Aggiudicatasi il Leone d’Oro per il Teatro nel 2018 senza mai scendere ad alcuna concessione artistica in 36 anni di carriera, l’entità RezzaMastrella, nell’ultimo quadriennio, ha infittito, se possibile, la propria operatività, proseguendo nella dimostrazione di un’estetica che verrà studiata, in un futuro più prossimo di quel che si crede, nella scuole italiane. Dai teatri di tutto il Bel Paese passando al grande schermo, Antonio Rezza e Flavia Mastrella si dimostrano i depositari di una creatività che non smette di affilare i propri artigli, bombardando lo spettatore con performance in cui i più basilari valori della società occidentale vengono messi alla berlina. Non è un approccio dogmatico, quello dei nostri, ma un’estetica che genera domande irrisolvibili servendosi degli astratti allestimenti costruiti dalla Mastrella e dei testi, il corpo e la voce di Rezza, che abbiamo intervistato per SentireAscoltare.
Antonio, a conferma di un quadriennio che definire eclettico sarebbe riduttivo, nel 2020 lei ha esordito col suo primo progetto musicale, “Groppo e Galoppo: il Pianto del Centauro”. In che modo ha inteso impiegare la voce?
Si è tratto di un esperimento nato durante la pandemia, in cui ho suonato il mio corpo e le mie corde vocali. Quando riuscirò a trovare il tempo, ne faremo un album vero e proprio.
Il suo approccio mi ha ricordato gli album solisti di Demetrio Stratos…
Amo Stratos pur non conoscendolo molto, lo amo anche per il suo pensiero, parallelo a quello che faceva. È stato un uomo eccezionale ed è stato un danno che sia morto così giovane, fermo restando che quello che ho fatto io è molto diverso da quello che ha fatto lui. E amo Frank Zappa, di cui lo scorso dicembre sono ricorsi i 30 anni dalla morte. I miei genitori hanno problema di ricezione su Rai Uno e Rai Due; sono finiti così sul tg di Canale Cinque che, pur con tutti i suoi difetti, ha ricordato Zappa con un bel servizio ricorrendo anche a interessanti filmati d’archivio. Non so se abbiano fatto lo stesso le così dette “reti ammiraglie”.
È da poco uscito il suo ultimo libro, edito da La Nave di Teseo, “Il fattaccio”. Un giallo.
Ho iniziato a scriverlo nel 2009, senza alcuna fretta, essendo svincolato da contratti capestro, anzi, non avevo proprio alcun contratto. All’inizio era un giallo; essendomi accorto che scrivere nel meccanismo del giallo mi riusciva molto bene, ho però cominciato ad annoiarmi di questa destrezza, finendo per assegnare al commissario un ruolo diverso dal previsto: egli infatti possiede sessualmente ogni vecchio che incontra, così da vederlo morire nel momento esatto in cui lo strapazza.
A che scopo?
Il commissario lascia intrappolata la morte nell’atto prevaricatore. È l’illusione di eliminare la morte dalla faccia della terra, tappandola nel corpo di chi muore. Chi legge “Il fattaccio” ne rimane estasiato, ed è per questo che reclamo per questo libro il premio letterario più importante di tutti. Non per ambizione o smania di vendite, ma per dare una lezione a quei tanti autori che finiscono pubblicati ed esposti in libreria pur scrivendo come bambini delle medie. Il premio lo pretendo per fargli invidia.
Il 2020 è stato l’anno dell’uscita di “Samp”, ultima fatica cinematografica di RezzaMastrella, un film che ha richiesto una gestazione di 20 anni. La risposta di pubblico e critica è stata positiva quando non addirittura entusiasta: cosa ritiene abbia compreso il pubblico, della pellicola?
“Samp” è stato un altro nostro manifesto di libertà. Un film completamente libero fatto coi nostri tempi anti-produttivi. Quanto al significato che ne ricava il pubblico, beh, non ci riguarda, non è un problema nostro. Non possiamo mica fare tutto noi!
L’artista non ha una qualche responsabilità sociale?
L’artista ha una responsabilità sociale nel momento in cui il suo pensiero non diventa più importante di quello che fa, altrimenti egli è solamente un autore che porta a spasso sé stesso perché le sue opere non riescono a farlo. Il dovere politico sta nell’imprimere una direzione a quello che si fa, e non a quello che si dice.
Nel 2022 una prova cinematografica in solitaria, “Il Cristo in gola”. Inizialmente il suo Cristo doveva pronunciare aforismi dello scrittore Stanisław Lec. Poi ha pensato di limitarsi a gridare: cosa gli ha fatto cambiare idea?
È successo quello che spesso succede nella bocca degli attori: recitavo questi splendidi aforismi in modo meccanico ma, avendo anche il ruolo di regista, produttore e corpo instabile, ho potuto concedermi il lusso di strapparmi dall’opera. Stavamo girando a Matera, non sapevo che fare, mi sentivo fasullo a recitare, non essendo io un attore; così ho iniziato a strillare per la frustrazione della mia incapacità recitativa, sfruttando questa emozione e facendola diventare uno stile.
Due anni fa è uscito perfino, in allegato con Linus, il suo mazzo di carte “Encefalon”: un nuovo gioco da tavolo?
Si tratta di carte con ritratte delle figure antropomorfe, degli autoscatti che ho realizzato col cellulare utilizzando degli specchi deformanti. È un’altra delle tante attività che hanno occupato il mio tempo durante la pandemia, periodo per noi di grandissima sperimentazione.
A proposito della pandemia, lei ha espresso a mezzo stampa pensieri in netto contrasto con la maggior parte degli intellettuali italiani.
È stato uno schifo. La pandemia altro non è stata che una prova tecnica di sottomissione, un esperimento che ci ha messi gli uni contro gli altri. Io sono fiero di non essermi vaccinato: la mia è stata una precisa scelta politica, poiché il corpo è mio e scelgo di farci quello che pare a me, è l’unica cosa che mi appartiene. Questa decisione ci ha portati a essere trattati come delle vere e proprie minoranze e oggi, i carnefici responsabili di quella situazione, fanno finta di nulla. Ma io non dimentico, non dobbiamo assolutamente dimenticare ciò che è accaduto.
Proseguono con successo le repliche del vostro “Hybris” del 2022 in cui, se possibile, risultate più politicamente scorretti che mai. Ce n’è per tutti e per tutto, inclusa la parità di genere
Sulla questione della parità di genere spieghiamoci bene: è evidente che la nostra è una cultura endemicamente maschilista, ma a cambiare le cose non sarà certo il mettere una “A” alla fine di una parola. Bisogna combattere, semmai, la nostra stessa genetica. E poi c’è da chiarire un punto. Pensa al tema del femminicidio: non è che oggi vengano uccise più donne rispetto che in passato, ma è maggiore l’attenzione posta dai media rispetto a questi abusi.
La ragione?
Tra le ragioni c’è anche quella di nascondere altre nefandezze. Alla povera ragazza uccisa dall’ex-fidanzato in Veneto è concesso più spazio mediatico rispetto ad altre notizie non per una forma di sincerità dei media, ma per distrarci rispetto all’estinzione di un popolo: la Palestina viene attualmente cancellata da una potenza militare di assoluta intransigenza. Tutto oggi è strumentalizzato. Ritengo che la morte sotto le bombe di 5.000 bambini sia più terribile della pur tragica sorte della ragazza veneta. Faccio mio un pensiero di Franco Maresco: “Anche dietro il migliore di noi, si nasconde un pezzo di merda”, un’osservazione, questa, che mi da speranza.
Attualmente scrive sulla rivista Linus e sta per iniziare una sua collaborazione domenicale su Il Sole 24 Ore. Sorge spontaneo chiedersi: rispetto al giornalismo italiano, qual è mediamente il suo livello di fiducia?
Perché mi chiedi specificamente del giornalismo italiano? Parliamo del giornalismo in generale. La mia fiducia è pari a zero. All’informazione sui fatti, preferisco la formazione dei pensieri. Attualmente una persona minimamente razionale non può credere a quello che gli viene detto. Meglio sbagliare con la propria idea, che credere a quella degli altri. I giornalisti fanno finta di non accorgersi che li abbiamo smascherati, più volte. Un esempio: è morto Henry Kissinger, un criminale, basti pensare al suo ruolo in Nicaragua e in Cile. Beh, pochi giornali però hanno avuto il coraggio di attribuirgli questa definizione. A sentir loro, pare sia morto un secondo San Francesco.
Il 24 febbraio potrò tornare a vedere il vostro storico spettacolo del 1995 “Pitecus” al Teatro Astra di Vicenza: quali sono le ragioni alla base di questo ripescaggio?
Ragioni dettate da esigenze produttive. Quello che non capisco è perché in una regione adottiva come la tua, il Veneto – che ci ha visti partecipare al Festival di Venezia, che ci ha premiati col Leone d’Oro alla carriera, ho addirittura una nonna veneta! – fatichiamo a esibirci. Ringraziamo ancora una volta l’Astra per l’ospitalità ma, alle società organizzatrici di eventi venete diciamo che è tempo di ristabilire una gerarchia: se io Antonio Rezza ti chiamo, tu, nel tuo ruolo di funzionario, hai il dovere di rispondere. Mi fa rabbia che certa indisponibilità precluda al pubblico la possibilità di vederci. Anche la Puglia ha un problema simile. Credimi: per noi è più facile esibirsi in Cina che nella vostra regione, è più facile esibirsi in Lituania che a Lecce.
Antonio Santini for SANREMO.FM