Preparate antidolorifici per il mal di testa e, se siete inclini alla classificazione sic et simpliciter delle innumerevoli uscite discografiche, non avventuratevi nell’ascolto del primo album delle Narcotix. Esther Quansah e Becky Foinchas sono due figlie di immigrati africani che si sono conosciute cantando nel coro di una scuola elementare in Virginia. Ad accomunarle è stato l’odio-amore per la dottrina troppo religiosa del coro scolastico, anche se è stato l’incontro con il chitarrista del Sierra Leone, Adam Turay, l’input definitivo che le ha spinte verso l’approfondimento di molteplici linguaggi musicali.
La passione per artisti come Thomas Mapfumo, per l’avant-pop degli Stereolab, per le sinfonie corali e per i germi dell’art-folk africano, che vanno dalla musica nuziale all’afrobeat, hanno plasmato uno stile che assorbe al proprio interno musica psichedelica, progressive, jazz, soul e folk, con un’attitudine selvaggia e ricca di imprevedibilità.
Dopo lo spumeggiante Ep “Mommy Issues”, ecco finalmente l’album d’esordio, con un gruppo completato dal batterista Matt Bent e dal bassista Jesse Heasly. Un disco finanziato dal fondo per le arti di New York, che si avvale anche della presenza di musicisti esterni (piano, sax, tromba e viola) e nel quale non manca un ringraziamento nelle note di copertina al sopracitato Turay.
Termini come surrealismo, meditazione ed esoterismo non sono teorici o astratti: a completamento del progetto, il gruppo ha concepito infatti un mazzo di carte divinatorie che sono legate ai nove brani dell’album e nelle quali sono racchiuse le tematiche reali del progetto: nascita, vita e morte.
Le fonti d’ispirazione citate da Ester e Becky non aiutano a definire ulteriormente la loro proposta – tra gli altri Kate Bush, Warpaint, Stromae, Broadcast e Animal Collective – ma in verità questa impossibile archiviazione stilistica è ben ripagata dall’eccellente proposta presentata: stratificazioni di voci, ritmi, chitarre e altri strumenti creano un tessuto multicolore e cangiante. Bastano le prime note di “The Mother” per assaporare un inedito mix di afro-jazz, poliritmia, intrecci vocali, graffi chitarristici, miasmi folk-rock e nenie infantili. Becky e Ester non seguono alcuno schema consueto di scrittura e arrangiamento; in “The Sun” le geometrie jazzy e il cantato sussurrato e svogliato iniettano un misticismo tribale che toglie il fiato. In “The Maiden” il cantato rituale e quasi gothic intercetta ritmi afro e delizie elettroacustiche, fino a creare un vortice di suoni dove meditazione e caos convivono in maniera eccelsa.
Quel che caratterizza “Dying” è il ruolo intercambiabile tra voci e strumenti: il canto diventa ora basso, ora chitarra, ora sax, ora batteria, in un reciproco scambio di ruoli che in brani come “The Feel” si tinge di romanticismo ante litteram, e in “The Mystic”, più ricca di riverberi chitarristici, assume i contorni di una filastrocca per anime dannate. Tempo di valzer e note di piano tessono le più semplici e giocose trame del folk-jazz-pop di “The Lovers”, voci e batteria creano un groove dai toni eleganti, con una sequenza armonica più simile a una danza che a un’esortazione lirica.
Le atmosfere world e in parte stranianti di “The Child” sono frutto di alcune registrazioni effettuate in una giungla messicana, il brano è decisamente il più ambizioso e free-form del disco, un episodio tribale e ancestrale che sconvolge molti schemi di scrittura e arrangiamento.
Il call and response di “The Feel” è particolarmente coinvolgente, una delle tracce più immediate che qualcuno non tarderà a definire in stile Sterolab in acido, ed è anche uno dei pochi brani ai quali spetta una rielaborazione con annesso assolo di sax e intermezzo strumentale da jam session. Una traccia dai toni grevi e minacciosi che chiude il cerchio tematico (vita e morte) e dunque abilmente posta a chiusura dell’album, “The Magician”, perfetta sintesi dell’avventurosa e riuscita alchimia di una delle prime grandi sorprese dell’anno.
25/03/2024
Daniel D`Amico for SANREMO.FM