Da sempre inclassificabili e sospesi tra elettronica, ambient e post-rock, i Seefeel sono forse il progetto più affascinante e sfuggente uscito fuori dalla utopica e visionaria scena anni Novanta inglese. Dopo una lunga pausa durata più di dieci anni (almeno per quanto riguarda nuove uscite ufficiali, saltando ristampe e lavori affini), la band di Mark Clifford e Sarah Peacock — affiancata nella formazione più recente da Shigeru Ishihara e Iida Kazuhisa, rispettivamente a basso e batteria — torna con due nuove pubblicazioni su Warp in rapida successione: Everything Squared e Squared Roots. Due mini-album che non rappresentano tanto un ritorno, quanto uno dei loro eterni nuovi inizi.
In occasione del recente appuntamento milanese all’interno della rassegna Inner_Spaces all’Auditorium San Fedele di Milano, abbiamo parlato proprio con Mark Clifford, fondatore e mente storica del progetto. Una conversazione che ha toccato i ricordi delle utopie post-ottanta tra Londra ed il resto del Regno Unito, l’incontro con i Cocteau Twins agli albori della loro carriera e quel trovarsi ad avere ancora un grande pregio: la difficoltà, a più di trent’anni dagli esordi, di costringere la propria musica dentro una semplice definizione.
Dopo una lunga pausa discografica, in cui siete rimasti comunque attivi tra live, festival e riedizioni di vecchi capitoli, siete tornati con due mini album. Cosa succede durante un silenzio così prolungato?
È una storia un po’ strana: i brani erano rimasti dentro un hard disk per qualche tempo. All’inizio volevamo pubblicare un EP di quattro tracce a seguito delle ristampe pubblicate dalla Warp; quasi un messaggio per far capire che stavamo ancora facendo musica. Poi da quattro tracce siamo passati a sei, e infine a tredici. Probabilmente avrebbe avuto senso farne un disco già tempo fa, ma alcune cose ci sembravano un po’ ‘indietro’. È curioso, sai: facciamo sempre queste lunghe pause quando in realtà non c’è mai un motivo particolare dietro.
Il progetto ha sempre dimostrato di non avere la necessità di pubblicare un album ogni due-tre anni per ricordare la propria esistenza. E questo, soprattutto se parliamo di territori musicali abbastanza di nicchia, è piuttosto raro.
Sì, sono d’accordo, ma ora sono anche più consapevole che una pausa del genere per il mercato è un periodo infinito. Con l’età, dieci anni improvvisamente sembrano tanti: pensi “Non posso aspettare altri dieci anni per fare un album, poi altri dieci ancora”, perché significa che riuscirò a fare solo due o tre album prima di scomparire, semmai arriverò a vivere così tanto. Perciò sto cercando di essere più produttivo, di continuare su una scia più prolifica.
Si può dire comunque che Everything Squared e Squared Roots aprano un nuovo, e “moderno”, capitolo per i Seefeel.
La differenza è che rispetto all’ultimo lavoro del 2011 stavolta i brani sono stati composti principalmente da me, anche se ovviamente Sarah ha contribuito con le sue parti vocali. L’ultimo vero album, Seefeel, non fu un lavoro di gruppo in senso stretto ma aveva un coinvolgimento più ampio: Shige (Shigeru Ishihara, al basso, ndr) aveva partecipato in modo più attivo e c’erano anche molte delle parti di batteria suonate da Iida (Kazuhisa, ndr).
Il punto principale è che il mio modo di comporre è spesso influenzato dal contesto in cui mi trovo: se c’è una dinamica più da band, se proviamo o suoniamo dal vivo per un lungo periodo, è naturale che questo influenzi il mio approccio alla scrittura. Con Everything Squared e Squared Roots invece credo ci sia stato un lavoro molto più raccolto, quasi intimo. Un processo più interiore.
Cosa pensi sia davvero mutato nella direzione della vostra musica?
È davvero difficile da dire, è qualcosa di molto soggettivo. Quando abbiamo scritto Quique (l’album di debutto uscito nel 1993, ndr) eravamo ovviamente limitati da ciò che potevamo fare, con i mezzi dell’epoca: l’evoluzione della tecnologia ha avuto un impatto enorme. Oggi posso provare cose che anche solo dieci anni fa sarebbero state troppo lente o frustranti da realizzare con la velocità dei computer di allora. Se qualcosa non funzionava voleva dire aver perso del tempo. Ora posso sperimentare in modo molto più rapido e questo rende il processo molto più fluido.
Tu dici che nel suono si riconosce ancora una certa continuità, e credo che sia semplicemente perché ci sono sempre io dietro. Non sono un ‘musicista’ nel senso tradizionale, non cerco di esprimermi con difficili assoli di chitarra o cose simili. Cerco sempre la semplicità. Anche se ora, magari, dentro quella semplicità penso ci sia dentro un po’ più di complessità.
Cosa vi siete portati dietro dei primi anni, e cosa invece è diventato impossibile recuperare nel vostro modo di fare musica adesso?
Con Sarah abbiamo recentemente provato a scrivere un pezzo usando l’Atari che ancora possiede, lo stesso computer che usavamo nel ’93. Un giorno lo ha portato a casa e abbiamo provato a lavorare “alla vecchia maniera”. Dopo venti minuti abbiamo lasciato perdere: era terribile. Ti rendi conto di quanto le cose siano cambiate solo quando provi a tornare indietro. Ma è un cambiamento lento, quasi impercettibile, di anno in anno. È un po’ come osservare qualcuno crescere: se hai dei figli, non noti i cambiamenti giorno per giorno, finché non guardi una vecchia foto. Ecco, con la musica è lo stesso.
Dal punto di vista produttivo oggi è tutto molto più semplice. Posso sperimentare di più, sovrapporre strati, aggiungere o togliere elementi con grande libertà. E soprattutto, non c’è più il peso economico di dover prenotare uno studio per mixare, succede tutto con molta più leggerezza. Siamo molto più aperti alla sperimentazione proprio perché non comporta più lo stesso tipo di sforzo. E per me questo è il cambiamento più grande.
Siete sempre rimasti fuori da qualsiasi definizione: ambient, dub, IDM, post-rock. In un’intervista qualche anno fa Simon Reynolds diceva che in un certo senso eravate praticamente “post–tutto”. È ancora così?
Credo sia qualcosa a cui prestiamo molta attenzione, da sempre. Personalmente cerco di non partire mai con l’idea di fare pura “musica elettronica”, preferisco integrare sempre elementi organici, anche se poi li elaboro fino a farli sembrare più sperimentali. E in realtà nei nostri dischi ci sono sempre stati (e ci sono ancora) strumenti registrati dal vivo, credo che questo abbia contribuito a mantenere una certa ‘umanità’ nella musica. In più il fatto che Sarah canti con una certa sensibilità aggiunge sicuramente un altro livello emotivo.
Quindi pur utilizzando la tecnologia sono molto consapevole di non volerle lasciare prendere il sopravvento. Non che non mi piaccia l’elettronica intesa in quel modo, anzi, ma per me è importante evitare che il suo aspetto aridamente tecnologico diventi dominante e mantenere quella sensazione quasi indefinibile.
E ci sono delle soluzioni a questo?
Sì, assolutamente. Ad esempio, non mi sento mai di usare troppi plugin. Alla produzione uso Pro Tools, che fondamentalmente è come una versione avanzata di un registratore a nastro, e cerco di non abusare col resto della tecnologia moderna: scelgo sempre la cosa più semplice. Non voglio cadere nella trappola di creare suoni troppo complessi. Voglio che la musica abbia una qualità reale e non troppo artificiale.
Avete appena fatto il vostro atteso ritorno live in Italia, al San Fedele di Milano per Inner_Spaces. Qual è il vostro presente e futuro dal vivo?
Al momento Sarah fatica a suonare dal vivo per motivi personali, quindi io porto avanti dei set dub, e quando possibile suoniamo insieme. Stiamo cercando di migliorare interamente il set, di renderlo più vivo e con più dinamiche. Vorremmo anche aggiungere una sezione di percussioni. Negli anni ’90 eravamo legati a delle tracce pre-registrate, era frustrante. Ora siamo più flessibili, ma vorrei che lo diventassimo ancora di più. Aggiungo che non ci siamo mai percepiti come particolarmente ‘emozionanti’ sul palco, direi, ma ovviamente suonare dal vivo è importante: è lì che guadagni la maggior parte dei soldi, ormai.

Seefeel live a Inner_Spaces. Foto: Riccardo Trudi Diotallevi

Seefeel live a Inner_Spaces. Foto: Riccardo Trudi Diotallevi
Quando avete iniziato vi sentivate parte di una certa scena? E oggi invece?
Sicuramente quando si è giovani credo si tende a essere più facilmente parte di una scena. Quando abbiamo iniziato come Seefeel eravamo decisamente immersi in quella londinese, che era un vero e proprio melting pot non solo nei club, ma anche nell’ambito dei live e dei concerti. Oggi non è più così. La band vive in posti diversi: io nella periferia di Brighton, Sarah a Londra, non passiamo più tanto tempo insieme. Non mi considero più parte di una scena, e questo influisce anche sulla musica: non vado più tanto in giro e non torno a casa alle sei del mattino per fare musica, insomma.
Ma chiaro che quel mondo ha avuto un enorme impatto su di noi. Crescendo, con Sarah e Daren (ex membro della band, ndr) eravamo diventati degli “indie kids”. Sarah, in particolare, era molto legata a quella wave musicale. Io venivo da Birmingham, ero un tipo un po’ “goth”, un po’ artistoide. Quando poi la bolla club esplose a Londra l’impatto fu enorme. Non c’era più solo “musica per chitarre”: ci ha allargato gli orizzonti, ci ha fatto vedere le cose in modo diverso.
Che ricordi hai degli artisti che riuscivi a conoscere durante quegli anni?
Uno dei primi è quando andai a vedere i Tears for Fears, nel periodo dei loro esordi. Subito dopo credo sicuramente i Cocteau Twins. Parlo sempre dei Cocteau Twins nelle interviste, ma davvero, quando li ho sentiti per la prima volta mi hanno completamente cambiato visione. Li ho visti suonare a Birmingham nell’85, è stato un momento davvero importante. Credo comunque andassi ai concerti quasi tutte le sere a Londra, c’era sempre qualcosa da fare. Mi vengono in mente anche i primi live dei My Bloody Valentine, poi Sonic Youth, Swans…
Ecco, raccontaci del contatto con i Cocteau Twins.
Inviai il nostro primo EP (More Like Space, ndr) a Elizabeth (Fraser, ndr). Sto cercando di ricordare come trovai l’indirizzo, a chi l’avevo realmente spedito. Probabilmente l’ha ricevuto la label, 4AD, dato che non sapevo dove fosse il loro studio. Lo avevo mandato a lei perché nella mia testa pensavo fosse la più propensa ad aprirlo e ascoltarlo. Col senno di poi, avendoli conosciuti, era proprio l’opposto. Era molto più probabile fosse Robin ad aprirlo, e infatti è stato proprio lui a farlo. Credo che fosse andato negli uffici dell’etichetta, trovò della posta da ritirare e aprì la nostra busta. Ho ancora la loro risposta conservata da qualche parte.
Cosa diceva?
Mi scrissero una lettera dattiloscritta con una scrittura gotica in cui dicevamo quanto gli piacesse il mio lavoro, chiedendomi se volevo andare in studio per incontrarli. All’inizio pensavo fosse uno scherzo, a dirla tutta. L’ho riletta più volte (ride, ndr). Una cosa è mandare qualcosa ad artisti come loro e ricevere una risposta del tipo ‘Grazie, ci è piaciuto, ci becchiamo’, ma addirittura essere invitato nel loro studio… Sapevo che Robin riceveva un sacco di materiale, quindi il fatto che abbia risposto in quel modo è stato davvero importante per me.
E di lì a poco, quindi, l’incontro e la produzione del loro remix EP Otherness.
Sono andato in studio con Daren e siamo rimasti lì nel pomeriggio. Mi fecero ascoltare alcune cose su cui stavano lavorando, erano davvero molto gentili. Nella mia testa li vedevo ancora come fossero un po’ lontani, quasi fuori dal mondo, invece erano persone normali, anzi, estremamente accessibili. È stato un momento davvero decisivo per me, per noi. Un punto di svolta enorme.
È come se la musica che hai sempre ascoltato, quella che ti ha influenzato più nel tuo lavoro, apprezzasse filosoficamente quello che fai. Non credo ci sia una spinta più grande, per la tua carriera, che provare una cosa del genere. Se con la musica avessi finito in quel momento sarei stato comunque felice, a essere sincero.
L’altro punto di svolta è stato approdare in Warp Records, che ha incarnato l’utopia visionaria di quella scena con un roster di talenti (tra cui Aphex Twin, Boards of Canada, Autechre) che ha segnato un’epoca. Trent’anni dopo, secondo te, esiste ancora qualcosa che si avvicini a quel sogno?
Difficile da dire. Un tempo con Warp sapevi che avresti ascoltato sempre qualcosa di interessante, qualsiasi cosa uscisse. Era tutto nuovo, distante. Oggi la scena è molto più frammentata e credo che sia difficile replicare quella coerenza visionaria. Forse, a livello sonoro, punterei su qualcosa di più organico, ma allo stesso tempo so che per le etichette è difficile rischiare: servono risultati economici.
Non si tratta più di creare un movimento coeso sotto un’unica etichetta, come accadeva allora. Magari è successo con certi fenomeni come il grime, la drum and bass o la dubstep, nei loro primi anni. Ma di solito sono stati processi legati ad un solo genere definito, anziché a qualcosa che riguardasse un cambiamento più ampio.
Credi che la centralità di Londra abbia modificato la percezione e lo sviluppo di quel movimento?
Assolutamente sì, perché partiva da Sheffield, poi è stato appunto risucchiato lì, che è un posto che tende a inglobare tutto. E non che Sheffield non abbia avuto una sua storia musicale, anzi. Portare quel tipo di musica fuori dalla periferia è stato un passo importante, certo, ma Londra fagocita. Romanticamente, forse poteva rimanere dov’era. Non ho mai chiesto a Steve perché abbiano lasciato Sheffield.
Per finire: abbiamo parlato molto del fatto che in tutto questo tempo trovare una collocazione ben precisa alla vostra musica sia stato, in fondo, il vostro più grande pregio perché vi ha reso liberi. Se tu dovessi descrivere la musica dei Seefeel con un’immagine, un luogo, un film o un lavoro d’arte in generale, cosa ti verrebbe in mente?
Oddio, è davvero una bella domanda. Ma non riesco a rispondere così su due piedi… forse se me l’avessi mandata via mail ci avrei pensato un po’. Tu cosa diresti?
Mi immagino un film diretto da Lynch e Sorrentino, insieme, ovviamente ambientato in Inghilterra tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Quella luce lì, quell’estetica sospesa e quasi rarefatta.
Sì, ci sta. Mi piace. Per rispondere alla tua domanda posso pensare a dei movimenti artistici, dire magari “ok, siamo un po’ così” ma non riesco a trovare qualcosa di preciso. Una volta ci hanno paragonato a Rothko — l’artista, ovviamente, non la band — e lo capisco. Mi è successo di vedere i suoi dipinti alla Tate, con la luce giusta, e ho pensato: “sì, capisco perché la gente fa questo paragone”.
C’è qualcosa nelle sue immagini che risuona, che vibra in modo simile. Ma non è un’associazione che mi verrebbe spontanea. E forse è proprio questo il motivo per cui non siamo mai riusciti a stare dentro una scatola. È anche la ragione per cui abbiamo sempre avuto difficoltà ad avere video per accompagnare la nostra musica nel modo giusto, sai? Trovo complicato pensare a qualcosa che si adatti bene al nostro suono.
E forse è proprio questa difficoltà nel definirvi che tiene viva la vostra idea musica, no? Mai al centro della scena, ma sempre lì dove si sperimentano le cose più audaci.
Sì, ma è anche la cosa che rende più difficile vendere dischi! (ride, ndr). Spesso vendere musica ha a che fare con le connessioni, l’essere inseriti in certe scene, appartenere a qualcosa. Noi siamo sempre stati un po’ ai margini di tutto. Però mi sento fortunato di poter ancora fare qualcosa che amo profondamente. E anche perché c’è ancora gente là fuori che ci ascolta, che è curiosa, che è aperta a qualcosa di nuovo da parte nostra. Questo per me è tutto.