Nel post punk la varietà era di casa: esperimenti bizzarri, recuperi tra le macerie della storia musicale, azzardi naïf, c’era di tutto di più. In particolare però, passo passo, si è affermato un genere che nei primi anni ’80 ha influenzato un certo tipo di orientamento del pop inglese più commerciale: stiamo parlando della neopsichedelia. Nonostante sia famoso soprattutto per le band di Liverpool (Echo & The Bunnymen, Teardrop Explodes, Wah!), non è rimasto lì confinato. A differenza del pronk, che è un’etichetta nata per definire solo lo scatenato progressive punk dei Cardiacs e poi recuperata negli anni ’90 post crossover, la neopsichedelia britannica ha varie sfaccettature e si è diffusa anche dove meno ce lo aspettiamo. Abbiamo quindi preso in analisi 10 dischi campione del genere, concentrandoci sulle migliori annate, quelle dal 1979 al 1984, prima che anche il fenomeno si trasformasse in hype ridimensionandone la portata “eversiva”.
Ocean Rain
Echo & The Bunnymen
1984
Tra i paladini di un nuovo suono che traghetta la new wave più scura verso lidi psichedelici, gli Echo & The Bunnymen diventano un caso da classifica, ma mantengono agli inizi una carattere aspro ancora legato al post punk: sarà solo dal terzo album Porcupine che le cose prenderanno un’altra piega. Verrà inizialmente rigettato dalla label perché non sufficientemente commerciale, e la cosa porterà gli Echo a ripensare il sound inserendo per esempio gli archi di Shankar. La scelta renderà Porcupine meno ostico, nonostante l’epicità del tutto (che non è distante da quella dei coevi U2 che sembrano aver rubacchiato più di qualcosa a loro). La mossa successiva, anche se non metterà tutti d’accordo, porterà il gruppo verso i lidi di una neopsichedelia pop dove l’oscurità e la luce si confondono e dove lo stato alterato di coscienza fa incontrare i Lennon-McCartney del Magical Mystery Tour con le gincane sperimentali di Scott Walker. Ma non solo: l’utilizzo della chitarra acustica trattata riporta ai Byrds, determinate linee vocali ai Doors. Facendo tesoro di Porcupine, l’orchestra diventa fondamentale per dare quel tocco straniante ma allo stesso tempo accogliente, e i testi di Ian McCulloch sono carichi di nonsense surreali e di visioni esistenziali naïf che sono figli di microdosing di LSD. Brani come The Yo Yo Man sono un viaggio dentro lo specchio e il classicone The Killing Moon (poi ripreso anche nella colonna sonora di Donnie Darko) e la stuporosa Thorn of Crowns, free quanto basta, fanno di Ocean Rain un disco imprescindibile per lo sviluppo del pop alternativo britannico: ovviamente lo diciamo col senno di poi, in quanto all’epoca la band doveva combattere con una musica di massa che stava sempre più trasformandosi in un corollario da arena rock perdendo di sincerità. Se è vero che il testo di The Killing Moon arrivò in sogno a McCulloch, allora la frase “fate up against your will” è la sintesi del disco: un trippone ipnopompico dove l’adulto e il bambino si incontrano con una purezza che fa del buio e della luce la medesima cosa.
Sovente ed erroneamente inquadrati solo nel gothic, i Cure hanno dimostrato di poter cambiare genere ogniqualvolta vogliono. Dopo la fase di “plastica” di The Walk, Robert Smith vira decisamente verso una psichedelia dark che sembra una terza via alla neopsichedelia inglese fino ad allora conosciuta, fatta di un bipolarismo perfetto tra bad trip e momenti di estasi fanciullesca. The Top è un allucinante tragitto fatto di figure antropomorfe, di maiali nello specchio, di ragazze bruco, di donne uccello, di mondi vuoti fatti di soldatini di piombo e di trottole che rimbalzano nelle pareti del cervello. Il suono è duro, ma lavato col Perlana dell’LSD, fatto di flanging esagerati, ibridi tra sintetico e naturale, deliri free form come l’impossibile intro di The Caterpillar a base di un violino martoriato e pianoforte preso a manate. Un disco nato a forza di tè e mescalina a cura del batterista Andy Anderson, che lo somministrava a Smith. Che il leader poi avesse grandi simpatie per la scena neopsichedelica è lampante in alcune sue interviste dove dichiarava che il suo sogno sarebbe stato suonare come gregario per gli Echo & The Bunnymen, che nel disco fanno capolino come ispirazione (ma Ian McCulloch non ricambierà mai la cortesia, anzi). Smith registrerà con Steven Severin uno dei dischi più importanti quanto sottovalutati della neopsichedelia inglese, ovvero l’esordio dei Glove, di cui abbiamo parlato ampiamente qui. Ancora oggi The Top viene considerato materiale spiazzante e mind blowing che all’epoca fece dire con orgoglio a Smith «ogni band ha il suo disco brutto: questo è il nostro».
A Kiss in the Dreamhouse
Siouxsie and The Banshees
1982
Reduci dal furioso Juju, probabilmente uno dei picchi assoluti della poetica post punk dei Banshees, la band decide per una svolta maggiormente psichedelica, dovuta all’ascolto bulimico del periodo lisergico dei Beatles. Come negli Echo, anche in questo caso sono gli archi a dettare legge e a dare ricchezza al suono d’insieme e sono l’input per fare in modo che i Banshees, istigando il produttore Mike Hedges, sperimentino con l’effettistica e con strumenti poco ortodossi nella wave come flauti, campane tubolari e soprattutto loop su nastro magnetico (esempio folgorante di tale tecnica è l’ipnotica Circle, già dal titolo un omaggio a una outtake dell’Harrison del White Album). John McGeoch amplia la palette suonando più di uno strumento, facendo da contraltare “secco” alla pienezza dell’orchestra. L’importanza di A Kiss in the Dreamhouse per lo sviluppo della neopsichedelia inglese è cruciale, tanto che nel passaggio di tale genere allo shoegaze gli Slowdive presero il nome proprio da un brano di questo album. Tanta ispirazione e varietà sonora non coincide con il vissuto della band, incastrata in faide amorose, abusi di droghe psichedeliche e alcol, stress, problemi finanziari e in definitiva un’atmosfera veramente dark. Il disco alla sua uscita non sarà capito da tutti, sciocca per il drastico cambio di stile che abbandona il post punk glaciale per qualcosa di nettamente più vivido e caleidoscopico: il lasciapassare per il più colorito Hyena, con Smith in formazione, che sarà l’ultimo vagito di un immaginario dato da un disordine lisergico tanto spiazzante quanto vitale.
Everybody Wants to Shag…
The Teardrop Explodes
1982/1990
Avremmo potuto scegliere il folgorante esordio Kilimanjaro per inquadrare l’importanza della band dello sciamano e musicologo Julian Cope, che più di tutti è riuscito nell’impresa di miscelare perfettamente il post punk con la tradizione psichedelica inglese. In realtà il vero capolavoro è probabilmente quello del 1982, ma pubblicato solo nel 1990. Registrato in un clima di tensione estrema tra Cope e il tastierista David Balfe, il quale era già stato allontanato ai tempi e poi ripreso a bordo per le sue ovvie qualità, l’album è un esempio di quanto la frizione di due mondi agli antipodi possa creare qualcosa di irripetibile. Ed infatti è proprio il fatto che Balfe voglia puntare tutto su un suono sintetico tale da sfociare nella dance a far dare di matto a Cope, che invece vuole concentrarsi su un pop stranito in cui la forma canzone la fa comunque da padrona. A metà session il gruppo si disintegra per queste insanabili divergenze, ma anche per fatti poco ortodossi come Balfe che tiene fuori dallo studio Cope e Gary Dwyer per registrare da solo l’album ostacolando così i loro contributi, Dwyer che esasperato insegue Balfe con una pistola carica, Cope che scopre di dover fare un tour già prenotato a sua insaputa in cui tutto è riprodotto da macchine senza manco l’ombra di una chitarra e sabota quindi le performance spaccandosi di LSD, dandosi ad atti autodistruttivi e maltrattando il pubblico. Vero è che il materiale del disco è preveggente: Balfe si muove su un terreno che poi farà la fortuna di Primal Scream e compagnia cantante, arrivando in un certo senso a prefigurare l’avvento di nuove droghe, l’acid house e la sua popolarità di fine anni ’80, ma con il tocco eccezionale della voce e delle melodie di Cope, che rende il tutto perfettamente alieno e classico quanto futuribile. Che non tutto il male venisse per nuocere era chiaro col recupero di Metranil Vavin e Pussyface nell’album di debutto di Cope. In quanto a Balfe, subito dopo lo scioglimento fonda la Food Records e userà la sua lungimiranza riguardo alle nuove tendenze diventando il mentore nientepopodimeno che dei Blur.
Nah=Poo-The Art of Bluff
Wah!
1981
Nella band “fantasma” The Crucial Three, oltre ai due leader Ian McCulloch e Julian Cope, c’era un altro capoccione della neopsichedelia, ovvero Pete Wylie, il quale diventa subitamente paladino di un suono pop/wave da microdosing, liquido e debitore degli anni ’60, di cui rinnova il linguaggio acido. Famoso per cambiare nome cento volte alla sua ragione sociale (si va da Wah! Heat a The Mighty Wah!), in questo caso si assesta sull’esclamazione più diretta e sforna questo disco che arriva al terzo occhio con un’irruenza ed efficacia che ha pochi eguali all’epoca: bassi poderosi dritti in faccia, chitarre come lame che manco Barrett (l’incipit The Wind-Up e la seconda traccia Otherboys, una doppietta assurda) e assoli squagliati (come quello di Somesay, assolutamente impossibile). Purtroppo la discografia li scaricherà a più riprese, nonostante la loro capacità di bucare le top 20, ricordiamo Come Back del 1984). Wylie più avanti si butterà nella carriera solista, sempre all’insegna dell’assoluta indipendenza sbeffeggiando le classifiche dall’interno, collaborando anche con la prima emanazione dei KLF, con i Farm, con gli Apollo 440. Senza dubbio una personalità lisergica, difficilmente ingabbiabile nella logica del contratto e del “cartellino del rocker” da timbrare per compiacere il sistema.
La band di Adrian Borland (ex Outsiders) è probabilmente una delle più combattive della storia del post punk e nello stesso tempo quella che ha raccolto meno frutti del suo ottimo lavoro. Nonostante fossero coccolati dalla critica, il loro pubblico rimase sempre di nicchia un po’ per la scelta di non scendere a compromessi che in un certo senso li autosabotava (a richiesta dell’etichetta di scrivere un disco commerciale nel 1983 se ne uscirono con l’ostico All Fall Down), un po’ per il fatto che il loro sound (per l’appunto) si allontana piano piano dai lidi neopsichedelici per rimanere sul terreno della new wave più gelida, forse credendo alla narrazione dei media che li vedeva come i più diretti rivali dei Joy Division. In un certo senso è vero: le due band hanno in comune una certa passione per i Velvet Underground e per i Doors, ma mentre la band di Ian Curtis ne asciuga l’aspetto lisergico per una specie di delirio lucido, i Sound rincorrono ancora il suono psych dei 60s (l’utilizzo delle tastiere che ammicca a Ray Manzarek/Richard Wright, l’uso del sassofono, una certa crudezza, con un calore che fa molto rétro al posto della tipica freddezza darkettara). Jeopardy è il disco fondamentale del “Soundpensiero”: registrato con due lire e sostanzialmente autoprodotto, viene pubblicato dall’etichetta dei Bunnymen, la Korova. Trovano spazio testi esistenziali, specchio di una generazione impantanata in se stessa, che probabilmente si aggrappa alle promesse del passato mai mantenute. Brani come Unwritten Law o Desire dicono tutto con i loro fumi ipnotici e le armonie sghembe: la new wave non li tocca in pieno, almeno per ora. I Sound sono i Sound, e alle anfetamine preferiscono la salvia divinorum.
Underwater Moonlight
The Soft Boys
1981
I Byrds, i Rolling Stones di Their Satanic Majesties Request, i Pink Floyd del Barrett “uomo vegetale”, i Beach Boys di Pet Sounds, i Velvet Underground e i Love passati sotto uno schiacciasassi power pop sono gli ingredienti dei Soft Boys di Robyn Hitchcock, assoluti pionieri del genere in un periodo in cui sono ancora tutti distratti dal punk. Loro se ne impippano e dopo un esordio barrettiano ed erede sicuramente di sonorità che all’epoca vanno per la maggiore, producono nel 1981 Underwater Moonlight, ovvero il capolavoro di autenticità che li allontana dall’hype per creare un mondo a sé stante che influenzerà i grandi nomi del pop a venire, tra i quali i R.E.M. Ovviamente, come per tutti i loser geniali, la band si scioglierà poco dopo senza che nessuno se ne accorga tanto che l’album crescerà di fama solo più tardi, quando con il consolidarsi della neopsichedelia i Soft Boys smetteranno di essere le proverbiali mosche bianche. Underwater Moonlight è un parto lisergico già dalla copertina con la coppietta di anziani con le facce ridotte a maschere di gomma, un po’ come dire che la psichedelia dei “matusa” consumata dal music biz ora è tornata inquietante e fastidiosa: I Wanna Destroy You in questo senso è un inno devastante, in cui bad vibes e good vibes si mescolano schizofreniche come tra sonno e veglia. Ma anche la presenza di strumentali fuori di testa come You’ll Have to Go Sideways o le melodie stuporose di I Got the Hots cantate come se si fossero bevute tonnellate di acqua amara indicano che il disco è un picco supremo, quasi inarrivabile in quanto a perfezione stilistica. Hitchcock continuerà come solista su questa strada, diventando uno dei cantautori più potenti del genere. Ma senza dubbio il primo amore (anzi il primo cartone “amaro”) non si scorda mai.
Brighter Now
The Legendary Pink Dots
1982
Londinesi poi emigrati ad Amsterdam, i Legendary Pink Dots sono stati tra i primi a incastrare umori gotici e post punk in un immaginario sonoro/testuale psichedelico. Volendo essere precisi hanno anche fatto altro, inserendo in questo terreno fertile anche il jazz, il synth pop, il noise, il folk e chi più ne ha più ne metta. Per questa loro caratteristica sono stati difficilmente inquadrabili in un contesto “da classifica” a causa delle loro uscite, che sono sempre state quantitativamente eccessive (più di 40 album usciti non sono una bazzecola), ragion per cui spesso la critica li ha sottovalutati come fenomeni da dischi improvvisati sul momento sulla base di un’idea appena abbozzata. La band ha un seguito notevole e il suo approccio free form è quello che da sempre ha animato tanto il rock psichedelico storico quanto il kraut più quotato. Il leader Ka-Spel compone pensando alle ballate di Syd Barrett e a un certo aspetto “oscuro” dell’esperienza lisergica. Tant’è che nel suo modo di cantare c’è una chiara eredità del “cappellaio matto”: la possiamo ascoltare in tutto il suo acerbo fiorire nel primo album della band, ovvero Brighter Now che contiene delle giostrine sonore stile Piper at the Gates of Dawn con sintetizzatori e vocoder che inceppano in una simulazione di ingestione d’acidi a nastro. Nel successivo Curse continueranno in una strada lastricata di mattoni psichedelici, rimanendo sempre – come d’altronde Barrett – in un mondo a parte, lontano dal mainstream come anche da un certo giro indie di facciata, portando avanti la loro visione influenzando band di maggiore successo commerciale come MGMT, Skinny Puppy o Dresden Dolls.
Remorse Code
The Desperate Bicycles
1979
Prima che il punk venisse etichettato come si fa con i prodotti da supermercato, esistevano band come i Desperate Bicycles, veri e propri paladini del DIY in un periodo in cui registrarsi un disco per i cazzi propri non era roba da tutti i giorni. Furono tra i primi a creare emulazione tra i kids col loro motto “è stato facile, è stato economico, vai e fallo!”, tratto dalla coda di una loro canzone, Handlebars. Non a caso si formano nel 1977, l’anno della rivoluzione copernicana per cui la tecnica viene considerata una merda e l’urgenza espressiva la cosa principale. I Desperate rimangono così, volutamente a metà tra l’amatoriale e il sublime, diventando una perfetta icona punk senza macchia e senza paura (si rifiutavano di fare interviste e non hanno mai accettato di ristampare i loro dischi). Ma la cosa più importante di questa band è il fatto che nella sua musica sbilenca precede di molti anni il precetto neopsichedelico, facendo a tutti gli effetti musica che si squaglia nelle orecchie, fatta di suoni liquidi, tripponi ossessivi, discese profonde, effetti lisergici stranianti e utilizzo non ortodosso di strumenti come il basso fretless (anticipazione di tante future perversioni new romantic), e di melodie che profumano del Barrett più ispirato o del primissimo Bowie (quello che duettava con gli gnomi nei dischi). Saranno talmente coerenti da sciogliersi poco dopo l’uscita del loro primo 33 giri, dopo anni di pubblicazioni esclusivamente a 45 giri. E questo nonostante l’album avesse ottenuto un certo successo a dispetto delle premesse (un solido decimo posto nelle classifiche indie inglesi). Ma se ascoltiamo brani come It’s Somebody’s Birthday Today o Sarcasm ci rendiamo conto che i Desperate Bicycles più che ottenere successo l’hanno fatto fare – as usual – agli altri.
Talk Talk Talk
The Psychedelic Furs
1981
Impossibile prescindere dagli Psychedelic Furs, che già dal nome sfidavano il manierismo punk rivendicando una alterazione psichica ereditata dai “dinosauri” che il movimento credeva di levarsi di mezzo buttando il bambino con l’acqua sporca. I Furs invece sono i degni eredi delle malattie stuporose dei Velvet Underground, della post psichedelia dei primi Roxy Music e perché no, anche delle litanie intontite alla Roger Waters dei Pink Floyd mark II, frullando tutto nel post punk e trovando quindi uno spazio tutto loro all interno della new wave, quello che appunto apre a determinati altered states musicali. Nel 1981 danno alle stampe Talk Talk Talk, che si distingue dall’esordio del 1980 per le atmosfere allucinogene affogate nel flanger, micro dissonanze, tempeste soniche di chitarra elettrica, mettendo in secondo piano gli inizi post punk per una più manifesta adesione al revival psichedelico inglese (di cui effettivamente sono tra i padrini) e trasformandosi in una realtà quasi pop. Con Steve Lillywhite ancora una volta alla consolle, la band di Richard Butler lascia ai posteri una potentissima eredità nel genere, e ancora oggi il carismatico leader lavora nell’ombra traghettando le sue melodie sghembe e psych nel futuro (un esempio per tutti: è il principale co-autore di Memento Mori dei Depeche Mode insieme a Martin Gore).