono da me ma vorrei fossero accessibili a tutti, al di là dello scoglio linguistico.
Questa immagine bellissima che ha ricreato parlando del significato di Hrudja mi fa pensare al passato, all’infanzia, alle ginocchia sbucciate, a quel segno così concreto, materico che restava sul corpo per un po’. Come se le croste lasciassero la visione della caduta, realizzandone il dolore, qualcosa che la maturità, l’età adulta sembra non donarci. Eppure cadiamo ugualmente: erano meglio le croste delle ferite all’anima? Mi sembra che la tua musica, con la sua necessità di fare memoria, di proteggere il passato, tiri fuori anche questo bisogno di tornare ad avere delle croste.
Sono completamente d’accordo con ciò che dici, è molto bello. Quando ero bambino e mi sbucciavo le ginocchia, ricordo quanto vivessi quella crosta, ci giocavo, la stuzzicavo, la osservavo in attesa che guarisse. E poi qualcosa rimaneva, il segno di quel fatto; anche quando cresci, e guardi il tuo corpo, puoi ricordarti di quando sei caduto, di dove è successo, delle croste che avevi sulla pelle. Oggi non so se capita più a livello così fisico, è migrato tutto verso un aspetto più astratto, metafisico, si tende più a tener conto di ferite che sono meno concrete. Crescendo trovo che diveniamo sempre più confusi, almeno personalmente è così. Da piccoli avevamo un’altra consapevolezza.
È molto suggestivo tutto questo, così come lo è stato scorgere un’assenza di rabbia in quello che canti, nel modo in cui porti la voce, in un mondo invece costantemente invaso dalla violenza verbale, dall’accanimento sull’altro: nei tuoi suoni ritrovo una dimensione arcaica in cui si può raccontare il bene e il male nella grazia di un equilibrio che è fatto anche di quell’inquietudine liturgica che mi ricorda gli Swans ma priva della violenza cruda di Gira.
Grazie per aver citato gli Swans, mi hai letto molto bene! Ho ascoltato tantissimo The Seer. È vero, io ho ascoltato tanta musica cattiva, anche perché spesso è strano essere friulani, sembra di essere tagliati fuori dall’Italia. Ho fatto tanti tentativi per cercare di portare la mia musica fuori, di trovare le persone giuste con cui lavorare, e c’è sempre stato questo silenzio molto sfibrante che ha reso difficile il processo, è stata tosta arrivare fino a qui. Per un periodo ho sentito la rabbia della frustrazione, una rabbia che magari non emerge dai testi o dalla scelte musicali ma semplicemente da come si presentano i brani, da come si portano al mondo. Nella mia vita ho ascoltato anche metal estremo, e gli Swans sono arrivati come una parte di quello che è stato il mio spettro di ascolti durante tutta la mia vita in un periodo in cui avevo abbandonato la musica più feroce ma che avevo ritrovato molto, come hai detto tu, nelle loro liturgie, nelle ripetizioni ossessive, nel caos che si crea e si espande.

Mi piacerebbe parlare della parte più tecnica, la scelta della strumentazione e le persone con cui hai lavorato, dalla produzione di Manuel Volpe (Rhabdomantic Orchestra) al contributo del musicista piemontese Nicholas Remondino
Tutto è iniziato grazie un gemellaggio col Piemonte. Anni fa sono entrato in contatto con Nicholas che è un percussionista e sound artist incredibile, uno dei migliori che abbiamo in Italia. Suoniamo insieme da anni, dal 2018, abbiamo fatto concerti in giro per l’Europa quando il disco era ancora un’idea campata per aria. Quando lui doveva registrare qualcosa, andava sempre a Torino al Rubedo Recordings studio con Manuel Volpe, di cui ho sempre ascoltato le produzioni, innamorandomene completamente. Quindi mi sono detto che se mai un giorno avessi avuto soldi per fare un disco, avrei voluto farlo con lui. Quando la possibilità si è presentata davvero, io e Nicholas glielo abbiamo proposto ed è stato incredibile. Nonostante la distanza e i fondi che non sono mai abbastanza, abbiamo registrato in circa dieci giorni tutto quello che ci veniva in mente, e poi Manuel ha lavorato al mix agendo in sottrazione finché non siamo arrivati al risultato finale, estremamente vicino alla visione che avevamo quando suonavamo in studio. C’è stata subito sinergia fra noi tre. E anche adesso, che stiamo iniziando a portare il disco in giro live, sono onorato di lavorare con lui.
Tu hai studiato musica classica? Vorrei capire come si inseriscono alcuni strumenti come il violoncello, la guzla e l’organo all’interno di un ambiente elettrico fatto di synth e sampler
No, non ho mai preso lezioni di musica né di canto. Mi sono approcciato in maniera spontanea a tutto. La cosa che più amo del canto tradizionale friulano è proprio la sua spontaneità, e così è sempre stato il mio modo di avvicinarmi alla musica. Ad esempio ho iniziato a suonare il violoncello . che è uno strumento più classico – perché anni fa suonavo con musicisti studiosi della musica tradizionale friulana, che molto semplicemente mi hanno dato lo strumento e mi hanno detto “suona”. E io ho iniziato. Quindi l’unione di strumenti variegati, di un sound che va dall’acustico all’elettronico, è anche il sunto dei miei ascolti, e delle mie esperienze di vita oltre a fondere quello che a tutti e tre, a me Nicholas e Manuel, piace. Hrudja suona moderno ma ha una sua materia, un suo corpo. Si torna alle dualità di cui ti parlavo prima: anche nella strumentazione emerge questo elemento.
Come vi state organizzando con la dimensione live? Il tuo mi appare un disco più complesso da trasmigrare in luoghi asettici, che non siano la grotta o la chiesa dei live che ho visto su YouTube. Ho subito pensato che la tua musica avesse bisogno di un luogo vivo, di una natura che suona con te, e illumina al meglio i tuoi pezzi…
Fosse per me suonerei sempre in luoghi che risuonano! La mia volontà è anche quella di non abbandonare mai la dimensione in solo, violoncello e voce, o chitarre e voce che mi permettono di suonare in luoghi come quelli che citavi tu, come il concerto che ho fatto nell’ex convento di San Francesco di Pordenone, una dimensione in cui mi sono trovato perfettamente a mio agio, nei riverberi di quel luogo. Sono state esperienze bellissime. Il trio adesso suonerà in locali e club che ovviamente hanno un’impostazione diversa, più neutra, e devo provare a vivere anche quella dimensione che un po’ mi imbarazza, non sono a mio agio come dentro le grotte! A Pesaro recentemente abbiamo suonato in teatro e si è creata un’energia molto bella tra noi tre…come se fossimo riusciti a non essere più in quei luoghi, spero continui a esserci sempre questa magia, questa trasposizione altrove. Penso a un mio brano, Nijò, che significa al tempo stesso “in nessun luogo” e “ovunque”, e mi auguro che la mia musica abbia effettivamente questa caratteristica, di poter essere suonata ovunque e in nessun luogo. Perché ogni luogo può essere nessun luogo. Spero che anche i prossimi concerti possano staccarsi dalle mura concrete attorno a noi e divenire qualcosa di astratto.
La doppia valenza di Nijò mi porta a chiederti dell’artwork e soprattutto della foto di copertina in cui il tuo volto non esiste, puoi essere tutti e nessuno. Come hai lavorato all’estetica che avvolge il disco, così perfettamente in linea con quella ruvidezza minimale e antica, espressione perfetta per raccontare la cultura della Carnia?
Stai vedendo delle cose incredibili! Io sono molto legato alla collaborazione con altre arti, amo molto la fotografia e il cinema. E quando inizio a lavorare con una persona, in questo caso Riccardo Carpanese, che mi ha fatto tutte le foto promozionali, mi fido molto. Lui aveva ascoltato le canzoni, abbiamo scelto assieme la location dove scattare dopo aver fatto vari giri per il Friuli. Cercavamo uno sfondo per la copertina del disco, qualcosa che facesse uscire la mia persona, ma che fosse anche avvolgente anche da un punto di vista sonoro. Decidemmo che in copertina dovesse esserci la mia figura, all’inizio pensammo a un ritratto ma poi lo ritenemmo troppo gratuito e violento. Il volto era già abbastanza nascosto nello scatto ma il ragazzo che ha curato l’artwork, Vieri Cervelli Montel, ha accentuato questo aspetto, avendo estrema cura di prendere tutto il materiale e lavorarci con una condivisione molto profonda, unendo tutte le mie passioni ma anche la tradizione della mia terra. Quando abbiamo visto lo scatto abbiamo tutti concordato che fosse quello giusto. Con tutti i ragazzi con cui collaboro, da Vieri a Riccardo fino a Giulio Squarci, regista dei video di Nijò e Jevâ, abbiamo sempre avuto chiaro il punto da raggiungere, tutti loro sono artisti che operano con il vero cosa che anche io cerco di fare. È molto più facile concretizzare una comunicazione semplice, come la nostra. Anche nel caso del video di Nijò, io avevo un’idea in testa nata dalle foto che avevo trovato a casa, sviluppate da mio padre negli anni Settanta quando aveva trovato dei negativi a Cercivento, il mio paese natale. Ho sfogliato quegli scatti per anni, sono entrato dentro quei volti, immaginando le loro vite e cercando di capire dove fossero oggi quei volti, e nel video abbiamo cercato di ridare vita anche ai luoghi in cui aleggia la memoria di quelle persone. Vivo in maniera estrema e diretta tutti i processi del mio lavoro, e ho la fortuna di potermi affidare alla bravura e al talento delle persone che lavorano con me.
Ecco, partendo dalle foto di Nijò, dalla memoria del territorio e delle persone, la prima volta che ho letto la storia del tuo disco, ho subito pensato ad Alan Lomax, etnomusicologo e antropologo, che tentò di registrare i suoni di tutto il mondo. Negli anni Cinquanta arrivò in Italia per portare avanti la ricerca sistematica sulla musica popolare con Diego Carpitella. Fece tappa nel tuo Friuli nel settembre del 1954 e dai suoi scritti si evince una fascinazione per il friulano, considerata “la lingua della polifonia, delle voci aperte e liquide”. Ecco, come Lomax, anche tu hai raccolto un suono che racconta uomini e donne, tradizioni e luoghi. Ieri mi sono divertita a cercare sulla piattaforma creata grazie ai suoi materiali, The Global Jukebox, la tua regione e ho trovato villotte (forme polifoniche a tre o quattro voci su testi di vario metro, nata nel XV secolo di origine friulana, ndr) e foto molto vicine a quelle del video
Wow, non sapevo ci fosse un archivio disponibile ma ricordo bene di aver letto l’articolo che scrisse su come il festival di Sanremo avesse annientato la musica italiana. E anche quello in effetti mi ha convinto nella scelta di dover mantenere viva la tradizione della Carnia. Anche perché si creano nuove tradizioni ma purtroppo essendosi perso completamente il contatto, in tantissime correnti, con quella che era la vecchia tradizione, le nuove che vengono a crearsi sono fenomeni destinati, secondo me, a bruciare velocemente, perché appunto non hanno questo retaggio che arriva da tempi sconosciuti. Ad esempio le villotte hanno sempre fatto parte della mia infanzia, le ho sempre ascoltate da mia nonna, ma anche dalle persone che vivono in quelle fotografie del video di Nijò, nelle feste di paese si cantavano le villotte, questa cosa è entrata in me bambino ed è riemersa col tempo, decidendo di recuperarle. Questa conservazione, questo mantenere in vita il passato va fatto, e quando mi sono chiesto anche io quale fosse il modo migliore per farlo ho deciso di prendere queste strutture e provare a riproporle in modo più attuale. Šcune, Jevâ e la seconda parte di Criure sono delle villotte scritte da me. Andrò a vedermi l’archivio di Lomax, dev’essere meraviglioso!
Dalla scrittura dei tuoi brani, dalla cura che riservi alle parole, mi viene da pensare che tu legga molto, o che quantomeno la lettura sia stata una buona compagna. Cosa stai leggendo adesso? Durante il processo di composizione leggevi qualcosa?
Potrei citarti molti titoli perché i brani attraversano anni diversi e non c’è un libro in comune. Il mio legame con Pasolini è profondo, ricordo che quando ero alle medie per raggiungere la scuola dovevo guadare un fiume e un giorno, tornando a casa, ricordo di aver trovato sul greto del fiume Il sogno di una cosa, pensai fosse un messaggio. Da lì iniziai seriamente a leggere Pasolini. Uno dei libri che più mi ha mosso verso una direzione di tipo etnomusicologico è sicuramente Storia notturna. Una decifrazione del Sabba di Carlo Ginzburg, grazie alla sua profonda indagine sui simboli, riti e leggende che stanno alla radice del pregiudizio e delle paure dell’uomo dall’alba dei tempi. Al momento sto leggendo La conquista dell’inutile, il diario che Werner Herzog ha scritto mentre girava Fitzcarraldo. Altra lettura fondamentale è stata Libro dell’inquietudine di Pessoa. A livello di poesia Dylan Thomas mi ha sempre colpito moltissimo. Ogni mese comunque cerco di leggermi un po’ di poesie di Pasolini o di Pierluigi Cappello e Novella Cantarutti, capaci di farti sentire veramente il Friuli.
La tendenza geologica al movimento, continuo e incessante, e la prossimità ai confini rendono la Carnia luogo di migrazione, plasmando in modo netto anche la cultura, la vita e i rapporti sociali di chi la abita. Allo stesso modo la tua musica sembra muoversi mentre esiste nel momento esatto in cui esiste, durante la sua riproduzione nelle nostre cuffie, sui nostri piatti.. Che rapporto hai con l’idea di movimento, con il movimento dei suoni, delle parole, e del tuo corpo?
Per citare Herzog, lui diceva che “il mondo si svela a chi lo percorre a piedi”. La cosa che più amo è camminare, è il gesto che mi porta in una condizione mentale e di spirito in cui riesco a schiarirmi le idee, a raggiungere quello che voglio. Non riesco a scrivere una canzone? Vado a camminare. La mia infanzia in Carnia è sempre stata legata al concetto di dover raggiungere un posto da un altro, e sono sempre andato a piedi. Spesso vale di più una camminata lunga lunga lunga, eterna, del continuare a sfinirsi suonando o provando per un concerto. Camminare è ciò che mi aiuta di più. Il mio rapporto con il movimento è sempre stato avere contatto con il terreno, camminarlo, e lasciare con questo moto, che le cose dentro di me avvenissero, allontanando tutta la bruttezza del mondo frenetico. Anche per questo motivo ho sempre cercato di portare il mio canto in luoghi in cui cantare significasse vibrazione in senso più ampio, come un ex convento o una grotta, dove puoi sentire cose concrete che ti attraversano. Quando il tuo canto diviene il canto di una sala, di una grotta, di una tubatura all’interno di una montagna questa vibrazione crea una conseguenza, qualcosa di più alto. Anche per citare la fisicità che hai letto tu nelle canzoni, è proprio questo essere sempre in movimento, in moto – come l’aspetto conservativo di preservare il carnico, al di là della chiusura che può avere una scelta del genere per i canoni dell’odierno – in realtà è semplicemente un tenere in moto, tenere vivo un flusso. Tutto questo è un rapporto fisico, effettivo e vero che ho con le mie gambe, con il mio corpo nel momento in cui canto. E deve essere sempre così perché se non è così non è vivo, e non è vivo nemmeno quello che faccio.
Hrudja ha una natura estremamente confortante, materna, consolatoria e avvolgente. Ho scoperto un vecchio canto popolare friulano, Tu tramontis, che dice “Io canto, canto, non so perché canto, solo per consolare un po’ me (E jo cjanti cjanti cjanti e no sai un biel sol parcè/e jo cjanti solamentri che par consolami me). Questo approccio del canto popolare, di cui mi ha detto essere amante, ha modellato anche il tuo modo di cantare e di presentare ciò che canti?
Tu tramontis è proprio una villotta, la cui natura è estremamente femminile e materna. Ricordo le donne che andavano in montagna a lavorare e cantavano per far arrivare il loro canto dall’altra parte della vallata. Nelle piccole comunità tutti ti sono padre e tutti ti sono madre, c’è un concetto di famiglia molto più esteso e questo mi ha attraversato quando ero bambino per poi uscire oggi. Il motivo della mia ricerca è che la particolarità delle villotte – scritte con una struttura particolare – hanno dei testi intercambiabili, quindi ogni tipo di villotta, in realtà, può essere cantata sia con il testo per la quale è conosciuta ma anche con l’aggiunta di una frase presa da un’altra. Dipende da paese a paese. Jevâ e Šcune, come dicevo in precedenza, sono scritte seguendo lo schema delle villotte, canti che una madre fa al bambino e il mio modo di cantare in questo disco necessita di quella dolcezza mista al perenne sentimento di mestizia delle villotte tradizionali che vedo come un sentimento molto materno, quasi un’invocazione di una presenza che non c’è più. Come un figlio che si allontana da casa, ad esempio Jevâ l’ho scritta quando me ne sono andato da casa per vivere a Udine. E vedevo le mie montagne da casa avvertendo una sorta di tradimento nei confronti di una madre – in senso più esteso, la Carnia – che mi diceva di andare per il mondo a cercare quello che lei non era in grado di darmi. E che comunque mi ha dato e continuerà a farlo sempre. C’è sempre la ricerca dell’altro in questo canto. Le villotte si sono portate appresso questa invocazione, ed è quella la crosta che vorrei non fosse mai perduta. Quando si tocca una materia come questa deve essere tutto delicato, come può esserlo la carezza di una madre, come può esserlo una ninna nanna cantata dagli avi, o da tutte le madri che ci sono state prima di questa madre che te la sta cantando. È un collegamento col passato che mi emoziona moltissimo.
Cosa ti rende felice?
Cantare e farlo senza doppi fini, questo mi rende veramente felice.
Antonio Santini for SANREMO.FM
