C’era una cosa che Elton John voleva per il nuovo album. Aveva appena chiuso un grande tour mondiale d’addio basato su 50 e passa anni di successi, era bello carico e voleva che il disco avesse quell’energia. Riuscire a far fluire la creatività si è invece rivelato l’ostacolo più grande mai affrontato in studio di registrazione. Era sotto pressione su più fronti. L’album era in collaborazione con un’altra artista, un’amica che in 20 anni di frequentazione era diventata una di famiglia e che era cresciuta idolatrando Elton. La posta in gioco era alta, sia a livello professionale che personale.
L’amica è la cantautrice americana Brandi Carlile, che negli Stati Uniti è amatissima e ha vinto 11 Grammy. Elton non la voleva solo in una o due canzoni, doveva partecipare all’intero progetto. «Non volevo che cantassimo un verso io e uno lei, doveva essere un disco di duetti», spiega Elton. Aggiunge Carlile: «Abbiamo ridotto al minimo le ballad quando lui ha detto: “Tutti si aspettano che uniamo le forze per fare delle power ballad e invece faremo delle canzoni allegre, positive, edificanti”. Ho pensato che fosse un’idea fantastica».

Foto: Peggy Sirota per Rolling Stone UK
A collaborare con loro c’erano Bernie Taupin, storico co-autore di John, e il produttore Andrew Watt, che ha lavorato alla versione di Hold Me Closer con Britney Spears e alle Lockdown Sessions di Elton. In pratica c’erano tutti gli ingredienti necessari per una session di successo. La sfida: fare canzoni a sufficienza per riempire un album in 20 giorni. Data la caratura dei due, avrebbe dovuto essere una passeggiata, ma fare arte non è sempre facile come sembra, persino per Elton John che dopo il tour si è ritrovato, anche a causa di vari problemi di salute (tra cui l’impianto di una protesi all’anca), a sbattere contro un muro.
«A essere sincero, ho avuto un calo di adrenalina prima dell’inizio dei lavori per l’album», dice quando ci incontriamo ai Metropolis Studios, a ovest di Londra, in un freddo pomeriggio di febbraio. «Non mi sentivo granché bene e siamo entrati in studio senza alcunché di pronto. I primi due o tre giorni sono stati difficili. Ero decisamente scoraggiato». Era sul punto di scoppiare per via della frustrazione. «Ero pieno di dubbi sul mio conto e, in quei primi giorni, abbiamo scritto due o tre cose. Ma l’album è decollato veramente solo dopo il mio crollo nervoso». Che significa, nel tipico stile di Elton, fogli coi testi fatti a pezzi, iPad distrutti, imprecazioni.
Del resto Elton non si è mai tirato indietro quando si è trattato di spingersi fino al punto di rottura per creare qualcosa di nuovo, di migliore. «Una volta fugati i dubbi su di me, Brandi ha scritto una canzone intitolata A Little Light proprio il giorno in cui Israele ha invaso Gaza. Brandi era nel suo alloggio, accanto al mio, io avevo tutti i giornali sul tavolo e mi chiedevo: perché siamo qui a fare un disco mentre succede questo? Sembra da insensibili stare chiusi lì dentro a registrare». Lei invcece ha detto che dovevamo cogliere il lato positivo, che noi musicisti dobbiamo unire il mondo, che quello è il nostro scopo. È uscita e ha scritto questo testo che parla di positività dando una bella svolta all’album».
Il progetto ha iniziato a prendere forma e sono venute fuori nuove canzoni. In quei 20 giorni, i quattro si sono immersi nella musica, spingendosi con le idee e l’immaginazione in territori che Elton non si aspettava di battere. «Non avevo mai seguito un procedimento del genere e mi spaventava. Avevo paura. È sempre bene avere paura, ma io ne avevo tanta», dice tenendo le mani ben strette. «Comunque dopo un inizio in salita è andato tutto bene e alla fine la tensione e l’agitazione hanno contribuito a rendere più frizzante l’album».
Alla fine delle registrazioni, i quattro avevano in mano 14 canzoni, 10 delle quali sono finite in Who Believes in Angels?. «Eravamo felicissimi», esclama Elton. «È un disco tosto, fresco, pieno di energia. È proprio come volevo che fosse, è venuto esattamente come l’avevo immaginato».
Elton lo considera uno dei suoi dischi migliori dai tempi di Captain Fantastic and the Brown Dirt Cowboy. I pezzi sono un bel viaggio nel sound di Elton John, che strizza l’occhio ai suoi successi e alla sua discografia, però senza mai dare l’impressione di fare musica già sentita. Le 10 canzoni spaziano dalle melodie psichedeliche di The Rose of Laura Nyro alla ballad intimista per pianoforte messa in chiusura, When This World Is Done with Me. Il vecchio incontra il nuovo in un affettuoso ricordo del passato che abbraccia il presente. È la degna chiusura di una carriera straordinaria. «Non volevo incidere un disco che avevo già fatto», dice Elton. «Abbiamo registrato un pezzo al giorno, molti al primo tentativo».
Il passato ha costituito la base delle nuove canzoni. «Con Elton siamo partiti da chiari riferimenti agli anni ’90, ai ’70 e persino agli ’80», dice Carlile a proposito del processo di composizione. «Era anche nei programmi di Andrew, voleva che ci fossero dei momenti in cui, all’improvviso, pensi: “Ma questa è Pinball Wizard?”». Per creare la giusta atmosfera, Watt ha preso in prestito la batteria utilizzata nell’album Goodbye Yellow Brick Road del 1973, che l’attore Ben Stiller aveva acquistato all’asta. Poi ha appeso alle pareti una copia del disco di Elton 17-11-70, che contiene la registrazione dal vivo di una trasmissione radiofonica del 1970, e poster di Laura Nyro e Joni Mitchell. «Abbiano rievocato momenti di varie epoche. È stato difficile ed eccitante», spiega Carlile, entusiasta del calderone creativo che stava ribollendo. «Andrew li ha inseriti nel quadro globale senza mai farla sembrare un’operazione nostalgica».
Carlile ha scoperto la musica di Elton da teenager, ai tempi di Made in England, The Big Picture e della colonna sonora del Re Leone. Una decina d’anni dopo, quando ha iniziato a pubblicare musica, gli ha scritto una lettera che ha attirato l’attenzione della superstar. Gli chiedeva di partecipare a un suo album, una mossa audace che ha portato al duetto Caroline, nel suo terzo disco. Il loro rapporto si è consolidato rapidamente e, quando Carlile si è sposata e ha avuto dei figli con la moglie Catherine, è nata una vera e propria amicizia. Il legame si è ulteriormente rafforzato quando Elton e il marito David Furnish hanno avuto i loro figli e ora le due famiglie trascorrono sempre le vacanze insieme.

Foto: Ben Gibson per Rolling Stone UK
Durante le session per Who Believes in Angels? sono state piazzate nove telecamere in studio. In una delle tante riprese è immortalato un momento comico in cui Elton fa una pausa e si rivolge a Carlile, Watt e Taupin per chiedere un parere sul suo modo di suonare: «È troppo alla Re Leone?».
In un album che rende omaggio al passato di Elton, è stato difficile non cadere nell’autocitazione? «Per lui? Lui non si guarda mai indietro», dice Carlile. «Lui va solo avanti, avanti, avanti, e molto velocemente. È sempre molto deciso, molto sicuro».
«Bisogna poi considerare che abbiamo lavorato con una band di musicisti con cui non avevamo mai suonato», osserva Elton, che ha reclutato il batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith, Pino Palladino al basso e il tastierista e chitarrista Josh Klinghoffer. Carlile e John si sono piazzati in una sala a scrivere e registrare, gli altri nello studio accanto. «La band lavorava freneticamente agli arrangiamenti nella sala B, mentre noi scrivevamo», ricorda Carlile, «così quando arrivavano sapevano già tutto perché avevano visto nascere i pezzi. È stato un processo spontaneo e consapevole, credo che sia una cosa molto bella, e nel disco si sente».

Foto: Ben Gibson per Rolling Stone UK
La prima canzone che hanno registrato e che ha catturato quell’energia è Little Richard’s Bible, una cavalcata scatenata dedicata al rocker che ha avuto un rapporto difficile con la propria sessualità, prima dicendo di essere attratto dagli uomini per poi ritrattare dichiarando di non essere più gay.
Parlando di come ha ottenuto il ritmo pazzesco del brano, Elton dice che si è semplicemente ispirato a Little Richard. «Era il mio idolo, mi ha influenzato tantissimo. E devo dire che l’ho scritto velocemente. Poi l’ho inciso con Chad che suonava solo un charleston e ho fatto subito la parte di pianoforte. Ho martellato la tastiera, cazzo, e la band ci ha suonato sopra. È stata una goduria».
«Elton era teso», dice Carlile, ricordando quel giorno in studio. Le cose non stavano andando bene ed Elton era… be’, era Elton. «Quando è arrivato il momento di suonare la canzone, ha distrutto il pianoforte… ci batteva sopra, il vetro tremava. È stato incredibile. Mentre faceva quegli assolo, non riuscivo a credere quanto fosse forte e vitale…».
«Una sola take di pianoforte», interviene Elton, entusiasta. «Mi sono divertito un sacco a suonarla. Non so: è stato come se Little Richard mi stesse possedendo o qualcosa del genere».
La canzone è stata concepita da Watt che l’ha proposta a Taupin. Carlile descrive il produttore come «un tipo etero, molto etero». Watt era elettrizzato al pensiero che Little Richard fosse l’eroe di Elton e che Elton fosse l’eroe di Carlile. «Ha ragionato sull’evoluzione della storia queer», dice Carlile, «su come Little Richard non sia mai riuscito veramente ad accettare la sua queerness, o su come l’ha fatto per poi ricadere vittima del dogma religioso».
Il brano di apertura, The Rose of Laura Nyro, è invece un’epopea di sei minuti e mezzo che si apre con due minuti di trip delirante di synth acido, per poi arrivare a un finale monumentale. È un omaggio alla cantautrice Laura Nyro (morta nel 1997, a 49 anni), un’altra artista queer la cui musica affascina Elton. Carlile racconta del giorno in cui hanno lavorato al brano: «Ho iniziato a leggere di Laura dopo che Elton me l’ha fatta conoscere. Così, mentre mi documentavo su di lei, mi sono detta: porca miseria, oggi è il suo compleanno!».
«Anche Little Richard è stata mixata nel giorno del suo compleanno», aggiunge Elton. Carlile sorride. «È stata la prima canzone del disco che abbiamo finito. A quel punto mi sono detta: vado a leggermi ancora qualcosa su Little Richard. E me ne sono accorta: oh mio Dio, è il suo compleanno! Cose del genere sono continuate a succedere per tutto l’arco della lavorazione del disco».
Nella title track Who Believes in Angels? tocca a Carlile rendere omaggio al suo idolo. «Lì ho descritto l’esperienza di stare in studio con Elton e la nostra amicizia. Che è cresciuta, durante quelle session, perché nessuno dei due era al 100% e dovevamo aiutarci a vicenda. È così che si diventa veri amici e si crea un clima famigliare».
In passato avevano collaborato registrando separatamente, quindi la scommessa di passare 20 giorni chiusi in uno studio, una con la sua icona e l’altro con una grande amica, avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un disastro. «Mio Dio, lei sa quello che vuole e mi piace che non abbia dubbi su nulla», dice Elton. Mentre parlano il loro legame è evidente, così come la stima di Elton per Carlile. «Alcuni artisti non sono sicuri di questo e di quello, Brandi invece sa esattamente ciò che vuole e lotta per ottenerlo. E anch’io so quel che voglio e mi batto per averlo. Andiamo d’accordo perché lei ha sempre ragione. Ha un intuito straordinario. E dal punto di vista musicale è incredibilmente brava».
«Tutti dicono che Elton aiuta gli artisti più giovani. Lo fa, ma non a prescindere. Ci dice se dobbiamo migliorare ed è sempre onesto. Se dai un disco a Elton, non ottieni una risposta entusiasta, ma una molto articolata da un maestro», dice Carlile, prima di spiegare che il suo idolo l’ha spinta a esplorare nuove strade. «Elton mi ha comprato una chitarra elettrica, è stato il suo modo di dirmi: “Adesso basta con la musica folk. Devi andare oltre”. È stata una masterclass, come essere a scuola».
«Lei mi piace tantissimo e non solo come persona: adoro quel che c’è dentro di lei a livello musicale e creativo», dice Elton, puntando il dito per enfatizzare il messaggio. «E non è ancora sbocciato del tutto. Credo che stia iniziando a farlo, ma c’è ancora tanto lavoro da fare. Al momento è come un embrione, e ha fatto moltissimo per essere un embrione, ma sta per esplodere». Per fotografare la situazione, racconta che nel 2019 Carlile ha suonato tutto l’album Blue di Joni Mitchell in uno show sold out alla Disney Concert Hall di Los Angeles. «Se l’è cavata egregiamente. Lei non ha paura. Non ha paura di quello che può fare».

Foto: Ben Gibson per Rolling Stone UK
Carlile racconta era comunque preoccupata all’idea di entrare in studio col suo eroe. «Avevo paura di lavorare con te», confessa rivolgendosi a Elton. «Avevo paura di non riuscire a stare al passo con te, che sei molto veloce. Temevo che il lavoro di tutta la mia vita per coltivare questo stile di scrittura dei testi, che è molto influenzato da Bernie, potesse essere vanificato perché magari tu non riuscivi a scrivere partendo dalle mie parole o i miei testi non ti ispiravano». Ancora più impegnativo è stato il fatto di dovere affrontare le sue paure e partire da zero in studio con Elton, visto che lui non ha voluto lavorare in anticipo su nessuna idea. «Sono entrata lì dentro in preda a una crisi esistenziale. E anche lui. La mia, però, era meno eclatante della sua», dice sorridendo.
Cosa sarebbe successo se il lavoro non avesse dato i frutti sperati? «Se non avesse funzionato?». Elton sembra perplesso al pensiero, prima di rispondere: «Sapevo che avrebbe funzionato». Il piano B di Carlile? «Tornare a scuola e lavorare su un peschereccio», dice scherzando.
Elton è convintissimo: ancora prima di entrare in studio, avevano in tasca il risultato. «È una soddisfazione incredibile e poi abbiamo fatto in fretta, tre settimane non sono niente. La maggior parte delle persone impiega tre settimane per fare una sola cazzo di canzone. Noi ne abbiamo fatte 14».
L’album viene pubblicato ad aprile per caso. Doveva uscire l’estate scorsa, poi un’infezione all’occhio di Elton ha mandato all’aria i piani. In quest’anno all’insegna dell’incertezza, Who Believes in Angels? è un inno straordinario all’ottimismo, un tributo solare ed entusiasta alla speranza di Elton per un mondo migliore. Nel terzo singolo Swing from the Fences, per esempio, i due invitano i figli a sognare in grande e a puntare in alto su un ritmo e una melodia contagiosi, pieni di gioia. È la canzone che ogni genitore dovrebbe far ascoltare ai figli, visto il clima sociopolitico attuale.
«È una situazione preoccupante, lo vedo», dice Carlile (che è nata a Ravensdale, una minuscola cittadina nello Stato di Washington con 555 abitanti, stando al censimento del 2020) riflettendo sulle difficoltà che, al momento, affrontano gli Stati Uniti. «Ci penso ogni giorno, appena mi sveglio. Non credo che le persone come noi abbiano la possibilità di scegliere se fare politica o meno. Ci svegliamo e facciamo politica solo per il fatto di essere gay, soprattutto in America. Vivo in una casa piena di donne. Sto crescendo delle donne e non posso far finta di nulla. Elaborerò tutto con la mia arte, farò sensibilizzazione, sarò un’attivista, farò del mio meglio per dare una mano».
Il suo messaggio ai più giovani, soprattutto quelli che si identificano come LGBTQ+, è di non perdere la speranza. «Penso che ogni sistema di pensiero tossico faccia più rumore e sembri più spaventoso poco prima di scomparire. A proposito dell’odio per le persone LGBTQ, secondo me stiamo osservando gli ultimi giorni di vita di un animale agonizzante, dobbiamo solo superare questo momento in cui il cielo è “più buio prima dell’alba”. Ora la situazione è bruttissima proprio perché quel sistema di pensiero sta morendo».
Elton, che ha vissuto il momento peggiore della crisi dell’AIDS per poi uscirne più forte e fondare la Elton John AIDS Foundation, è stato testimone della lenta marcia che ha portato a una maggiore uguaglianza di diritti per le persone queer. Annuisce piano in segno di assenso, con la fronte leggermente aggrottata. «I gay sono molto forti. Non dovete rompere loro le scatole, non dovete romperci le scatole. Non fatelo su questioni importanti, sennò faremo un gran casino».
Durante la registrazione del brano che chiude l’album, When This Old World Is Done with Me, Elton affronta una dura verità, la sua mortalità: “Quando questo vecchio mondo sarà finito per me / Sappiate che sono arrivato fin qui / Per essere fatto a pezzi, spargetemi tra le stelle / Quando questo vecchio mondo sarà finito per me / Quando chiuderò gli occhi / Liberatemi come un’onda dell’oceano, restituitemi alla marea”. Quando Elton è arrivato al ritornello, mettendo in musica il testo di Taupin, ha sentito tutto il peso di queste parole. «Ho perso la testa per 45 minuti. È tutto filmato. Ho singhiozzato, singhiozzato e singhiozzato», dice parlando di quel momento di commozione che è stato immortalato da una delle camere presenti. «Ho registrato una traccia di pianoforte, poi sono andato a cantare, ma Andrew mi ha detto: “No, no, no, non oggi: non è il momento. Incidila domani. Arrivi, suoni, canti e fai tutto in un giorno”. E così è stato fatto il giorno dopo, di prima mattina».
La canzone probabilmente lo tocca ancora di più a un anno e mezzo da quando l’ha registrata. Da allora, Elton ha avuto un altro problema di salute, visto che la scorsa estate ha subito una parziale perdita della vista per via di un’infezione agli occhi. A ottobre, alla prima newyorchese del film documentario Never Too Late, che racconta il suo tour Farewell Yellow Brick Road, Elton ha dichiarato a People che «non ho più le tonsille, le adenoidi e l’appendice. Non ho la prostata. Mi mancano l’anca destra, il ginocchio sinistro e il destro. L’unica cosa che è rimasta, di mio, è l’anca sinistra. Insomma, non è che rimanga molto di me. Ma sono ancora qui».
È difficile che un uomo determinato come Elton lasci che la morte lo colga di sorpresa. «Quando hai 77 anni, una famiglia e due figli, ti resta solo una certa quantità di tempo. Spero di avere almeno altri 20 anni», dice con determinazione. «Ma parlarne in una canzone mi ha fatto pensare, mi ha colto alla sprovvista, non me l’aspettavo. Non mi piace parlarne, ma tocca essere realisti».

Foto: Peggy Sirota per Rolling Stone UK
Elton ha superato i giorni bui della tossicodipendenza e non è certo la prima volta che si trova ad affrontare questioni di sopravvivenza. «Non pensavo che sarei morto da tossicodipendente, ma sapevo che, se avessi continuato, c’erano buone probabilità che succedesse. Un giorno mi sono svegliato e ho sentito il profumo delle rose: da allora le cose sono andate alla grande, ma questo non significa che non abbia dovuto affrontare problemi, operazioni e cose del genere, come la perdita della vista da un occhio, subito dopo l’album. A quanto parte c’è sempre qualche problema da affrontare».
La sua tenacia è evidente nel primo singolo estratto dall’album, Never Too Late, in cui canta spavaldo: “Sei un uomo d’acciaio, baby / Affanculo le porte del Paradiso!”. Never Too Late, mai troppo tardi: Carlile ha usato queste stesse parole per un tributo a Joni Mitchell che ha scritto per il Times, subito dopo essere riuscita a convincere la leggendaria cantautrice a salire con lei sul palco del Newport Folk Festival, nel luglio 2022. «La trovo una frase illuminante», dice Carlile. «Dobbiamo colmare il gap tra le generazioni, così che ci sia uno scambio: la generazione più giovane trasmette l’energia, quella più anziana la saggezza. Gli attori lo fanno sempre. Gli attori giovani lavorano sempre con attori più anziani, nel cinema. I musicisti non lo fanno spesso quanto dovrebbero».
Mentre parliamo, in studio, dopo le prove in vista della partecipazione di Elton e Carlile al Graham Norton Show, a parte una serata al Palladium non si sa se porteranno l’album in tour. «Lasciamo che resti un mistero», dice Carlile.
Questa nuova musica, ha regalato al Rocket Man una gran voglia di rinnovamento proprio in un’età in cui altri, solitamente, sono più inclini a rallentare il ritmo. «Io spingo, spingo e spingo, ed è la musica che mi fa andare avanti. La mia famiglia e la realizzazione di questo album mi hanno fatto sentire bene con me stesso. Mi sono lasciato alle spalle il vecchio Elton John ed ecco qua il nuovo».
«Non si ferma mai. È sempre in movimento… in mezzo a grandi cose, grandi problemi. Anche se finisse nelle sabbie mobili, non rimarrebbe bloccato. Lui semplicemente resta sempre a galla», aggiunge Carlile. Lo sa bene. Lontano dallo studio, dai tour promozionali e dai tappeti rossi, anche se Elton conta moltissime celebrità nella sua cerchia, è palese che pochi gli sono vicini quanto lei. Le chiedo com’è la quotidianità di Elton quando va a trovarlo nel Regno Unito. «È estremamente divertente. Non si riesce a stargli dietro. Fa le battute migliori, ha una conoscenza enciclopedica della musica, è sempre entusiasta. Chiama le persone, aiuta i giovani, è generoso. Frequentarlo è uno spasso».
Per quanto il nuovo album possa richiamare sonorità del passato, a elettrizzare maggiormente Elton è il nuovo, il futuro. «Non posso vivere senza musica. Mi ha quasi ucciso, ma mi ha anche tenuto in vita e lo fa ancora oggi. Ma non tanto la musica del passato: certo, ascolto jazz e cose del genere, ma è la musica del futuro che mi tiene in vita», dice con enfasi quando parliamo del supporto che offre ai nuovi artisti nel suo programma radiofonico Rocket Hour di Apple Music. «Lola Young è arrivata al numero uno. Non è bellissimo? Ha sempre avuto un talento incredibile. Le ci sono voluti quattro o cinque anni, come è successo a Chappell Roan e Sabrina Carpenter».
Poi nomina Cleo Sol, Gia Ford, Nia Smith ed Elmiene, tutti artisti di cui è entusiasta. «C’è un ragazzo che si fa chiamare Humble the Great: è meraviglioso. Gli HotWax, che sono in giro da un po’, hanno pubblicato il loro primo album quest’anno. Poi c’è un’artista sudafricana, Moonchild Sanelly, e i Soft Launch, una giovane band irlandese molto valida», continua, snocciolando nomi su nomi. «Jalen Ngonda l’ho intervistato per Rocket Hour. Un paio d’estati fa l’ho visto dal vivo al Nice Jazz Festival. È stato incredibile. È salito sul palco prima dell’esibizione principale e non c’era quasi nessuno. Verso la fine c’era il pienone». Qualcun altro? «Nectar Woode mi ha mandato il suo album. È fantastica».
Il suo consiglio agli artisti che cercano di emergere e di costruirsi una lunga carriera è semplice: continuare a cantare. «Continuate a suonare dal vivo. È così che si migliora come musicisti e autori. Non importa se lo fate di fronte a 40 persone. Anzi, più esperienza fai suonando davanti a nessuno e meglio è. Quando ero nei Bluesology, suonavamo davanti a pochissime persone».
«Quel tipo di esperienza mi è servita molto, quando sono diventato Elton John, perché mi ero fatto le ossa. Ed è molto importante: la cosa peggiore che ti possa capitare, in questo mondo, è roba come X Factor e la fama istantanea in tv, che arriva anche se non hai fatto alcuna esperienza suonando dal vivo. Ti mettono sul palco e non ce la fai. È la cosa peggiore. American Idol è il peggio. Prendetevi dei rischi. Andate a suonare in un pub». Carlile aggiunge: «E fatevi degli amici. Createvi una comunità intorno».
È su questa idea di condivisione, di incontro, che Elton e Carlile si sono trovati in sintonia. Dalle jam session a casa di Joni Mitchell, in cui Carlile invitava gli artisti a cantare e a condividere la loro musica, allo spirito collaborativo di Elton, che ha dato spazio ad altre voci nelle sue Lockdown Sessions del 2021 e nello show Rocket Hour, fino alla collaborazione con Watt e Taupin in Who Believes in Angels?, i due sono fermamente convinti che, grazie alla cooperazione, le cose nel futuro potrebbero andare bene.
«Mai sottovalutare l’umanità. È passata attraverso le cose più orribili che si possano immaginare: l’Olocausto, il Vietnam, la carestia in Africa», dice Elton. «È qualcosa di incredibile. Nel corpo c’è più spirito di quanto si possa pensare. E se uscirà fuori, lo farà nel modo giusto. Io credo molto in questo».
Dopotutto, se non si ha speranza… «Non si ha nulla», conclude Elton. «Devi coltivare la speranza, perché il mondo è sottosopra. Quando la sera vado a letto e prego, mi concentro sulle cose belle e sulla speranza. Andrà tutto bene. Sarà difficilissimo, ma andrà tutto bene. Deve andare così. Altrimenti dove vai a finire, nel baratro della disperazione? No, non lo farò».
«Come musicisti, uniamo le persone. Quando faccio un concerto, non mi interessa per chi votano le persone o di che religione sono: non è il mio lavoro. Io riunisco le persone in un posto e loro si divertono. È come a teatro: scrivi un musical, ci vanno tutti i tipi di persone e, se piace, è fatta. È tutto ciò che possiamo fare», riflette Elton mentre il nostro tempo insieme è agli sgoccioli. «Non siamo così presuntuosi da pensare che cambieremo il mondo. È una cosa complessa, cazzo, ma così si piantano dei piccoli semi».
Mentre ci salutiamo, fuori l’aria è ancora fredda e pungente, ma il sole è uscito in quello che sembra il primo giorno soleggiato di quest’anno. Un gennaio grigio e nuvoloso ha finalmente lasciato spazio a un cielo azzurro. Sembra che la primavera stia bussando alla porta. Elton, Brandi, Bernie Taupin e Andrew Watt potrebbero avere ragione: basta un po’ di luce per risollevare gli animi.
Da Rolling Stone UK.