Ce ne abbiamo messo di tempo a scegliere i migliori album del 1994. E per non escludere nessuno di quelli che secondo noi meritavano di essere citati abbiamo deciso di inserirne nella nostra lista addirittura 30. Trent’anni fa è stato un anno clamoroso per la musica, che nel mese di aprile piangeva la scomparsa di Kurt Cobain. Nulla da invidiare alle celebratissime annate che l’hanno preceduta, tra memorabili esordi di personaggi “rock” con più o meno virgolette (Ben Harper, Beck e Jeff Buckley) e di band diversissime tra loro come Portishead, Oasis e Korn, ruggivano ancora vecchi leoni come Eric Clapton e Neil Young, per non parlare del ritorno di Johnny Cash. E poi formidabili opere prime hip hop (Nas e Notorious B.I.G.) e capolavori in grado di delimitare le caratteristiche di un genere (il trip hop degli stessi Portishead, il crossover dei Korn), di rappresentarne una sintesi altissima (il Brit pop di Blur, Suede, Pulp e Oasis) o di fare genere a sé (Grace di Buckley).
Come per le liste dedicate al 1991, 1992 e 1993, ci siamo accorti che il 1994 è stato un grande anno per la musica anche quando si è trattato di fare dolorose esclusioni. Basti pensare a Let Love In di Nick Cave, Orange della Jon Spencer Blues Explosion, Bakesale dei Sebadoh, Dubnobasswithmyheadman degli Underworld e Weight della Rollins Band.
Nella scelta dei magnifici 30, invece, ci siamo fatti guidare dai tre criteri che ci in questi casi ci sembrano i migliori: eredità dell’album a 30 anni dall’uscita, rilevanza per la scena musicale dell’epoca e, inevitabilmente anche se in misura minore, gusto personale.
Jar of Flies
Alice in Chains
Gennaio 1994
La band di Seattle ripete quanto fatto all’indomani dell’opera prima Facelift, cui erano seguito l’EP acustico Sap (1992). Stavolta a Dirt del 1992 segue un mini album il cui titolo si ispira a un esperimento svolto dal chitarrista Jerry Cantrell ai tempi della scuola. Due barattoli pieni di mosche, il primo contenente cibo in abbondanza, il secondo l’esatto contrario. Nel primo le mosche si riproducono rapidamente, ma poi muoiono a causa del sovraffollamento, nel secondo invece riescono a sopravvivere. Primo EP della storia a raggiungere il numero uno della Billboard 200, rappresenta l’esordio del bassista Mike Inez (proveniente dalla band di Ozzy Osbourne) in sostituzione di Mike Starr, allontanato durante il tour di Dirt a causa del suo uso di sostanze stupefacenti. «Oscuramente meraviglioso» scrive l’edizione americana di Rolling Stone a proposito di una raccolta di canzoni che, nel solo 1994, venderà oltre due milioni di copie.
Whiskey for the Holy Ghost
Mark Lanegan
Gennaio 1994
Laddove l’esordio solista di The Winding Sheet era stato approntato in soli tre giorni, l’opera seconda del cantante degli Screaming Trees raccoglie materiale registrato nel corso di tre anni complicati, tanto che a un certo punto Lanegan stava per buttare i master sul fondo di un fiume. A impedirglielo fisicamente è Jack Endino, che partecipa alle registrazioni come tecnico del suono assieme a un dream team alternative/grunge di cui fanno parte anche Dan Peters dei Mudhoney, Tad Doyle, J Mascis e Mark Pickerel degli stessi Screaming Trees. A fare però la parte del leone è Mike Johnson, che suona bassi, chitarre e tastiere e contribuisce alla realizzazione del primo capolavoro solista di Lanegan, che firma 13 brani viaggiando tra sogno e incubo.
Welcome to the Cruel World
Ben Harper
Febbraio 1994
Uno degli esordi dell’anno è firmato da un artista destinato a durare (e a vendere). Non ancora star, Ben Harper è un venticinquenne di Pomona, California che suona un mix di folk, reggae, blues con uno stile chitarristico sobrio ma incisivo. Ottime canzoni cantate con voce passionale, all’insegna di una classicità originale e suggestiva.
Crooked Rain, Crooked Rain
Pavement
Febbraio 1994
Fare meglio di un esordio clamoroso come Slanted & Enchanted era impossibile. Eppure i fondatori Stephen Malkmus e Scott Kannberg, dato alla band un assetto più stabile grazie all’ingresso di Mark Ibold (basso), Bob Nastanovich (percussioni) e Gary Young (batteria), riescono a non far rimpiangere quella memorabile opera modificandone alcune coordinate e virando verso una “classicità” (con tutte le virgolette del caso) in cui pop e rumore convivono più che serenamente, grazie anche a canzoni dalla scrittura inattaccabile.
Dookie
Green Day
Febbraio 1994
Un percorso simile a quello dei Nirvana, ma in chiave pop-punk: esordi indipendenti con un’etichetta di casa (la Lookout! di Berkeley, California), firma per una major (la Reprise del gruppo Warner), maggiore cura dei suoni e botto commerciale, destinato a durare fino ai nostri giorni, con concerti tuttora sold out. Velocità, melodia, divertimento. Come già nei primi due album indipendenti della band e come in Welcome to Paradise, già presente su Kerplunk e qui riproposta in una nuova versione, perfetto paradigma del percorso appena descritto.
Vauxhall and I
Morrissey
Marzo 1994
Dopo il pasticciaccio brutto della Union Jack esibita in apertura del concerto dei Madness a Finsbury Park e le conseguenti accuse di flirtare con l’immaginario dei giovani britannici di destra, l’ex Smiths si riprende per l’ultima volta il ruolo di cantante più influente della sua generazione grazie a un disco di ottime canzoni che merita di stare sul podio di un’ipotetica gara tra i Morrissey solisti. Si parte con la meravigliosa Now My Heart Is Full e si compie un viaggio degno di un album degli Smiths, che in fondo hanno esordito solo dieci anni prima.
Mellow Gold
Beck
Marzo 1994
Sarebbe bastato un singolo clamoroso come Loser a fare di Beck uno dei nuovi musicisti più influenti del periodo. Ma i non pochi che pensavano a una possibile meteora si ricredono grazie a un’opera prima che attraversa la storia della musica americana dandone la propria versione, tra groove, psichedelia, rumore e accenni di classicità folk e rock-blues. Un altro esordiente (su major, questo è il terzo album) destinato a durare nel tempo, e a raccogliere glorie critiche e commerciali.
Superunknown
Soundgarden
Marzo 1994
La band di Seattle coniuga successo commerciale e lodi della critica con un album considerato da molti il migliore della sua storia (o subito dietro a Badmotorfinger), che debutta al numero uno delle classifiche americane (prima e unica volta per Chris Cornell e i suoi) con 300 mila copie vendute nella sola prima settimana. Led Zeppelin e psichedelia, Black Sabbath e new wave in un calderone ribollente di riff. Senza vergognarsi di dare la propria versione del pop grazie a Black Hole Sun, a conti fatti l’unica hit clamorosa del gruppo.
The Downward Spiral
Nine Inch Nails
Marzo 1994
Stabilitosi al 10050 di Cielo Drive, teatro del massacro compiuto 25 anni prima dagli adepti di Charles Manson, Trent Reznor trasforma la casa di Sharon Tate e Roman Polanski in studio di registrazione e factory per la sua one man band, confezionando un album il cui tema centrale è il disagio. Il disturbante matrimonio tra rock ed elettronica celebrato nel disco dà luogo a quello che viene considerato all’unanimità il capolavoro del musicista, che fa quasi tutto da solo pur ospitando session man di lusso come Adrian Belew e lasciando la cabina di regia a collaboratori di grido come Flood e Alan Moulder. Hurt, posta in chiusura di scaletta, verrà ripresa da Johnny Cash e trasformata in capolavoro e struggente canzone d’addio.
Ventun anni non ancora compiuti, Nasir Jones arriva dal Queens con un’opera prima che è insieme omaggio alla vecchia scuola hip hop e voglia di imporre il proprio stile, fatto di testi non banali e produzione affidata a maestri come Pete Rock e Q-Tip, proveniente dagli A Tribe Called Quest. Racconti di strada, grande scioltezza al microfono e suoni ricercati, un connubio che funziona e che il rapper non riuscirà più a ripetere con la stessa incisività.
Il disco che regala ai Blur il primo posto in classifica e lo status di superstar è, come il precedente, un compendio del meglio di 30 anni di musica pop britannica: dai Kinks ai Teardrop Explodes, dai Roxy Music agli Specials. Ispirato dal romanzo Territori londinesi di Martin Amis, Damon Albarn racconta di impiegati statali che amano vestirsi da donna (Tracy Jacks) e affida la voce narrante della title track a Phil Daniels, già protagonista di Quadrophenia, il film tratto dall’album degli Who in cui interpreta un giovane mod. Per cinque mesi la band non ha rivali sul suolo britannico, poi uscirà Definitely Maybe e inizieranno le baruffe.
Live Through This
Hole
Aprile 1994
Spesso citato per motivi extramusicali (Kurt Cobain si è tolto la vita una settimana prima della sua uscita, la bassista Kristen Pfaff morirà di overdose due mesi più tardi), il secondo album della band di Courtney Love è uno dei tanti dischi usciti nel 1994 che rappresentano l’apice creativo dei loro autori. Un disco rock reso pop da melodie che rendono indimenticabili pezzi come Miss World, con indubbie influenze grunge che alimentano una delle mille leggende nirvaniane, secondo cui Kurt Cobain sarebbe autore di parte dei brani. Album dell’anno per Spin davanti a Mellow Gold di Beck.
His ‘N’ Hers
Pulp
Aprile 1994
Dopo dieci anni abbondanti nelle retrovie indie britanniche, il gruppo di Sheffield pubblica un album difficile da ignorare e sale sul podio riservato alle band inglesi dell’anno assieme a Blur e Oasis. Grazie anche a un frontman solo all’apparenza improbabile come Jarvis Cocker, che mette in scena storie di gente comune conferendo glamour e teatralità a pezzi come Babies e Do You Remember the First Time?, destinati a diventare classici della prima ondata Brit pop.
American Recordings
Johnny Cash
Aprile 1994
Uno dei più clamorosi comeback della storia rock ha per protagonisti una leggenda del country considerata sul viale del tramonto e un produttore che sin lì si era dedicato a ben altri generi. Il trentenne Rick Rubin propone al sessantunenne Johnny Cash di registrare in casa un album voce e chitarra. In scaletta, pezzi autografi, cover come Bird On a Wire di Leonard Cohen e canzoni scritte appositamente per l’occasione come Thirteen, firmata da Glenn Danzig. Ne uscirà l’album dell’anno per l’edizione americana di Rolling Stone (davanti a Dookie dei Green Day) e il primo capitolo di una serie che, compresi quelli postumi, includerà altri cinque episodi in cui il Man in Black si cimenterà, spesso con risultati brillantissimi, in cover di musicisti (forse solo apparentemente) lontani dal suo immaginario, come Depeche Mode e Nine Inch Nails.
Aspetto da nerd e passione distribuita in egual misura tra chitarre e melodia, i quattro di Los Angeles esordiscono con un disco la cui parola chiave è divertimento. Rivers Cuomo e i suoi sono fra i non pochi alunni della classe del ’94 che non riusciranno mai più a riprodurre nei loro dischi la magia di quell’annus mirabilis, ma in compenso danno il via a una carriera che ancora oggi non si è interrotta. Significativa e programmatica la scelta di Ric Okasek dei Cars come produttore, e memorabile il video di Buddy Holly diretto da Spike Jonze, con la band che suona all’interno di Arnold’s il locale del telefilm Happy Days.
Ill Communication
Beastie Boys
Maggio 1994
Pubblicato su etichetta Grand Royal, da loro stessi fondata, il quarto album del trio di New York rappresenta un’ottima sintesi tra la voglia di divertimento dell’esordio Licensed to Ill, l’hip hop vecchia scuola di Paul’s Boutique e gli strumenti rock di Check Your Head. Il successo arride pienamente a un disco che va al numero uno negli Stati Uniti alternando un singolone come Sabotage alla psichedelia di Bodhisattva Wow, passando per l’ospitata di Q-Tip in Get It Together, secondo Mike D ispirata ai ripetuti ascolti di On the Corner di Miles Davis.
Music for the Jilted Generation
The Prodigy
Luglio 1994
Altro matrimonio di successo tra rock (quanto basta) ed elettronica (molta), la techno del gruppo inglese anticipa il successo solista di Fatboy Slim grazie a pezzi decisamente efficaci in pista e fuori come Voodoo People e Their Law. In quest’ultima si ascolta un riff di chitarra preso direttamente da Very Ape, uno dei pezzi di In Utero dei Nirvana, a confermare le influenze rock del gruppo, riscontrabili anche dal vivo osservando le movenze del frontman Keith Flint.
The Holy Bible
Manic Street Preachers
Agosto 1994
Dopo il rock tutto sommato classico dell’esordio Generation Terrorists e soprattutto del seguito Gold Againstrthe Soul, il quartetto gallese pubblica un disco più vicino al post punk, la sua iniziale fonte di ispirazione. Il suono è più spigoloso e meno pop rispetto ai precedenti, e molti dei pezzi risentono della crisi esistenziale, aggravata da episodi di autolesionismo, in cui è precipitato il chitarrista Richey Edwards, autore della maggior parte dei testi. Meno di un anno dopo l’uscita del disco, scomparirà nel nulla senza più dare notizie di sé.
Grace
Jeff Buckley
Agosto 1994
Forse la migliore opera prima in un anno di esordi memorabili, l’unico album in studio pubblicato in vita dal figlio di Tim (padre illustre e mai davvero conosciuto) è un capolavoro di sensibilità ed energia che fa genere a sé. Rock, folk, psichedelia e una voce indimenticabile, anche nei brani non autografi come Hallelujah di Leonard Cohen e Lilac Wine, che affianca in bellezza la versione di Nina Simone. Morirà a 30 anni non ancora compiuti, lasciando gli appassionati con questo unico album in studio, cui seguiranno gli inevitabili dischi postumi.
Dummy
Portishead
Agosto 1994
Assieme ai concittadini Massive Attack e Tricky (che esordirà in proprio l’anno successivo con Maxinquaye), la cantante Beth Gibbons, il chitarrista Adrian Utley e Geoff Barrow completano il triangolo d’oro del trip hop e ne definiscono lo stile. Più difficile è definire in poche righe l’incontro di dub, jazz, elettronica e soul utilizzato dai Portishead (assieme a campionamenti di Lalo Schifrin, Isaac Hayes, Weather Report e John Barry) per mettere in musica malinconia e insoddisfazione. Album dell’anno per il Melody Maker davanti a His ’n’ Hers dei Pulp.
Sleeps with Angels
Neil Young and Crazy Horse
Agosto 1994
Padre nobile del grunge che sta spegnendo i suoi iniziali furori, il musicista canadese omaggia Kurt Cobain sin dalla title track e prosegue nel suo nuovo periodo d’oro, in equilibrio tra ballate acustiche e introspettive e sfoghi elettrici che sembrano preludere alla collaborazione con i Pearl Jam, destinata a sfociare l’anno successivo nella pubblicazione di Mirror Ball.
Definitely Maybe
Oasis
Agosto 1994
«Arrivano i Sex Beatles» titola The Face, e trent’anni dopo siamo ancora qui a parlarne, e non poco, e a cercare invano biglietti per concerti in stadi lontani. I fratelli Gallagher le sparano grosse, ma nel loro esordio ci sono canzoni che restano e suoni e voci che arrivano diretti dalla grande tradizione pop britannica: da John Lennon a Johnny Rotten. “Stanotte sono una rock’n’roll star!” canta Liam nel pezzo che apre le danze. Promessa mantenuta nell’immediato e per i decenni a venire. Album dell’anno per il New Musical Express davanti a Parklife dei Blur.
Protection
Massive Attack
Settembre 1994
Pur senza l’effetto sorpresa dell’esordio Blue Lines, il collettivo di Bristol mescola nuovamente ritmi in levare e blues, hip hop e soul per definire quello che è ormai il suono di Bristol, ma anche quello di tanta musica a venire. Collettivo è la parola chiave, dato che 3D, Daddy G e Mushroom non sono soli nel loro viaggio: Tricky, Horace Andy e Tracey Thorn ci mettono le voci, Nellee Hooper la produzione di una notevolissima opera seconda.
Worst Case Scenario
dEUS
Settembre 1994
Tom Barman e i suoi mettono curiosità già sulla carta. Vengono dal Belgio e invertono maiuscole e minuscole nel loro nome per omaggiare i fIREHOSE. Poi stupiscono appena parte il loro album d’esordio, in cui si propongono come compagni di banco dei contemporanei Pavement grazie alla loro perizia nel togliere ogni possibile banalità da melodie memorabili, per sostituirla con echi Velvet, complessità zappiane ed estri tra Captain Beefheart e Tom Waits. Una vetta che la band di Anversa non riuscirà più a raggiungere.
Ready to Die
The Notorious B.I.G.
Settembre 1994
Pubblicato per la Bad Boy del suo mentore e produttore Sean Puffy Combs, l’album d’esordio del ventiduenne di Brooklyn è un racconto parzialmente autobiografico della sua precedente vita, con particolare riguardo ai suoi trascorsi da spacciatore, raccontati nella loro durezza e senza edulcorarne il disagio. Il tutto condito da un sottile senso dell’umorismo, nonostante si parli esplicitamente anche di suicidio, proprio nell’anno della morte di Kurt Cobain. Unico disco pubblicato in vita dal rapper, secondo l’edizione americana di Rolling Stone è il miglior album hip hop di tutti i tempi.
Monster
R.E.M.
Settembre 1994
Dopo il clamoroso uno-due commerciale e critico di Out of Time e Automatic for rhe People, il gruppo di Athens torna in scena con un album programmaticamente rumoroso, da portare anche su palchi disertati in occasione dell’uscita dei due precedenti dischi. Ci sono il noise di Let Me In, omaggio a Kurt Cobain, e il riff a tutto volume del primo singolo What’s the Frequency, Kenneth?, il glam di Crush With Eyeleiner, in cui suona anche Thurston Moore e che molti vogliono dedicata a Courtney Love, e il Michael Stipe in versione soul di Tongue. Ci sono soprattutto i R.E.M. elettrici, per i non pochi a cui erano mancati nei due pur ottimi album precedenti.
From the Cradle
Eric Clapton
Settembre 1994
Sedici pezzi blues riletti live in studio senza interventi successivi al momento delle registrazioni. Dai classicissimi Hoochie Cooochie Man e Motherless Child all’omaggio all’amico Freddie King di Someday After a While, Clapton dà il meglio alla chitarra, mentre la voce sembra risentire un po’ troppo del desiderio di imitare i modelli originali. Ma Slowhand riporta tutto a casa con piglio sicuro. Anzi, nella culla del titolo, citata in una breve poesia da lui stesso scritta e riportata nel libretto interno e poi mai messa in musica: “All along this path I tread / My heart betrays my weary head / with nothing but my love to save / from the cradle to the grave”.
Dog Man Star
Suede
Ottobre 1994
Meno immediato del precedente, il secondo album della band di Brett Anderson e Bernard Butler lo supera in ambizione e, se proprio si vuole trovargli un difetto, paga a tratti un’eccessiva magniloquenza. Ma la dedica a Marlon Brando di The Wild Ones, quella a James Dean di Daddy’s Speeding e l’inno New Generation fanno sorgere uno dei grandi what if della storia del rock inglese: cosa sarebbe successo se Bernard Butler non avesse lasciato la band al termine delle sedute di registrazione?
L’album d’esordio della band di Bakersfield è qualcosa che non si è mai ascoltato prima: dopo di loro si parlerà non a caso di nu metal. I quattro californiani portano l’hip hop nel metallo fin lì conosciuto e il cantante Jonathan Davis dà voce alla sua angoscia appoggiandola su chitarre alienate e su una sezione ritmica secca ed efficacissima. Disturbanti ma baciati dal successo, per tutto il resto degli anni ’90 saranno la band di riferimento del suono heavy.
Vitalogy
Pearl Jam
Novembre 1994
Il terzo album della band di Seattle arriva al termine di un anno duro, caratterizzato dalla battaglia contro il monopolio di Ticketmaster, dal dolore per la scomparsa di Kurt Cobain e dal licenziamento del batterista Dave Abbruzzese prima della fine delle registrazioni. È il disco intenso e vario, il loro più lontano dal classic rock, quasi un suicidio commerciale cercato a partire dal singolo punkeggiante Spin the Black Circle.