Questa è la storia di un’ossessione. È la storia di un mondo parallelo non proprio così dissimile dal nostro, e nello specifico del Vessel, la sua grande capitale culturale, teatro d’azione nel quale si muove la protagonista, Faith. È la storia di una distopia studiata nei minimi dettagli, talmente plausibile e ben congegnata da finire col sovrapporsi con la realtà del suo ideatore, una New York tentacolare e ricolma di malinconia. Prontamente nominato “Faith And The Vessel”, il sesto album del producer è una nuova febbricitante immersione nel footwork più eversivo, dotato però di una compattezza centrata grazie all’articolato intarsio narrativo, e all’uso di un vocabolario produttivo che oltre al footwork e alla jungle novantiana (già protagonista di “Dawn Of The Final Hour”) guarda agli albori della dubstep e alle sue diramazioni “purple”. Geometrico e denso di una cupa allure metropolitana, l’album poggia su un sottile confine tra percezione e allucinazione che ne rende la narrazione ancor più vivida.
Più che una ridefinizione, quanto offerto dall’album è un perfezionamento, il potenziamento emotivo/narrativo di un suono che, attraverso la coesione di un concept, individua una nuova coesione interna. Col santino di Machinedrum altezza “Vapor City” fieramente esposto sul cruscotto, Kinoteki dà il via al suo racconto ponendosi ancora una volta al crocevia tra generi e tendenze, presentando un linguaggio articolato, in cui la voce umana, quando presente, appare come filtrata, sepolta in un sogno. Un po’ allucinazione, un po’ lucida possibilità, la storia di Faith si muove tra folle determinazione e un inesorabile senso di disfatta, desiderio di evasione e un’ineludibile sorveglianza. Nei contrasti di una New York ribaltata a scoprire il proprio negativo, Kinoteki non asseconda i propri istinti più gotici, piuttosto ribadisce la frenesia di una corsa destinata allo schianto, di tratteggi ritmici che diano spazio al furore, alla mania, alla disperazione.
Sogni di un’evasione pronta a concretizzarsi traggono spunto dalla storia della Metalheadz stemperandone la foga in una malinconia colma di presagi (i sinistri accenti future-garage di “Nosebleed”). Se la fuga effettiva è una corsa a perdifiato non priva di ovvi intoppi e cambi di percorso (gli stacchi juke che alimentano la frenesia di “The Jungle”). Quando sopraggiunge la fatica, il desiderio di lotta scova ancora qualche stilla di energia, ma la furia adrenalinica dei capitoli precedenti si è già esaurita, dando spazio a un monologo interiore pregno di abbattimento (“Struggle”); notare che la resistenza è vana, che tutto è stato già divorato dalla desolazione, non può che condurre alla resa (la lucida follia di “Bystander”, tinta da una velocità che non va da nessuna parte).
Restano i cocci di una storia già scritta sul nascere, gli echi di un coraggio vano, laccato di apoteosi postuma (il cuore pulsante di “Foreverfaith”, Travis Stewart appena increspato da sponde a Roni Size), di una fede che si fa quiete, incapace di modificare alcunché (la sospesa conclusione jungle, affidata a “Faith’s Theme”). Resta soprattutto la forza di un producer che, uscita dopo uscita, cementa la caratura del proprio linguaggio, contrassegnandone il carattere e la versatilità anche alla prova di una straziante opera elettronica. Ossessivo e allo stesso tempo elastico, Kinoteki è un’incontestabile realtà.
13/02/2024
Daniel D`Amico for SANREMO.FM