«Sgombriamo il campo dai dubbi: The Lamb Lies Down On Broadway è il mio Genesis-album preferito». Enrico Gabrielli è perentorio, e forse non è una sorpresa, visto che con i suoi Winstons si è spesso misurato dal vivo con la cover di The Carpet Crawlers. Personalmente metto The Lamb al secondo posto poco sotto Nursery Cryme, che ancora oggi mi strega con le sue atmosfere macabro-vittoriano-mitologiche. A conti fatti è però indubbio che il doppio del 1974 (in questi giorni 50enne) sia l’album oggettivamente più importante dei Genesis; forse non il più bello ma sicuramente quello nel quale Gabriel e i suoi hanno osato maggiormente, si sono spinti a esplorare e a espandere i confini della propria musica, arrivando a toccare vette di sublime bellezza ma anche ad anticipare tendenze, soffermandosi su spunti sonori che sarebbero rimasti degli unicum nella loro proposta.
«Pensa» continua Enrico «che l’ho scoperto grazie a mio zio, che è stato muratore. Ma non un muratore qualsiasi, intendiamoci: è stato un campione di filosofia popolare, uno di quelli che tra una cazzuola e una spianata di cemento, ti citava Metello. Tra le altre cose che mi hanno colpito di lui è che in casa, oltre agli immancabili testi di appartenenza localista regionale come Maledetti toscani di Curzio Malaparte o più ecumenicamente un Gramsci o un Vittorini, aveva dei vinili interessantissimi. Per esempio, In Camera di Peter Hammill o Survival dei Grand Funk Railroad. Se penso adesso a quello che potrebbe ascoltare oggi un working class hero come è stato mio zio, mi vengono i giramenti di capo. Indubbiamente quella era una generazione popolare sì, ma aveva in testa la complessità come valore e non come rottura di coglioni. Tra le altre cose mio zio aveva in casa proprio The Lamb Lies Down On Broadway. Finì che gli chiesi l’album in prestito (eterno); me lo dette. Quando però guardai dentro l’inlay mi accorsi che non c’era il secondo dei due dischi, doveva averlo perso. Per cui ogni volta che ancora lo sento, mi ascolto tutto fino The Chamber of 32 Doors e poi lascio che il ricordo completi l’opera».
Quando invece lo scoprii io, ero un adolescente ben piantato negli anni ’80, con tanta voglia di approfondire la musica del mio fratello maggiore. Sentii parlare di quel disco da un compagno delle medie che me lo descrisse come il più strano dei Genesis. Con dentro pezzi astrusi e una storia indefinibile. Dell’epoca Gabriel conoscevo Nursery Cryme, poi i vari Foxtrot, Trespass e Selling England by the Pound. The Lamb però rimaneva un oggetto oscuro; mio fratello non lo possedeva e acquistare un doppio LP era tutt’altro che una passeggiata all’epoca. C’era inoltre qualcosa che mi intimoriva in quell’album, a partire dalla copertina che non recava favolistici dipinti ma una serie di foto di un tizio a petto nudo tra le rapide di un fiume, su una sorta di sedia elettrica e di spalle a guardare se stesso. Una copertina così diversa dagli altri album, così inquietante.
La proverbiale cassettina registrata dal gentile compagno (una Maxell C-90 dalla quale era stato decurtato un brano, The Waiting Room, che ho ignorato a lungo visto che il secondo disco strabordava oltre i 45 minuti del lato) arrivò a sfamare la mia curiosità. E rimasi di sasso. Le atmosfere care al gruppo c’erano tutte, ma in quel marasma di un’ora e mezza trovava posto anche tanta roba veramente fuori, in un calderone unico di traboccante creatività. «Avevano una media di 24 anni ed erano una band all’apice della maturità», dice Gabrielli. «Con tantissime informazioni compositive e narrative da organizzare, da assemblare e da gestire; senza che trovassero il tempo materiale per fermarsi e riflettere. Creavano, e via. Solo dopo anni, i vari membri della band si sono voltati a guardare cosa avevano davvero lasciato alle spalle. La magnifica contraddizione tutta anni ’70 di un istinto verso la forma ampia (che in termini psicanalitici è un controsenso), qui trova un equilibrio irripetibile».
In The Lamb le istanze barocco-classicheggianti degli album precedenti vanno a confrontarsi con momenti aspri, sperimentali, ambient, dissonanti, psichedelici, beatlesiani, addirittura funk. «È l’apice della forma Genesis primo periodo, stupefacente. I temi principali ritornano con un’economia di pensiero straordinaria, come si usa nel cinema; penso al brano The Light Dies Down on Broadway che in un certo senso è il negativo del brano di apertura».
Aggiungo: in ogni brano c’è una costante tensione sottopelle, uno stridore quasi. C’è urgenza, c’è rabbia, c’è una bomba pronta a esplodere. Col tempo si è capito che in quel disco venivano a galla sia le tensioni interne della band che le avvisaglie del punk e della new wave. Proprio uno dei gruppi che il punk avrebbe più odiato è stato precursore di tale movimento, da non crederci. Non solo: come l’altro celebre doppio bianco, quello dei Beatles (1968), il sesto album dei Genesis è il pretesto per mettere da parte ogni barriera e focalizzarsi su una miriade di stili che rendono la proposta più sfaccettata che mai.
Ci sono i Genesis-Genesis, che si abbandonano a ciò che sanno fare meglio: cavalcate prog-sinfoniche condite da densi strati di tastiere, con tempi pari e dispari, sprazzi melodici e tensioni allo spasimo. A tale gruppo appartengono Fly on a Windshield/Broadway Melody of 1974 (con un in incedere in 4/4 tosto e solenne come mai prima), In the Cage (assolo di Banks da urlo), lo strumentale Hairless Heart (vero colpo al cuore dei più romantici, Hackett sugli scudi), The Chamber of 32 Doors (dai tratti quasi soul nella sua intensità, del resto Otis Redding era uno degli eroi di Peter Gabriel), Anyway (frammento dolcemente pianistico con idee risalenti agli esordi), The Lamia (l’apice del disco in tutta la sua struggente atmosfera preraffaellita), The Colony of Slippermen (uno dei massimi esempi di Genesis-teatro, con un Gabriel istrionico interprete di una sfilza di personaggi) e Riding the Scree (altro Banks stellare su un Collins-funky in 9/8)
Ci sono i Genesis punk/post punk/rock: la title track e la sua ripresa (The Light Dies Down On Broadway), gli schizzi art di The Grand Parade of Lifeless Packaging (con Brian Eno alle manipolazioni), la potente Back in New York City, il cazzotto nello stomaco di Lilywhite Lilith, la grottesca Here Comes the Supernatural Anaesthetist e la liberazione/rivelazione di It, il finale meno pomposo ci si possa attendere da un’opera del genere; un rock tagliente che cita addirittura gli Stones (“Cause it’s only knock and know all, but I like it”).
Ci sono i Genesis ambient: Silent Sorrow in Empty Boats e Ravine, ovvero Eno prima di Eno. Che, come detto, qui è presente e prende appunti.
Ci sono i Genesis free form: The Waiting Room, dove improvvisano, cosa mai successa prima in un disco. Proprio loro che non lasciavano nulla al caso, con ogni pezzo studiato a tavolino in tutti i particolari e armonie perennemente cangianti. Qui si lasciano andare, un accordo e via a folleggiare e a creare il domani (se si tende l’orecchio a un certo punto si riconoscerà un momento ritmico che troverà posto in Abacab, mash-up tra i Genesis prog e quelli pop)
Ci sono i Genesis pop: la beatlesiana Counting Out Time e la celeberrima Carpet Crawlers, con echi elettronici dal futuro e un ritornello che non si stacca più di mente. Forse il brano dei Genesis gabrieliani invecchiato meglio, che ancora oggi potrebbe uscire domani.
Ci sono i Genesis acustici: Cuckoo Cocoon e In the Rapids. Senza però l’etereo svolgersi di materiali analoghi contenuti in Selling England, ad esempio. Qui c’è qualcosa di più malato.
Sì, The Lamb Lies Down On Broadway è un disco malato. Tutta la storia di Rael non ha precedenti (e non avrà epigoni) nella produzione genesisiana: un vero trip psichedelico-psicanalitico, a tratti disturbante. «La vicenda è molto complessa, e si presta ad analisi di ogni tipo, verticali, orizzontali, freudiane. Rael (che è una contrazione irregolare del nome di Gabriel) è un portoricano in New York, un eroe punk ben lontano dalle Fountain of Salmacis o da qualsivoglia tentennamento vittoriano. Siamo nel 1974, nella scia della controcultura che avrebbe portato a una fase internazionale di tensioni sociali crude e amare. Tutto questo si riflette nel cinema che si fa catastrofico e a mano armata; si riflette nella musica che si nutre voracemente di droga e violenza. In questo album, in un collage d’immagini confuse, si parla di visioni cristologiche, di aghi, di mosche contro il parabrezza, strane bestie, luoghi di memoria paterna oscura; e poi ancora fratelli che appaiono e scompaiono, uomini deformati, creature mitologiche, mostri, gabbie metaforiche e metafisiche. Se si vuol sintetizzare in modo estremo, la trama che compone i testi è un romanzo di formazione attraverso il non-reale. Chi ha la fortuna, come me, di avere il disco originale tra le mani, sa quanto quello che accade sia motivato, e in parte occultato, dall’opera fotografica cut-and-paste di Hipgnosis, così anni ’50, noir e dannatamente Twilight Zone».
Ricordiamoci inoltre che Gabriel avrebbe voluto trarne un film diretto da Alejandro Jodorowsky, progetto sfortunatamente mai andato in porto. Del resto si avverte quanto le visioni di El Topo e La montagna sacra abbiano ispirato le vicende di Rael. Nei dischi precedenti c’era sempre un certo gusto per il grottesco da parte di Peter (vedi pezzi come The Musical Box o Harold the Barrell), ma qui si va oltre: The Lamb è un vero freak show con deformità assortite e mutazioni corporali che nemmeno Cronenberg. Che dire poi della sessualità malata, delle castrazioni, della ricerca del pene di Rael rubato da un corvo… È un delirio psicanalitico, un concept distopico, cyberpunk.
«Performance multimediale secondo me è una definizione che calza a pennello per questo disco. Opera rock, come spesso è definito, mi ha sempre fatto ridere, un po’ come messa beat. In realtà non c’è un termine per definire The Lamb, banalmente perché non era interesse da parte di Gabriel, Banks, Hackett, Rutherford e Collins a definirla. Io lo amo visceralmente e mi sono andato a vedere ben due volte i Musical Box suonarlo nella sua interezza: una volta il 20 gennaio 2005 a Mestre e un’altra volta con il mio amico Lino Gitto il 30 aprile 2013. Posso quindi dire di aver esperito l’esperienza della performance come nemmeno gli stessi Genesis (ad ammissione loro) son mai riusciti a donare. Per ragioni tecniche, dicevano».
La verità è che si erano fissati, o meglio, si era fissato Gabriel, di rendere il concerto un’esperienza multimediale, appunto. Peccato fossimo nel 1974-75, con le diapositive cambiate a mano e casini inenarrabili a ogni replica. Sul palco Peter appariva poi come un essere completamente diverso rispetto al recente passato: via i capelli lunghi e le tutine cangianti, via a un taglio corto, chiodo di pelle nera, petto nudo e blackface nella rappresentazione del ribelle portoricano. E mille trovate sceniche, la più sconvolgente è lo Slipperman, con bubboni e testicoli gonfiabili.
Come tutti sanno The Lamb Lies Down On Broadway è anche il canto del cigno di Gabriel con i Genesis, che dal 1976 in poi saranno una band sempre più distante dagli esordi. Il cantante farà suoi – ieri come oggi – moltissimi degli spunti messi in atto nel doppio e i Genesis torneranno al prog più “canonico” dei dischi pre-Lamb, salvo poi prendere la rincorsa e lanciarsi diritti nell’arena del pop.
«Confesso che non ho praticamente più seguito la band dopo questo disco. E nemmeno Gabriel solista, di cui ho moltissimi buchi che non ho mai voluto completare. Dopo The Lamb ho perso interesse, come un orgasmo intellettuale espletato, all’apice delle possibilità di contemplare un gesto creativo. Questo disco è, per me, un finis terrae dove il territorio dell’esplorazione sulla forma canzone si conclude, dove quel mondo definito dagli storici pruriginosi progressive è giunto al suo Götterdämmerung».
The Lamb Lies Down on Broadway rappresenta la fine di un’epoca, che in qualche modo Enrico ha traslato sulla sua persona: «Quando nel febbraio 2009 decisi di uscire dagli Afterhours presi a modello la lettera di dimissioni di Peter Gabriel del 1975. D’altronde ho un cognome che innegabilmente ci assomiglia. Il tutto con la promessa – e lo ricordo ancora durante un soundcheck ad un live al Pala Mazda di Milano del 2007 – che con Manuel Agnelli un giorno avremmo eseguito dal vivo The Lamia, di cui era grande estimatore. Non è mai successo. Chissà se succederà…».