Le fanfare del deserto
di Guia Cortassa
Raggiungo Jonathan Wilson per telefono a Los Angeles, qualche settimana prima della pubblicazione del suo nuovo disco, “Fanfare”. Proprio questo sarà l’argomento centrale della nostra breve conversazione, con solo una piccola digressione sentimentale in conclusione.
Ciao Jonathan, come va? Come ti senti per l’uscita di “Fanfare”?
Sono estremamente entusiasta, sono felicissimo dell’album, del suo sound, della tracklist, della copertina, del packaging e tutto quanto.
Non ho ancora visto il packaging e il booklet, ma ho visto la copertina, con il riferimento alla “Creazione di Adamo” di Michelangelo. Perché questa scelta?
A essere sincero è stato per caso. Stavo giocando un po’ con quell’immagine, in cui i due personaggi avvicinano le loro mani in quel modo, perché mi sembrava molto simbolica e importante. Ho iniziato ad allontanare le loro dita giorno per giorno sempre di più. Ma non sapevo sarebbe diventata la copertina dell’album, stavo solo sperimentando un po’, finché Father John Misty mi ha detto “Quella sarà la copertina del tuo disco, amico”.
Ho letto nella presentazione di “Fanfare” che il nucleo centrale dell’album è questo Steinway Grand Piano che hai.
Sì, avevo in studio questo Steinway che avevamo noleggiato. Ho avuto quest’idea, quando stavamo iniziando le diverse session per il disco, di volere un piano. Così, è diventato uno dei pezzi centrali dell’album.
Questa cosa mi aveva colpito molto anche con “Gentle Spirit”, il tuo lavoro precedente: tu suoni fondamentalmente guitar music, ma poi tutto ruota intorno a un pianoforte – ad esempio, l’intro della title track e dell’album…
È vero, anche l’intro di questo disco, ora che ci penso, sì. È interessante perché live siamo molto più chitarristici che nel disco. Ma un giorno lo farò davvero un guitar album [ride].
Uno dei brani in “Fanfare” si intitola “Cecil Taylor”, perché questa dedica?
Sono sempre stato molto interessato a tutti i tipi di Jazz, soprattutto, come in questo caso, all’avantgarde. Cecil Taylor è estremamente avantgarde, faceva musica molto sperimentale. La canzone si riferisce in particolare a quando, negli anni Settanta, qui negli Stati Uniti, il presidente Carter tenne una serie di concerti nel prato della Casa Bianca e uno degli artisti invitati fu proprio Cecil Taylor, cosa che non aveva senso per nessuno. La gente si chiedeva: “Ma cosa diavolo vuole questo qui? Chi è questo che sta suonando per il presidente?” Perché la sua musica è estremamente ardua – l’unica volta che l’ho visto in concerto era molto difficile da digerire, anche per un musicista o un conoscitore di jazz – e il fatto che si stesse esibendo per il Presidente è veramente inspiegabile. Quella canzone, poi, per me è particolarmente speciale, perché vi partecipa David Crosby, con i suoi cori alla fine. Era molto tempo che non compariva in un disco altrui, l’ha fatto per me e Graham Nash.
Ci sono molti ospiti in questo disco. Hai collaborato con diversi musicisti e ora sembra che tutti coloro che hai prodotto o per cui hai scritto abbiamo preso parte al tuo album, sono curiosa di sapere come abbia funzionato con questo gruppo di persone.
Beh, all’inizio sono stato io a pensare chi potesse andare bene a suonare le diverse parti, poi ci sono state persone gentili abbastanza da presentarsi, è stata una combinazione.
Il nucleo dell’album ha avuto influenze come Jerry Garcia, Phil Lesh, Graham Nash e così via. Volevamo arrivare lì, a una cosa meravigliosa come il primo disco di Jerry Garcia, che è pieno di ospiti. All’inizio però abbiamo cercato di evitarlo, ne abbiamo parlato fin dall’origine, non volevamo trasformare il disco nel “meglio degli ospiti”, ma entro la fine della lavorazione vi comparivano ormai tutti. Questa è la cosa migliore, ci sono momenti in cui è surreale, come la polarizzazione incrociata del trip di Father John [Misty] mentre canto con Jackson Browne, è sentito proprio così.
Una delle tue ultime collaborazioni è stata con Roy Harper. Ho letto che proprio tu sei stato una delle sue ispirazioni per tornare in studio e registrare cose nuove. Come è iniziato il vostro rapporto?
Aveva molta voglia di ricominciare. Io ero solo un suo fan, avevo del materiale e ho fatto un cd di tributo insieme a Dawes, Bonnie “Prince” Billy, Chris Robinson e altri. Quando Roy l’ha avuto ha chiesto: “Ma chi è il tipo che ha fatto questa cosa?”. Era emozionato, perché era la prima volta – anche se qualcuno prima aveva rifatto le sue canzoni. È venuto a sentirci a Londra, quando abbiamo suonato un paio di volte e il mio ospite era Jackson [Browne], il quale mi ha detto che Roy aveva molto apprezzato. Siamo diventati amici, ed è venuto in California per fare il primo cut del disco. Mi ha chiesto se potesse venire nei miei studi e a casa mia, ovvio che sì. Erano 13 anni che non faceva dischi, si è presentato lì e ha registrato quella meraviglia.
Sì, l’ho sentito ed è veramente un gran disco…
Certo che lo è! In ottobre [il 22, ndr] sarò parte di questo concerto che terrà a Londra, sono molto emozionato, suoneremo entrambi: io sarò l’apertura e poi suonerò con lui e l’orchestra, sarà un grande show.
L’anno scorso, all’End of the Road Festival avete suonato entrambi per l’anniversario della Bella Union, e devo dire che noi tutti ci aspettavamo di vederti raggiungerlo sul palco durante il suo set.
Ma lui è un perfezionista, vuole che tutto sia al suo massimo, ed era ancora troppo presto per una cosa del genere. È molto rispettoso della sua poesia e delle sue melodie, che sono tra le migliori che abbiamo mai avuto.
Con “Gentle Spirit” e tutte le registrazioni a cui hai preso parte recentemente sei diventato l’icona di questo revival del sound degli anni Sessanta: è vero che quest’etichetta non ti è mai piaciuta? Fanfare mi sembra sia un passo avanti rispetto al disco precedente…
Sì, certo che lo è. Con “Gentle Spirit” era la prima volta che mi sono trovato ad affrontare i media e le interviste, mi sorprendevo ogni volta che qualcuno diceva [con la voce impostata] “Suoni esattamente come uno degli anni Sessanta”, pensavo ‘Mah, se lo dici tu…’. Lo posso capire, ma allo stesso momento non sto cercando di creare un’estetica specifica. Al primo posto, per me, ci sono le canzoni, c’è quello che voglio dire, poi può succedere che la produzione abbia sound psichedelico, con quelle chitarre, che richiami un particolare periodo, va benissimo. Ma non c’è dietro un concept stilistico, a me interessano le canzoni, avrei potuto produrre “Gentle Spirit” in modo totalmente diverso. Mi piace sentire, e tante volte anche suonare, il piano, la chitarra, il basso e la batteria.
Per “Fanfare” sono stato molto influenzato dal sound dei BMI Studios brasiliani dei primi anni Settanta, ascolto continuamente tanti dei loro dischi, ma anche da “Pacific Ocean Blue” di Dennis Wilson. Mi ci sono voluti dei mesi solo per alcunii suoni della batteria, volevo una produzione molto più matura.
In effetti, il sound del disco è molto più ricco, rispetto a “Gentle Spirit”.
Sì, esatto.
Ho un’ultima domanda per te, una mia curiosità: hai nascosto alla fine di “Frankie Ray” [il suo primo disco, mai ufficialmente pubblicato, ndr] una cover di “I’m Looking Through You” dei Beatles. Come mai questa scelta?
Quel disco è stato scritto per una ragazza di cui ero infatuato. Lei non lo sapeva – o forse sì, non lo so – e quel brano era per lei: mi aveva raccontato che i suoi genitori stavano divorziando, e “I’m Looking Through You” era la canzone che suo padre cantava a sua madre, perché descriveva bene la loro relazione. Ho deciso di nasconderla lì così, se mai l’avesse sentita, avrebbe capito. Ancora non so se sia successo o no.
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Il suono del canyon
di Lorenzo Righetto
Chi avrebbe mai detto che Laurel Canyon, uno di quei posti in cui il fascino bohemiènne è stato soppiantato da piani di investimento immobiliare, potesse tornare a essere un punto di riferimento per la musica americana indipendente? Certo è presto per dirlo, ma se c’è un artista che può rinverdire i fasti di Love, Buffalo Springfield e che ha consumato i dischi di Joni Mitchell (tra i quali l’emblematico “Ladies Of The Canyon”) e di Graham Nash, questi è Jonathan Wilson. Produttore e musicista prima ancora che cantautore, Wilson può essere considerato uno degli ultimi (?) grandi appassionati del suono, fortemente radicato nella grande tradizione americana. Si è lanciato da poco, con “Gentle Spirit”, nell’avventura solista, ma già la scena non pare più la stessa.
Come presentazione di te stesso, ci puoi parlare un po’ dei Muscadine, la tua prima band?
I Muscadine hanno rappresentato un periodo speciale per me. Era una band groovy, e quello fu un tempo davvero istruttivo. Dai primi dischi, che furono le mie prime produzioni in studi professionali veri e propri, alla baraonda della major, rimborsi spesa, cene costose, storie di rock and roll… Fu l’inizio. Le canzoni erano buone, fra l’altro…
Entrambi i tuoi dischi sono usciti qualche anno dopo la loro registrazione, addirittura… Solo una coincidenza, o hai una ragione specifica per questo fatto? Sei selettivo nel firmare per un’etichetta?
Sono molto, molto selettivo nel firmare contratti con le etichette. È una brutta faccenda, se non la sbrighi come si deve. Infatti ho rifiutato quattro o cinque offerte per “Gentle Spirit”, alcune di queste da delle major, offerte che sapevo sarebbero state disastrose per il disco. Trovare la Bella Union è stata una benedizione, è la migliore etichetta del pianeta…
Hai detto anche, riguardo all’ultima traccia sul disco, “Valley Of The Silver Moon”: “È un pezzo sul mondo musicale moderno, che non comprende quanto ho da offrire come artista, e sulla lotta che questo ha creato”. Cosa intendi con questo?
Beh, ho sempre registrato parecchi dischi e canzoni, cose che sapevo avrebbero trovato un’orbita nell’universo un giorno, a un certo punto, non sapevo bene quando. Ci sono stati momenti difficili, molte lune più buie di quella che ora brilla.
Penso, in ogni caso, che “Gentle Spirit” sarebbe potuto uscire nel 2011, nel 1998 o nel 1976 e comunque avere un impatto sulla scena musicale. Semplicemente perchè, a mio parere, è uno di quei dischi che quadrano nell’inflazionata espressione “instant classic”. È il tuo obiettivo quando ripensi alla tua musica, a quello che fai?
Di sicuro scelgo sempre linee classiche, colori classici. Cerco di prendere decisioni che portino la musica un passo avanti pur mantenendo le tradizioni che tengo in maggior considerazione.
Chi sono, a tuo parere, i giovani artisti che possono essere considerati “classici” nella scena attuale?
Bonnie Prince Billy, Vetiver, Fleet Foxes, Benji Hughes, Dawes.
“Gentle Spirit” è il tuo passo definitivo verso una carriera solista, o continuerai con la produzione di materiale di altri artisti e, più generale, con le tue collaborazioni?
Si tratta senza dubbio del mio passo definitivo verso una carriera solista. Il mio lavoro di produttore dovrà defilarsi rispetto a questa era di esibizioni, di viaggio per me. Ho fatto diversi dischi schiena contro schiena in studio, mi sto prendendo un attimo di respiro da quell’esperienza per un minuto…
Molti musicisti e amici hanno collaborato alla produzione di “Gentle Spirit”, nonostante sia tu di solito a scrivere ed eseguire tutte le parti strumentali. Sono venuti a suonare quello che avevi in mente e basta o ti hanno aiutato a dare forma alle canzoni?
Diversi pezzi hanno portato espressioni diverse. Ognuno ha contribuito con parti individuali magnifiche, tanto che la personalità abbonda per tutto il disco. Sul resto ho sgobbato in silenzio per qualche anno.
Trovi che questa tua ampia conoscenza musicale e strumentale sia uno stimolo o una limitazione alla tua musica, alla sua composizione?
Non potrei mai sentirla come una limitazione, ho così tante idee in testa sulle quali aspetto di lavorare, abbastanza per una vita intera di sicuro… Il fatto che suoni diversi strumenti certamente impronta e definisce il mio sound e i miei dischi.
Ti sei riferito, come specifico obiettivo nella produzione di “Gentle Spirit”, al “suono del canyon”, dato che stavi registrando il disco nel mitico Laurel Canyon. Puoi spiegare l’espressione a un ascoltatore italiano, o europeo in generale?
Il canyon è un certo modo di sentire. Anche se sei a un miglio o poco più da Los Angeles o dalla Sunset Strip, ti trovi in un bozzolo naturale di libertà e l’energia creativa è davvero attiva. È un posto unico, pieno di profumi, sebbene oggi sia costruito e molto costoso. C’è una nuova razza di piazzisti per ricchi proprietari, un continuo innalzamento del valore delle proprietà, a causa del passato rock and roll del canyon. È molto difficile per un artista viverci, punto, gli affitti sono fuori dalla realtà. Se sei furbo, però, potresti trovare il tuo perfetto, piccolo bungalow all’ombra di un eucalipto.
Parli del concetto di “Gentle Spirit” con le seguenti parole: “L’album tratta del trovare un po’ di tempo per, sai, dare all’umanità qualche tipo di colonna sonora rivestita di reverenza”. È una cosa piuttosto rara nell’ambienta cantautorale odierno, nel quale tutti tentano di sfruttare i sentimenti più introspettivi , cercando di comprimere il mondo in una stanza. Il tuo disco ha, invece, una certa attitudine spirituale lennoniana, panica, specialmente nella title track che apre il disco. Trovi che questo sia un “marchio di fabbrica” della tua musica?
Questa è una grande osservazione e una domanda pazzesca, ti becchi il premio per la domanda dell’anno con questa per me. Non so cosa darei perchè una spiritualità panica, lennoniana fosse un marchio di fabbrica della mia musica. So che c’è del potere nella pazienza, nel respiro. I grandi poeti, musicisti e pittori mi hanno insegnato questo.
Ti sei riferito a “Gentle Spirit” come a un disco inteso specificamente per il vinile, un formato che supporti esplicitamente. Parlando al produttore che c’è in te, puoi spiegarci come “un disco inteso per il vinile” viene prodotto in studio? Che tipo di attrezzatura hai usato?
Usiamo catene di segnale analogiche con un occhio al premio al termine del viaggio, che sarà un bel vinile da 180 grammi. Registriamo su nastro da due pollici, facciamo il missaggio su analogico da un quarto di pollice. Su macchine Studer e Ampex, mastering doppio del disco, uno solo per il vinile, uno per il digitale, ecco come l’abbiamo fatto. I nastri master dritti in Neumann Lathe, quello aggiunge profondità, forse un’esperienza più “tattile” di essere lì durante le sessioni, etc. La scommessa, se si segue il modo col quale intendo che il disco venga fatto suonare, cioè su un giradischi con un sistema ben fatto, è che prenda vita.
Ti ringraziamo per l’intervista e speriamo di strapparti la promessa di un concerto in Italia!
Grazie a voi, sul serio. Di sicuro sarò in Italia nel 2012!
Antonio Santini for SANREMO.FM