Un gigante alla cui ombra sono cresciuti molti virgulti della musica elettronica contemporanea, dagli anni 70 a oggi. Per quei virgulti, divenuti nel tempo alberi massicci, resta ancora imponente, nel paragone, la figura del teutonico titano Hans-Joachim Roedelius, compositore per Kluster, Cluster e Harmonia, il grande vecchio che, il prossimo ottobre, festeggerà 90 primavere, celebrando una vita trascorsa licenziando opere spesso segnalate dalla critica specializzata più autorevole come seminali, tra le più significative di un genere tuttora difficile da definire. Il merito è del gigante, del suo peculiare approccio a composizione e interpretazione, e dei suoi compagni di viaggio, gente consegnata alla leggenda come Dieter Moebius, Conrad Schitzler, Michael Rother dei Neu! e fino al britannico Brian Eno, recatosi in pellegrinaggio a Forst, nel 1976, per carpire la misteriosa alchimia di Roedelius e soci, poco prima di raggiungere David Bowie a Berlino e dare alla luce l’arcinoto “Heroes”.
Uomo di poche parole ma nette, pragmatico costruttore di architetture elettroacustiche ben rappresentate da una copiosa carriera solista, Hans-Joachim è uno dei tesori meglio custoditi nella musica di ricerca della seconda metà del Novecento e ancor oggi, nel nuovo millennio, resta alta la radicalità della sua estetica strumentale. Ascoltando i Cluster dell’album “Grosses Wasser” sotto Lsd, il cofondatore degli Orb Alex Paterson ebbe l’illuminazione per il conio di quell’ambient house che rivoluzionò il concetto di discoteca; David Bowie, John Foxx, Coil, Oval, sono decine i nomi altolocati che hanno dichiarato irresistibile il fascino delle musiche incise dai Cluster e dal genio di Roedelius.
Per riscoprirne la grandezza, oltre alla breve intervista a seguire, si consiglia d’investigare non tanto i titoli a catalogo che, da Rolling Stone a Pitchfork, si tramandano, sempre identici, per la goduria dei collezionisti, ma curiosare piuttosto nelle pieghe meno note, quali la fatica solista del ’79 “Jardin Au Fou”, il trittico di jazz ambientale realizzato negli anni 90 coi nostri Fabio Capanni e Nicola Alesini a nome Aquarello, o la serie “Selbstportrait”, bignami di un’estetica elettronica tanto cerebrale quanto emozionante.
Hans-Joachim, il tuo primo approccio con le arti non è avvenuto attraverso la musica ma la recitazione, da ragazzino.
Non ero neppure un ragazzino, è accaduto tra i 3 e i 5 anni, senza alcun tipo di formazione, ovviamente. È solo una delle cose che sono accadute nel mio percorso verso l’età adulta.
Eri troppo piccolo per ricavarne una qualche lezione di vita?
No. Mi hanno portato alla rivelazione che, di lì in avanti, avrei potuto ottenere qualsiasi cosa, a patto di averla desiderata con tutto me stesso e di risiedere nel momento presente.
Ieri riascoltavo uno degli album della serie “Selbstportrait”. Azzarderesti un tuo autoritratto, ma con le parole?
La musica va più che bene per raccontarmi, e proprio quella serie di autoritratti si attesta come un vero e proprio diario della mia vita nella quotidianità. Sono precise dichiarazioni del mio stato psichico, in vari periodi dell’esistenza.
Tra le tue tante avventure, se non erro, ce n’è una in Nord Africa nei tardi Sixties; tuoi compagni di viaggio, personaggi che di lì a poco avrebbero fondato Ash Ra Tempel e Tangerine Dream.
In realtà andò così: il nostro gruppo, composto da ragazzi che facevano parte del mio collettivo artistico “Human Being”, appena arrivato in Africa si separò. La separazione avvenne in un parcheggio, a Casablanca; io e la mia ragazza volammo verso la Corsica, che è il mio secondo paese d’origine, restammo lì per un po’ e poi via verso Londra; pernottammo un po’ a casa di una famiglia di colore, vicino al Crystal Palace, dopodiché tornammo a Berlino. Nella capitale britannica volevo tentare di creare una collaborazione tra noi dello Human Being e l’Ica-Arts Lab.
Un concerto che ti ha fatto capire l’importanza di aver fondato lo storico locale Zodiak Free Arts Lab?
L’epoca dello Zodiak è stata per me una sorta di ininterrotta performance, sia in ambito solista che con altri gruppi. La giudico perciò indimenticabile in toto, poiché fu il primo punto di incontro della scena artistica free di Berlino.
Certi compositori ambient licenziano una media di 3-4 album all’anno: scarsa attenzione per la composizione o eccessiva fiducia nelle proprie capacità improvvisative?
Non lo so e non mi importa degli altri. Quello che so è che il mio modo di lavorare richiede di essere aperti e disponibili a ricevere quel qualcosa di indefinibile in ogni momento, bisogna lasciare che quel qualcosa arrivi spontaneamente. Che ciò mi accada una sola volta nello stesso anno o più volte è irrilevante, fintanto che abbia la certezza che si tratti di musica significativa per me e, conseguentemente, per i miei ascoltatori.
Qual era la tua preparazione pianistica ai tempi dei Kluster?
Ancor oggi mi ritengo un musicista e un compositore autodidatta, perciò il mio unico insegnante è stato il pianoforte stesso.
Conny Plank: quali sono le ragioni che ne fanno uno dei tecnici del suono più importanti nella storia della musica popolare?
Era nato per essere un artista. Ci siamo conosciuti nel 1970, ai tempi dei Kluster, quando abbiamo inciso a Colonia le session confluite negli album “Klopfzeichen” e “Zwei Osterei”. Lui aveva intuito, prima degli altri, la fondamentale importanza di instaurare un solido rapporto di comunicazione tra compositore e tecnico del suono. Era anche un musicista: suonava la tromba.
Il suo contributo al tuo esordio solista, l’ottimo “Durch Die Wüste”?
Quando l’abbiamo registrato, vivevo in casa sua, eravamo diventati ottimi amici. Ma “Durch Die Wüste” è il frutto delle mie capacità compositive e del mio talento di musicista all’epoca; Conny ha fatto comunque un ottimo lavoro sul suono, e ci ha suonato anche qualcosa, anche se adesso non ricordo esattamente di cosa si trattasse. Qualcosa di ritmico, suppongo.
Di Moebius, cos’hai ammirato maggiormente?
Dal mio punto di vista lui è stato, tra quelli che ho conosciuto, il primo tizio punk nell’ambito della musica contemporanea. Affascinante, onesto, sempre autentico. E sono felice che la sua caratura artistica oggi sia riconosciuta a livello globale. Non ci sarà mai, a questo mondo, un altro “Moebi”.
Cosa ti manca maggiormente di lui?
Guarda, aveva una grande personalità ma, al contempo, era una persona modesta, amichevole e comprensiva, spiritosa in maniera anche un po’ sarcastica, se vuoi. Ho sempre trovato molto facile lavorare e anche, per un certo periodo, vivere, insieme a lui. Mi dispiace molto che abbia dovuto lasciare il pianeta Terra così presto. Bye bye, caro Moebi… presto ci rivedremo, dall’altra parte dell’esistenza.
La tua musa è attraversata da una profonda spiritualità, nella quale non scorgo l’appartenenza a un credo specifico.
E invece io credo in Gesù Cristo, il mio Signore; egli mi guida, fornendomi i giusti consigli per comportarmi a dovere.
Delle strategie musicali di Brian Eno che pensi?
Brian è una personalità assolutamente fuori dal comune nella storia della musica e dell’arte, non solo della contemporaneità. La cosa più sorprendente per me è stata/è come sia in grado di usare lo studio di registrazione al pari di uno strumento musicale. Il suo genio è fuori discussione. Ma è anche un buon amico, mio e di tutti i membri della mia famiglia, un’influenza ancora molto significativa sotto vari punti di vista. Nel corso degli anni si è speso in tante dichiarazioni riguardo il mio lavoro e ha anche scritto il prologo per la mia autobiografia, “The Book – The Autobiography Of Hans-Joachim Roedelius”.
Hai co-firmato uno dei brani più celebri di Eno, “By This River”. Dì la verità: è nato tutto dal tuo piano?
Sì. La mia linea melodica al pianoforte è stata alla base di tutto il resto.
Come giudichi, oggi, l’attitudine sonora dei Kluster?
All’epoca era ciò che potrei definire “azionismo viennese in musica”, nient’altro, il primo passo verso quello che in seguito è divenuto l’ambient di matrice tedesca. Oggi, quando riascolto quelle registrazioni, mi rendo conto della loro rilevanza nella storia della musica.
Nel 1971, tu e Moebius diventate un duo, ribattezzandovi Cluster; da “Cluster ’71” a “Zuckerzeit” passano solo quattro anni ma nel frattempo avvengono significativi cambiamenti stilistici come, a esempio, un diverso approccio nell’impiego del rumore.
Non c’erano strategie pregresse. Catturavamo soltanto le impressioni più autentiche, certi istanti, le atmosfere, le suggestioni ambientali. Ma forse c’è dell’altro. C’è da menzionare lo spirito che guida l’attività di ogni artista e c’è anche il fatto che, al tempo, si stava affrontando tutti un cambiamento generale, passando dall’era dei Pesci a quella dell’Acquario.
Kluster o Cluster che foste, non è roba in sintonia con la kosmische musik dell’epoca.
La musica dei Kluster era, in virtù del peculiare approccio compositivo di Conrad Schnitzler, totalmente diversa da quello che ci circondava al tempo e, quindi, non facile da digerire per il pubblico. Moebius e io abbiamo trovato il nostro linguaggio tonale a seguito di quell’esperienza; ad accomunare entrambi, l’assoluta connessione con l’attimo presente. Conrad… anche lui era un tizio formidabile. Che riposi in pace.
La stampa specializzata considera “Zuckerzeit” e “Sowiesoso” le vostre pietre miliari. “Grosser Wasser”, a mio avviso, va ancora oltre, ma non viene menzionato spesso.
“Grosser Wasser” ha avuto Peter Baumann come co-produttore, una personalità con modalità di produzione artistica ben differenti rispetto alle persone che l’avevano preceduto. Un fatto, questo, che, ovviamente, ha lasciato il segno.
Cos’hai odiato della Germania nei Seventies?
Non penso di aver mai odiato nulla della Germania, al tempo, ma ti confesso che sono felice del fatto che la storia d’amore con la mia attuale moglie mi abbia portato a trasferirmi in Austria; qui si parla comunque il tedesco, ma percepisco un diverso clima emozionale. Forse sarà perché gli austriaci, a differenza dei tedeschi, non vanno matti per birra e schnaps: loro preferiscono il buon vino.
Ultimo album dei Kraftwerk ad averti impressionato?
I Kraftwerk non mi hanno mai impressionato. Sembravano musica composta da automi per automi, e non sono affatto attirato da quel genere di impostazione. Ecco, posso dirti che, quando vivevo a Düsseldorf, ero amico della sorella di Florian Schneider, Claudia, quindi conoscevo bene anche Florian e Ralf Hütter.
Niente Kraftwerk, sta bene. Ma ci saranno delle band o dei musicisti tedeschi della tua generazione che hai stimato…
Ma sì, di sicuro. Mi piacevano i Can, i Kraan, Manuel (Gottsching, compositore e chitarrista degli Ash Ra Tempel, ndr) come pure Michael Hoenig degli Agitation Free e gli Amon Düül. Ecco, di per contro, non impazzivo per Klaus Schulze né per i Tangerine Dream, forse perché non sono un appassionato di sequenziatori.
Tra le tue molte collaborazioni nel nuovo millennio, le più significative?
Mi piace soprattutto il materiale inciso con Tim Story, poi Tempus Transit-Treffpunkt Wien (un ensemble di musica acustica per cinque elementi, con pianoforte, clarinetto, caramuse, basso e violino), gli album “King Of Hearts” con Christopher James Chaplin, “Imagori I & II” con Christoph H. Mueller e tutto quello che ho fatto con Onnen Bock per l’etichetta amburghese Bureau B. Roba assai eterogenea, sia per ingredienti che per “temperatura”.
Il tuo più grande desiderio per il futuro?
Non saprei. Sono una persona molto privilegiata, che può permettersi di fare esattamente quel che gli pare senza che nessuno ci metta mai il becco.
Tra le tue incursioni artistiche meno note ma più significative c’è quella con il collettivo di teatro danza Treffpunkt, che hai co-fondato a Vienna.
Treffpunkt (conosciuto anche come Meeting Point Vienna) è stato quell’avvenimento speciale accaduto dopo l’incontro di un determinato gruppo di persone. Io sono stato coinvolto in una serie di progetti, tra i quali cito con piacere lo spettacolo in tre parti “Wir Sind Machines/ We Are Machines” il quale, musicalmente, incrocia il brutale modernismo del kraut-rock con una stravagante elettronica, il folk, il jazz e ci inserisce persino voci tipiche della tradizione classica. La storia è una sorta di road trip che inizia con la nascita del nuovo rock tedesco nei tardi anni 60 e termina ai giorni dell’intelligenza artificiale.
Arnold Schoenberg: “Se è arte non è per tutti, se è per tutti non è arte”.
Una sentenza particolarmente ermetica. Comunque non sarei così categorico.
Quali sono i meriti dei Cluster nell’ambito della ridefinizione dell’elettronica moderna?
Come Cluster, abbiamo contribuito a rifinire il genere, non l’abbiamo ridefinito. La nostra discografia è, in generale, molto più diversificata rispetto a quella della maggior parte degli altri gruppi, aperta in tante direzioni diverse tra loro ma la cosa sostanziale è che ancor oggi non è emerso nessun altro artista o gruppo che abbia adottato un modus operandi come il nostro.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Essere in grado di dare vita a qualcosa che per me ha una profonda importanza in relazione al panorama della musica elettronica contemporanea, ma non solo quella, come dimostrano le mie incursioni nell’ambito della scrittura, della poesia o di progetti assai complessi, quale il già citato “We Are Machines”.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM