voto
7.0
- Band:
HORNDAL - Durata: 00:42:50
- Disponibile dal: 05/04/2024
- Etichetta:
- Prosthetic Records
Hanno una storia da raccontare i fratelli Hendrik e Pontus Levhan, ed è quella di Horndal, il piccolo paese (poco più di mille abitanti) nel sud-est della Svezia nel quale sono nati e cresciuti, e che cercano di difendere attraverso i loro dischi.
La band nasce infatti con l’intento di preservare la memoria storica di questa regione e denunciare le attenzioni non gradite di multinazionali interessate a sfruttarne i territori, come il mega-colosso delle telecomunicazioni Google, interessato a costruire edifici che ospitano i loro server (è questo il ‘concept’ che anima “Lake Drinker”, il secondo lavoro del gruppo, uscito nel 2021 sempre su Prosthetic Records).
Alla line-up si aggiungono l’ex Mörk Gryning Fredrik Boëthius Fjȁrem e Daniel Ekeroth, veterano della scena estrema (ex Usurpress, Tyrant, Dellamorte, Martyrdöd, tra gli altri) per un sound non immediatamente definibile, che mescola un death metal melodico con riverberi sludge, ruvidezza hardcore e accenni progressive, il tutto condito con un certo groove.
Ma andiamo con ordine: sul piano lirico il quartetto svedese sceglie di guardare al passato, recuperando le vicende di Alrik Andersson, un coraggioso operaio dell’acciaieria locale, fattosi portavoce – all’inizio del secolo scorso – della rabbia dei lavoratori, che protestavano per migliorare le dure condizioni di lavoro alle quale dovevano sottostare.
L’acciaieria era il fulcro vitale del distretto, dando di che vivere alla maggior parte delle famiglie di quell’area, e Andersson, detto appunto ‘Head Hammer Man’, ha sacrificato la sua vita in Svezia per difendere i diritti dei lavoratori, in una stagione caldissima di scioperi che l’ha visto diventare persona non grata allo Stato, costringendolo all’esilio negli Stati Uniti.
Si tratta – anche questa volta – di un vero e proprio concept album, con i rintocchi metallici di un martello a fare da filo conduttore tra i brani, che in ogni caso hanno ciascuno senso e compiutezza anche se presi individualmente.
Musicalmente il disco si muove su coordinate simili alle uscite precedenti, con uno stile che unisce elementi variegati in modo piuttosto convincente ed elegante, con una capacità di scrittura lodabile. I nomi di riferimento sono Black Tusk, High On Fire, gli Entombed del contestato periodo death’n’roll, At The Gates, The Haunted, ma anche i Mastodon dell’era di “Leviathan”.
Nell’insieme il disco è piuttosto vario, sia in virtù delle soluzioni proposte – spesso affatto scontate – sia per il mood espresso dalle canzoni: ne dà subito prova la title-track, il cui incedere minaccioso e tellurico acquista un’aura psichedelica, sottilmente minacciosa, che ritroveremo in “Exiled” e nella conclusiva “Creature Cages”. Di tutt’altro segno “Calling: Labor”, costruita su una melodia di chitarra che deve qualcosa al suono aperto e pulito degli Hällas: l’approccio alla scrittura degli svedesi è – come già detto – vicino al progressive, nonostante la lunghezza media dei brani si attesti intorno ai quattro minuti.
Gli Horndal tendono a mantenersi su tempi medi, evitando gli eccessi furiosi (il che è un po’ un peccato), con la sola eccezione di “Fuck The Scabs”, il brano più tirato del disco, e non disdegnano influenze marcatamente anni ‘70, vedi l’ottima “Blacklisted” o “Orange Legacy”, entrambe plumbee, dai riff taglienti e un accenni gotici di sabbathiana memoria.
Nonostante il livello delle composizioni non scenda mai sotto il cosiddetto livello di guardia, non tutte le composizioni risultano ugualmente memorabili, e pensiamo che l’eliminazione di un paio di ‘riempitivi’ avrebbe giovato alla tracklist. Altri criticità sono la produzione, che manca di pesantezza ed incisività, anche se ne apprezziamo l’aspetto lo-fi, e la voce di Henrik, che muovendosi tra abrasività sludgecore e (quasi) growl risulta spesso troppo monocorde rispetto ad una proposta così cangiante. Lo stesso fa molto meglio in veste di chitarrista, mentre la sezione ritmica svolge davvero un bel lavoro, in particolare il fratello Levhan, che regala un certo grado di varietà dietro le pelli.
In ogni caso questo “Head Hammer Man” merita la promozione e, se apprezzate gli ibridi sonori fangosi, a cavallo tra fuzz e melodia, l’ascolto è consigliato.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM