Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
Se la parola “nostalgia” trova le sue radici nel concetto greco di nostos, ovvero il ritorno, quello dell’eroe (Ulisse, ad esempio) che ci mette parecchi anni a trovare la via per casa, allora possiamo dire che Daniel Danny Rocco in arte Des Rocs affonda la sua vena creativa in un magma profondamente nostalgico dell’età dorata del rock, il rock’n’roll. Questo è quello che abbiamo imparato da lui con Let The Vultures In, nel 2018 ritrovavamo l’epicità dei Queen e le movenze di Elvis. Ma diremo di più: la sua Dream Machine, secondo album in studio del nostro artista della giornata, in realtà, è una macchina del tempo che supera il concetto temporale gregoriano, e va a scavare nei fusi orari di artisti altrettanto storici della nostra età, ripescandone la loro golden age.
Così è impossibile non sentire una seri di echi prepotenti di Muse di Origin of Symmetry, i primissimi Arctic e persino Brandon Flowers. Cioè quei sound ai tempi nuovi che ci hanno convinto su i predetti soggetti. In brevissimo, Danny Rocco è il playboy del liceo che vive esclusivamente nei meandri dei tuoi ricordi e sprigiona ancora quell’incredibile fascino che ci ha fatto cadere nell’innamoramento adolescenziale, il migliore di tutti: impossibile, irreale, e per questo eterno.
Per questo nessuna sopresa ieri 29 gennaio al Legend Club per una folla sold out stretta tra le pareti del locale per concludere il suo tour europeo che l’ha visto visitare le principali città del vecchio continente e ben tre italiane (Roma e Bologna sono state toccate la settimana scorsa). Un ritorno alle origini, per quanto un po’ sbiadite da americano newyorkese di quarta generazione e anche troppo nordiche rispetto alle discendenze di Des Rocs (sono più a Sud, ci dice nell’intervista che abbiamo potuto fargli nel pomeriggio e in arrivo a breve su RockOn). Daniel è una forza della natura, il palco è in tutti i sensi un palcoscenico, quindi un luogo di esibizione, che lo spirito del rock’n’roll non prevede fatto di minimalismo tecnico ed espositivo – tutt’altro.
Diciamo che l’antipasto, Christopher Shayne, indica in maniera abbastanza chiara la via della serata: le sonorità sono chiaramente quelle più rockeggianti piene nel puro senso USA della parola, se cosi si puó dire, i capelli pure (un riccio frisee che nessuna permamente potrebbe garantirmi, soprattutto dopo i diecimila giri di headbanging sfoderati già dalla prima canzone). Christopher è spumeggiante, scalda la folla, insulta il manager e riarrangia con la sua chitarra e voce tonante la sussurrata bad guy di Billie Eilish. Una scelta azzeccata, che fa pregustare bene qual è lo switch che ci aspetta con Des Rocs.
Daniel sale sul palco quasi correndo, è alto e slanciato e come qualcuno lo ha additato, un Teddy Boy interamente ricoperto di pelle e canotte, ha qualcosa di Alex Turner nello sguardo ma dieci volte più fetente, if you know what I mean. Insieme a lui ci sono Eric Mendelsohn e William Tully e fuori dal palco il tour manager Nick, l’occhio sempre presente del fotografo Rory Burnes e Eve al merchandise, insomma il tour bus è tutta la band e trovo delizioso che ci sia posto per loro nel suo show. Iniziamo con Dream Machine e dire che ingrana la chitarra è assolutamente riduttivo, tant’è vero che il riff queens-iano che caratterizza l’incipit del pezzo pare saltare per aria in una riproposizione puramente da bar, ma che gliene frega al pubblico di questi sofismi da post produzione, è già partito a saltare. È l’energia quello che conta e Des Rocs lo sa.
Il palco del Legend è incredibilmente piccolo per qualcuno abituato a bruciarlo, ma quale non lo sarebbe con il signor Rocco? Con l’esuberanza di uno stuntman sotto eccitanti si butta da un lato all’altro della stanza, si offre al pubblico, ci parla e scherza, del resto è la sua ultima data e quindi la scaletta salta (non è proprio vero, ma si permette qualche pezzo meno suonato come Hanging By A Thread). È preso a benissimo, cosi bene che quasi quasi quelli che manco salutano il pubblico e spariscono cominciano a darmi sui nervi.
Tralasceremo il pubblico che sa a memoria tutti i testi e canta anche se lui a volte fa il modesto, dice: “questa è vecchia, forse non la sapete” e poi puntualmente gongola. Il vero delirio inizia alla fine della triade iniziale con We Used To Darkness che getta tutti in una rumba contro il palco, ammicca furbescamente con White Gold ed esplode in Nowhere Kid (pezzo 100% Muse) e si concede una lunga tregua con Manic Memories, dove Daniel inscena un ricordo di lui a Central Park di notte mentre ci chiede di visualizzare a occhi chiusi i nostri più reconditi desiderata (e poi scherza che ci ha fregato a tutti il portafoglio). C’è un livello di serietà che non viene mai raggiunto in questo concerto: è tutto necessariamente muscolare, esagitato ed esasperato per non toccare mai con mano niente di concreto, come la massa di nebbia che ci attende fuori a fine concerto. Daniel Rocco è il protagonista di un film di Baz Lurhmann, e chissà se lo sa.
Si scala ancora si, muscolarmente, verso la fine dello show che pare sia volato, eppure un’ora e mezzo si è stati li, con molta foga da sfogare. Let Me Live / Let Me Die è la climax che sancisce la fine ‘formale’ prima dell’encore e il grand finale di Suicide Romantics (anche se io volevo davvero la versione schitarreggiante di Despacito). Si, c’è molto romanticismo ottocentesco, quello dei primi sconvolgimenti emotivi che affrontiamo con l’ingenuità di un Goethe alle prime armi.
Non pensavo di poter essere affascinata da chi cerca un ritorno ai grandi classici, ma c’è da essere conquistati da una tale vigorosità. Del resto, spesso cediamo alla passione di chi porta avanti una fede, piuttosto che al contenuto stesso, e Des Rocs con il suo sguardo tormentato e un po’ paraculo ci guarda dritto negli occhi e fa tornare in noi la voglia di bruciare come per i primi amori. E qui parlo di quando abbiamo sentito o gustato quel sapore, quell’accordo che ci ha fatto pensare che c’era qualcosa di nuovo e di interessante da scoprire.
A volte ritornare non vuol dire solo chiudersi in un reazionismo che ci rende sempre avulsi dal nuovo, esseri cinici pronti a cercare la falla nella novità, a dire: “già visto!”. Significa fare di un passato una fonte inesauribile di ispirazione e soprattutto, trovare una validissima scusa per stare tutto il giorno in fantastiche tute di pelle. Des Rocs torna presto, ti aspettiamo a settembre (che dopo la merla, spereremmo di evitarci anche l’afa). Nel frattempo sentiremo solo tanta nostalgia.
Clicca qui per vedere le foto del concerto di DES ROCS a Milano o sfoglia la gallery qui sotto:
DES ROCS – La Scaletta del Concerto di Milano
Dream Machine
Wayne
Used To Darkness
Hanging By A Thread
Natural Born Thriller
Nowhere Kid
Manic Memories (acoustic)
Bad Blood
Never Ending Moment
I Am The Lightening
HVY MTL DRMR
Let Me Live / Let Me Die
MMC
Suicide Romantics
Daniel D`Amico for SANREMO.FM