Roberto Carlos Lange, al secolo Helado Negro, è nato in Florida, ha vissuto a Brooklyn e adesso si è stabilito ad Ashville ma nella sua musica si sente un’impronta che è quella della sua infanzia, delle sue origini familiari dall’Ecuador. C’è il sentore surreale di un di più, che riverbera come un fremito nelle atmosfere sonore quasi paesaggistiche che dipinge meticolosamente. Un di più “realista magico” che ricorda da vicino l’incantesimo sudamericano di cui scrivevano Garcìa Marquez o Miguel Ángel Asturias.
Questo di più lo si sente anche in sottofondo a Phasor, suo ottavo album, secondo per 4AD dopo Far In del 2021. Il titolo è un termine preso dalla fisica, abbreviazione di “phase vector”. Indica un numero complesso che rappresenta un particolare tipo di onda sinusoidale che oscilla con una frequenza angolare fissa. Per Roberto tutto quello che facciamo in una vita è cercare la risonanza con questa oscillazione di fondo che accompagna tutte le cose, e a volte ci entriamo in fase, a volte invece stiamo fuori fase col mondo. Phasor sembra seguire proprio le peripezie nella ricerca della giusta risonanza.
Abbiamo chiacchierato con Roberto per parlare del suo processo creativo, degli strumenti complicati che ha usato per modellare i suoni che impreziosiscono i grooves del disco, così delicati e raffinati. Ma anche, della pura bellezza che ricerca nel suo songwriting, al di là della ricerca e della sperimentazione artistica: la tenerezza ordinaria nelle cose più umili e residuali, che affievolisce il rumore chiassoso della vita di tutti i giorni e forse riesce a farci riconnettere col mondo. Stare in risonanza.
Inizio a tuffarmi subito dentro l’album. C’è una traccia molto interessante, LFO (Lupe Finds Oliveros), il primo singolo pubblicato. Penso che da lì possiamo approfondire alcuni dettagli dell’album. È ispirata dalla compositrice Pauline Oliveros che è scomparsa nel 2016 e da Lupe Lopez, una donna americana-messicana che lavorava per la Fender e costruiva amplificatori. Perché queste due figure e qual è la connessione che hai tracciato tra loro?
Pauline è ovviamente più conosciuta mentre Lupe non così tanto. Nemmeno io la conoscevo. Quando ero più giovane registravo con un amico a casa e lui aveva questo Fender Champ (modello di amplificatori costruiti da Lupe, n. d. r.), e pensavo “Wow, voglio trovare questo amplificatore perché amo come suona”. Mi sono messo a cercare e ricercare – mi piace fare un sacco di ricerche prima di comprare qualcosa – e sono capitato su questo forum della Fender e ho trovato questa foto di Lupe. Mi sembrava molto misteriosa e interessante. Ho letto chi fosse nella caption. Nella foto era a lavoro, c’era il suo amplificatore poggiato a terra… Ho trovato assurdo che tutta quella gente sul forum fosse fan dei suoi amplificatori.
Non è famosa nel mondo della musica ma più tra i collezionisti, che amano i suoi amplificatori segnati con una firma “Lupe” dopo la revisione del controllo qualità, credo. Mi ha affascinato il fatto che Fender dà istruzioni precise sul design, ma in qualche modo Lupe con la sua cura e il suo tocco è stata in grado di rendere gli amplificatori speciali e unici, con un suono differente, così tanto che ha risuonato in tutti quelli che li hanno comprati e collezionati. Ho pensato alla connessione tra lei e chi ha amato i suoi amplificatori e l’ho associata alla filosofia del “deep listening” di Pauline, al fatto che a volte quando ascolti qualcosa puoi davvero parteciparne e avere una connessione profonda. Lupe stava solo facendo il suo lavoro ma facendolo con intenzioni buone e cura è stata in grado di produrre qualcosa che ha retto nel tempo.
Mi sono chiesto come potevo farlo anche io, avere questa intenzione quando faccio musica oltre al semplice “ok sono qui, lo faccio e basta”. La sua è una piccola storia nel mondo, niente di drammatico o epico ma ho trovato interessante sottolineare come sono queste cose, piccole, non grandi, che ci connettono.
Lupe era un’artigiana, il suo era un modo di lavorare concreto, materiale, fatto di cura e attenzione verso l’oggetto che ha di fronte e che sta costruendo… anche tu hai sperimentato nella tua carriera con le arti visuali, specialmente la scultura, e hai anche frequentato il Savannah College of Art and Design per studiare animazione. Anche in Phasor se si ascolta bene si può sentire una cura nel trattare il suono, come se fosse un oggetto materiale da plasmare, c’è tanto lavoro sulle texture dei suoni… ti capita mai di visualizzare nella tua testa un suono, che so, di synth, e pensarlo come se stessi lavorando su una scultura?
Certo. Non ho il linguaggio della teoria musicale, non è questa la strada con cui sono arrivato alla musica, ho iniziato a capirla solo con il suono, e lavorandoci in un senso fisico. Anche quando suono gli strumenti dai forma al suono in un senso fisico. Molte persone spesso pensano alla teoria mentre suonano, ma io penso alle forme e agli spessori, è così che ho imparato a fare le cose.
Torno ancora su LFO, perché dà molte suggestioni. Il titolo è anche un’abbreviazione di Low Frequency Oscillator, un generatore di suono che si muove a una frequenza appena sotto lo spettro dell’udibile, ed è udibile solo a tratti. Lo hai usato nell’album e cosa significa per te come strumento?
Il Low Frequency Oscillator per me è uno strumento che si può usare per modificare il suono di un synth, ma per me è una cosa che visualizzo come una sorta di “attore invisibile” con cui posso stimolare ritmi, creare texture di suono. La sua applicazione per me è anche molto poetica… un suono praticamente invisibile, che da umano quasi non puoi udire ma lo senti e lo vedi. Un’atmosfera di fondo che ci stimola e incoraggia a fare cose, possiamo sentirla costantemente nelle persone attorno, nelle nostre aspirazioni…
Per costruire i suoni di Phasor sei arrivato fino all’Università dell’Illinois per utilizzare un complesso sintetizzatore che si chiama SAL MAR, creato dall’italo-americano Salvatore Matirano. Ci sei andato persino nel giorno del tuo 39esimo compleanno. Che ruolo ha avuto nella scrittura di Phasor?
Avevo fatto ricerche anche su quello e mi scrivevo con l’Università per visitarlo. Quando sono andato è stato entusiasmante perché era questa enorme macchina, e ce ne sono altri che producono più o meno suoni simili basati sugli stessi principi ma sono in vendita oppure in affitto, mentre questo era un’idea, quasi una scultura, un pezzo d’arte messo a disposizione di chi volesse fare musica. È costruito per produrre musica in modo generativo con un cervello da super-computer ma oscillatori analogici. Mi è piaciuto molto e l’ho suonato, ho registrato qualcosa e quelle registrazioni sono rimaste nel mio hard-drive per un po’, e quando ho scritto Phasor le ho rivisitate. Inizialmente volevo usarle in forma pura, lasciandole come dei pezzi “concettuali”, poi ho pensato che dovessi usare quei suoni in modo più tangibile all’interno delle canzoni.
Dal suono alla lingua: LFO, Colores Del Mar, Flores, Es Una Fantasia sono tutte cantate in spagnolo. Sei bilingue e in tutti gli album ci sono delle tracce cantate in spagnolo. Come ti accorgi che una canzone deve avere un testo in spagnolo? Come ti viene in mente l’associazione tra musica e lingua del testo?
È nel processo. Quando scrivo musica cerco melodie, e quello che succede è che inizio a fare dei vocalizzi sopra ai suoni e a volte mi vengono naturali in inglese, mentre altre volte in spagnolo. Per esempio mi ricordo che quando stavo scrivendo I Just Want To Wake Up With You ho iniziato a vocalizzare “You take me all around town…”. Quindi va così inizio dalla melodia e mi sento fortunato ad avere due lingue in testa per esprimermi e seguire il flow della musica.
Uno degli influssi più sudamericani sulla tua musica, che continua in Phasor è l’intreccio tra il giocoso, il gioioso da una parte e il malinconico dall’altra, che vanno sempre insieme, e si sovrappongono tanto che non le puoi distinguere.
Non se ne può scappare, non so nemmeno perché lo faccio. Anche nel pezzo più radioso c’è sempre della nostalgia. Penso che sia perché non c’è gioia pura, la vita può essere strana e confusionaria. Spesso le poesie migliori sono quelle che non sono chiare e conservano questa confusione tra gioia e tristezza.
Antonio Santini for SANREMO.FM