L’artista racconta come porta sul palco i personaggi di ‘I Inside the Old Year Dying’. E poi, il significato dei vecchi pezzi ora che ha quasi 55 anni, i talenti di Steve Albini, il confine fra poesia e canzone, l’autobiografia romanzata. Intervista a una musicista fenomenale, le foto di un tour fuori dall’ordinario
Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone US
Sono decine i personaggi che popolano le canzoni di PJ Harvey. Ci sono lo stalker tormentato dal demonio di To Bring You My Love, il “casino più bello che tu abbia visto” di Angelene, la ragazza perduta Ira-Abel, ammaliata da un oracolo e da un mezzo fantasma alla Elvis dell’ultimo album I Inside the Old Year Dying. Prendono tutti vita sul palco del tour che Harvey sta portando in giro per gli Stati Uniti.
«È una rappresentazione teatrale», dice l’artista in collegamento Zoom da Philadelphia, con ancora un po’ di jet-leg. «Mi piace il fatto che abbia una trama, una narrazione che viene portata avanti, così come mi piace far passare la storia attraverso il corpo e i suoi movimenti».
È quel che ha fatto al Terminal 5 di New York, dove ha dato vita ai personaggi illuminata da luci drammatiche e indossando un abito che evoca l’immaginario bucolico di I Inside the Old Year Dying. Anche la band, composta da musicisti con cui collabora da tempo tra cui John Parish, indossa costumi di scena e si muove assecondandone la performance. Lei posa da ballerina, s’accovaccia, inventa giochi di ombre. La prima metà del concerto è dedicata alle canzoni di I Inside the Old Year Dying, nella seconda ci sono pezzi che risalgono anche al debutto del 1992 Dry. È una performance incantevole e accattivante. La gente è rapita, il silenzio è assoluto.
Sono suppergiù 15 anni che Harvey collabora col regista Ian Rickson per trasformare i propri concerti in vere e proprie performance. «L’ho invitato per la prima volta a dirigermi ai tempi di Let England Shake, quando ho iniziato a capire che non volevo più fare dei concerti rock’n’roll», ricorda. «Ma non è teatro, non è danza, non è rock. Allora che cos’è?».
Con questo tour Harvey e Rickson hanno fatto sì che sia ancora più difficile dare una risposta. Durante le prove, la cantante ha lavorato sul significato di ogni canzone di I Inside the Old Year Dying, i cui testi sono ispirati a Orlam, il suo romanzo in versi che raccontava di una bambina di 9 anni cresciuta tra i fantasmi nei boschi del Dorset, in Inghilterra, il posto dov’è cresciuta Harvey.
In una lunga conversazione in cui parla tra le altre cose di come le sembrano vecchie canzoni come Dress e 50ft Queenie ora che ha 54 anni, PJ Harvey spiega che i pezzi più recenti hanno un potere trasformativo. «Mi fanno sentire bambina», dice delle canzoni di I Inside the Old Year Dying. «Forse l’età non conta. Conta invece la voglia di calarsi nella storia che raccontano le canzoni». Comunque sia, erano anni che non si divertiva così sul palco.
Hai detto che non ti sei mai divertita tanto in tour. Come mai?
Per vari motivi. Più dischi faccio e più materiale ho da cui attingere. C’è un bel rapporto tra band e crew. Il pubblico è magnifico. Invecchiando sono diventata più aperta come persona, e quindi anche come interprete. Vuol dire che sono in grado di godermi il momento più di un tempo, di entrare in connessione col materiale e il pubblico un altro livello, in modo più profondo rispetto al passato.
C’è qualcosa di trascendentale in queste performance?
Credo di sì, nel senso che fanno sì che si possa entrare – io, il pubblico e la band – in un’altra dimensione della coscienza. Difficile però da dire, no? Coi musicisti facciamo sempre un debrief alla fine di ogni concerto e parliamo di com’è andata per ognuno di noi. E ho notato che più si andava avanti coi concerti e più sentivamo tutti la sensazione di non essere più coscienti dei nostri corpi, per diventare parte della musica e del momento che stavamo vivendo. Non c’è più differenza fra te stessa e quello che fai. Trovo sia incredibilmente gratificante.
C’è anche qualcosa di ultraterreno nelle canzoni di I Inside the Old Year Dying.
Sì, abitano un luogo che si trova tra diversi mondi, in bilico su varie soglie. Non è bianco o nero, è tutto il grigio che c’è in mezzo.
In che modo Ian Rickson ti ha aiutata a fare cose nuove?
Durante le prove tiravo fuori nuove idee, improvvisavo quasi dei movimenti col corpo per rivolgermi al pubblico. Sto supplicando? Sono esigente? Qual è il linguaggio del corpo mentre canto? Ian ed io riflettiamo parecchio su queste cose e durante le prove improvviso cercando un possibile punto di partenza, che poi lui mi aiuta a elaborare.
Consideri ogni canzone un diverso personaggio? 50th Queenie è diversa da Angelene e dalla Ira-Abel di Prayer at the Gate?
Assolutamente sì, ogni canzone è diversa. La mia performance è dettata in buna parte da quel che il pubblico tira fuori da me. È qualcosa di magico, ora c’è e ora non c’è, non è mai la stessa cosa. Dipende tutto da quella particolare serata, da quel teatro, da quel pubblico.
Come ti approcci alle vecchie canzoni?
Ho 54 anni e interpreto pezzi di una trentina d’anni fa come Dress o 50ft Queenie in modo diverso da come facevo quand’ero ventenne. Le parole hanno assunto nuovi significati e quindi le presento in modo diverso. Ci dev’essere dell’autenticità, sennò non funziona. E quindi scelgo canzoni che sento di poter abitare da 54enne, canzoni che hanno ancora un significato per me.
Hai citato Dress, che è una delle canzoni del tuo primo album Dry. Che cosa ti colpisce di quel disco quando lo riascolti?
Alcune delle cose che stavo esplorando all’epoca erano del tutto nuove per me. Ora non è più la stessa cosa perché sono un’altra persona. Ora conosco bene quelle cose, non ho bisogno di esplorarle. E alcune non mi si addicono più e quindi non mi sentirei a mio agio a cantarle. Devo sentirmi in grado di trasmettere in modo credibile le parole che canto. Per farlo, devo crederci anzitutto io alla mia età, in questo momento della vita.
50ft Queenie è il pezzo che ti ha fatta diventare famosa negli Stati Uniti. Che storia c’è dietro?
Oddio, è passato così tanto tempo da quando l’ho scritta. Non ricordo com’è nata. Forse era il titolo di un film. C’era un film intitolato Attack of the 50 Foot Woman o qualcosa del genere, vero? Immagino lo trovassi divertente, ci ho messo su un riff che avevo ed è nato il pezzo. Molte di quelle canzoni avevano un che di giocoso. All’epoca sono state prese troppo sul serio, ma sotto sotto nascondevano segretamente un sorrisetto.
L’album che conteneva 50ft Queenie, ovvero Rid of Me, l’hai registrato con Steve Albini, che è morto di recente. Ti ha dato una diversa prospettiva sulla tua stessa musica?
Mi ha aiutata a credere di più in me stessa, ad avere fiducia in me, nella mia musica, nel mio essere artista. Ammiravo il suo lavoro da anni e conoscerlo non ha fatto che aumentare il rispetto nei suoi confronti. Era una persona saggia e diretta, sento di aver imparato grazie a lui tante cose sulla vita e la musica. La cosa più importante che ha fatto per me è stata far sì che cominciassi ad avere fiducia in me stessa e nella mia musica. Mi ha spinta a credere in me.
Ricordi qualcosa che ti ha detto in particolare?
Nessuna frase in particolare. Ricordo che diceva che stava semplicemente tirando fuori cose che c’erano già in me. Era piuttosto modesto quando parlava delle tecniche di registrazione che usava e delle idee che aveva su come si fanno i dischi. «Ti sto solo registrando, sei tu che hai tirato fuori le canzoni», diceva. E poi c’erano discorsi che avevano a che fare con la vita… Con gli anni ci siamo un po’ persi di vista, ma per un certo periodo siamo stati buoni amici. Era uno di quelli da cui andavo se avevo dei problemi nella vita o con la musica. Dava buoni consigli ed era sempre diretto. Ti diceva quel che pensava molto onestamente e in termi semplici, senza giraci attorno. È una caratteristica che apprezzo. Voglio che la gente mi parli apertamente e sinceramente, non voglio che si tenga delle cose per sé per paura di farmi arrabbiare. E lui era decisamente così.
Adesso a chi ti rivolgi per avere consigli?
Uno a cui mi sono rivolta per una vita è John Parish. Con lui le cose non sono mai cambiate. L’ho incontrato che avevo 16 anni, ho fatto parte della sua band (gli Automatic Dlamini, nda). Ha dieci anni più di me, quindi ne aveva 26. È diventato un fratello maggiore, una figura paterna, un maestro, un mentore. Mi ha insegnato a suonare la chitarra, a stare sul palco. Mi ha insegnato un sacco di cose. Gli voglio bene e lo rispetto. Continua ad essere una presenza importante nella mia vita, una persona a cui mi rivolgo quando ho bisogno di aiuto. È stato con me tutti questi anni e lo è ancora. Non riesco proprio a immaginarmi senza di lui al mio fianco. Anche adesso, che sto iniziando il mio prossimo progetto, lui c’è, è molto coinvolto. Ne parlo sempre con lui. È il mio partner musicale, sono grata di aver condiviso con lui il mio cammino sul pianeta.
È anche lui bello diretto?
Decisamente (ride). A tal punto che m’ha fatto piangere tante volte. Mi tira su quando ne ho bisogno. Ed è molto diretto quando si tratta di lavoro. Me lo dice se quel che creo non è granché, ma anche se è buono. Dice sempre quel che pensa e ha quasi sempre fastidiosamente ragione (ride).
Hai detto che non consideri I Inside the Old Year Dying un companion di Orlam. Perché?
Probabilmente volevo dire che non credo che uno dipenda dall’altro. Non penso che il libro abbia bisogno del disco per funzionare, né che l’album abbia bisogno del libro. Non era mia intenzione scrivere canzoni a partire dal libro di poesie, è successo e basta. È del resto piuttosto difficile trasformare delle poesie in canzoni, si tratta di forme molto diverse. La poesia è molto densa perché deve funzionare sulla pagina. Necessita di molte parole, o di parole dense, piene di informazioni, e non sempre sono le caratteristiche ideale per una buona canzone, che è molto più semplice poiché metà del lavoro se non di più lo fa la musica.
Così mi sono ritrovata per le mani testi molto densi per le canzoni. È un’esperienza da cui ho imparato molto. M’ha fatto pensare che per il prossimo progetto probabilmente terrò canzoni e poesie separate. Una canzone è una canzone, una poesia è una poesia, non cercherò più di musicare delle poesie. Ma sono contenta d’averlo fatto per questo lavoro. E poi ha dato vita a uno spettacolo teatrale molto interessante, che forse non sarebbe stato possibile se non fosse stato per quei testi complessi raccontati come un’unica storia.
Anche The Hope Six Demolition Project era legato a un libro di poesie, The Hollow of the Hand.
Si trattava però di poesie molto più semplici. Ero una poetessa più giovane. Non scrivevo ancora in modo denso o complicato come ho fatto in Orlam. Per non dire del fatto che quest’ultimo è scritto nel dialetto del Dorset, che rappresenta un altro strato di densità. E quindi quella volta le poesie si sono tradotte in canzoni in modo più semplice.
A proposito del dialetto del Dorset, c’è una parola che usi spesso ed è “wordle”, che sta per “world”, mondo. Quando hai saputo dell’esistenza del gioco che si chiama proprio Wordle?
Dopo aver scritto il libro ho scoperto con orrore che c’era un altro Wordle oltre al mio wordle. Ecco un altro strato. Ma in ogni caso, amo la lingua, mi piace vedere come cambia nei dialetti.
Un anagramma di “Orlam” è “moral”, morale. C’è una morale in Orlam?
Tutti i nomi contenuti nel libro hanno un doppio o un triplo significato. E sì, dentro a Orlam c’è “moral”, ma anche “lamb”, “oracle”, “oral”, è pieno di significati (nel libro, Orlam è il nome dell’oracolo, l’occhio eviscerato di un agnello, lamb in inglese, nda). In un certo senso, Orlam è una favola fantastica e come tutte le favole ha una morale. Puoi considerare il libro coma una struttura circolare che parte con Prayer at the Gate e finisce con un’altra Prayer at the Gate, il ciclo della vita e della morte, il loro intreccio. Se vuoi una morale, eccola: l’inizio è la fine e la fine è l’inizio.
E nel mezzo ci sono un sacco di cambiamenti.
Già.
Pensi che poesie e canzoni saranno ancora in qualche modo collegate nel tuo prossimo progetto?
Il tema lo sarà, sì. In quanto artista, quando qualcosa m’appassiona mi ci butto e diventa un tema-chiave per un certo numero di anni. Invecchiando mi rendo conto che davanti a me ho pochi anni per fare tutte le cose che vorrei fare, quindi scelgo con cura il mondo in cui mi perderò per anni.
Cos’hai letto di recente?
Mi sono immersa nei Quattro quartetti di T. S. Eliot. Non è la prima volta che lo leggo, sarà la trentesima. Al momento sto leggendo Rainer Maria Rilke, le Elegie duinesi. Leggo sempre Seamus Heaney, torno continuamente ai suoi scritti. È un maestro. E il Libro di Giobbe. Leggo un sacco di roba diversa. E poi sono anni che collaborato col mio editor, Don Paterson, poeta scozzese e mio maestro. Mi piace il suo ultimo libro di poesie che prende nome da un pub, The Artic.
Come lavori con Don sulle tue poesie?
Ci incontriamo una volta al mese. Gli porto le mie cose, le guardiamo assieme, capiamo che cosa va e che cosa non va. Imparo. Procediamo. Scrivo di più. Molte delle cose che leggo vengono da suoi suggerimenti, poi ne parliamo. Ultimamente abbiamo letto parecchio Rilke assieme.
Hai detto che se mai scrivessi un libro di memorie, sarebbe un’autobiografia romanzata. Qual è la storia più esagerata che racconteresti su di te?
Dovrei rifletterci un po’, ma mi piace pensare che un giorno racconterò la mia storia in modo talmente sincero che non conterrà un briciolo di verità.
Da Rolling Stone US.