Il debutto ufficiale di Ethan P. Flynn è un altro segnale di estrema vitalità del fronte cantautorale inglese, troppo spesso ridotto in algidi cliché. Gli stessi che il musicista londinese evita con una serie di argute ed eclettiche composizioni che danno un senso alle stravaganze di una precedente raccolta, intitolata ironicamente “B-Sides & Rarities: Vol. 1”, che già ne metteva in luce lo stile più vicino alle creazioni di Tom Waits o di Mark Linkous (Sparklehorse).
Se a questo punto la vostra curiosità non è stata ancora sufficientemente stimolata, scorriamo insieme il curriculum di Ethan, che ha collaborato con David Byrne (all’epoca era appena diciottenne), i Jockstrap e Fka Twigs, e per un attimo è stato indicato come probabile sostituto di Isaac Wood nei Black Country, New Road. La giovane età, 24 anni, e la natura sempre più fluida delle passioni tipica di alcuni dei nuovi cantautori, conferiscono a Ethan P. Flynn ulteriori spunti di curiosità. Lou Reed, David Bowie ma anche Randy Newman, Harry Nillson e Neil Hannon sono stati citati dallo stesso come ispirazione.
Con questi alterni riferimenti è però difficile immaginare il contenuto sonoro di “Abandon All Hope”. In verità, Ethan condivide con questi artisti quel senso di frustrazione e di disagio che i poeti colgono nell’essere alieni alla realtà contingente, ma la sua struggente malinconia non ha nulla in comune con le apocalittiche visioni di Daniel Blumberg, l’isolamento emotivo di Keaton Henson, o il nichilismo di Mark Linkous.
Quello che emerge è un grottesco romanticismo che trasforma armonie folk-pop in svogliatezze alla Van Dyke Parks meets Harry Nilsson (“In Silence”). Eccentrico e dolente, l’album di Ethan P. Flynn rispecchia in pieno il proprio titolo: nonostante l’apparente goliardia e lo sprint offerto da un riff tipicamente rock’n’roll con sezione fiati al seguito, anche la title track è avvolta nel caos e nel dramma. Non è dunque un caso che il cantautore abbia escluso dal disco il singolo che ha anticipato l’album “Used To It”, ritenuta troppo positiva per far parte di quello che alla fine è un concept album sulla vulnerabilità, sulla paura e forse sulla speranza.
C’è un’inattesa consapevolezza sia artistica che emotiva che anima “Abandon All Hope”. Ethan P Flynn crea un puzzle in cui si alternano slanci lirici e apparentemente più lineari a intrecci al limite della dissonanza. Ai primi è concessa una giostra di suoni di archi, ottoni, delizie acustiche e la voce flautata della compagna del musicista Ava Gore (“No Shadow”, “Leaving The Boys Behind”), ai restanti è affidata la discesa nell’oscurità, prima con i sedici minuti abbondanti di “Crude Oil” (una piccola suite costruita su frammenti orchestrali, armonie folk-pop, testi verbosi e grevi cantati con insana stravaganza ed un cospicuo nugolo di idee), in seguito con la straziante ballata alla Bill Callahan “Demolition”.
Tra i riferimenti sopra citati, alla fine prevalgono l’ironia e la padronanza orchestrale di Randy Newman e il disincanto malinconico di Harry Nilsson. L’autore assesta anche un deciso riferimento a John Grant in “Clutcing Your Pearls”, e getta nel mezzo perfino un pizzico di britpop in “Bad Weather”, ma su tutte aleggia quella sensazione di desolazione e smarrimento che è ben radicata nei testi, dove la fanno da padrone argomenti come morte, isolamento, tradimento e colpa.
Non c’è dubbio che l’esordio di Ethan P. Flynn non sia uno degli ascolti più confortevoli e appaganti, ma è straordinario che un musicista comunque giovane possieda una visione così lucida dell’animo umano da strappare nell’ascoltatore un po’ di rabbia e qualche amara lacrima.
22/11/2023
Antonio Santini for SANREMO.FM