TELLKUJIRA – TELLKUJIRA (Superpang, 2023)
post-rock
L’omonimo dei tellKujira comincia con una sorta di anti-manifesto, una “Kujira” che è una concertazione inerte di mezze frasucole, spunti appena accennati e trambusti puri e semplici, come un collettivo di revival folk degli anni d’oro ridotto alla sua moribonda fase terminale. La nenia chitarristica atonale Slint-iana della dolente e allucinatoria “Piece Sombre” viene torturata e poi straziata da archi da camera. Momento di suprema ambizione, “Interior Sketch” suona come un kammerspiel sminuzzato in dissonanze guizzanti prima di mutare in viscerale taranta elegiaca condotta dal cello, di frantumarsi in soffi e palpiti in una landa fredda e brumosa e trovare una conclusione di nuova energica danza popolana. “Tomwaits” è poco più di un intermezzo, ma fatto di pregiati gestualismi collettivi cacofonici. Uno dei pezzi più unitari e col maggior fattore di musicalità (ma in questa pervasiva sconsolazione non ci vuole poi molto), “Trompe Les Dieux” parte da dei Penguin Cafe e Rachel’s sotto ipnosi e fuori fase per eccitare un duello di distorsioni violente su ritmo demonico. Quartetto di distinti improvvisatori d’avanguardia con preparazione cameristica, tre romani, la violista Ambra Chiara Michelangeli, già Trio Improvviso e Drolo Ensemble di Remondino, e le collaborazioni con Luca Petracca, Teho Teardo, i ricercati chitarristi Francesco Diodati e Stefano Calderano, e un cesenate, il violoncellista Francesco Guerri, già anche con Carla Bozulich, Chris Corsano e Butch Morris, e titolare del solista “Su Mimmi non si spara” (2019). Immersa in un clima sia atavico che contemporaneo e impalcata di strutture armoniche aeriformi, è forse la prima opera per ensemble e algoritmo, l’autobrevettato “Fragmentarium”, generativo o meglio sbriciolante ad libitum, che raggiunge inusitate alture espressive e scavi di suono metafisico non smarrendo il senso della composizione, sia pur astrattamente slabbrato. Partecipazione all’IRCAM parigino voluto da P. Boulez. Co-prodotto con Area Sismica e Emilia Romagna Music Commission (Michele Saran, 7,5/10)
PETRAMANTE – ORTICA (Bassa Fedeltà, 2023)
pop
Rentrée dopo dieci anni per Petramante, gruppo di Orvieto capeggiato dall’ugola di Francesca Dragoni, “Ortica” adotta una combinazione sprintante tra l’erudizione decadente dei Baustelle, la spinta grintosa di Loredana Bertè e il melodismo spicciolo dei Ricchi e Poveri per sciolte, ballabili, casual hit a ritmo disco-pop: “NOF4”, “Levitas”, e “Credo” col suo refrain che fa quasi un Bach in veste kitsch, oltre alla giostrina canora di “Tornerò”. Anche l’inevitabile rammollimento sentimentale mantiene una certa vis, da “Tu prima di te” a una rabbiosa “Il male necessario”, fino a uno stornello pianistico, “Canzone verde”, ma notevole è pure “Ahimè”. Anche grazie all’apporto del nuovo batterista Simone Possieri non è solo il terzo album successore dei deboli “E’ per mangiarti meglio” (2009) e “Ciò che a voi sembra osceno a me pare il cielo” (2013), ma una loro seconda vita. Sagacia negli arrangiamenti: chitarre vispe, ritmi rimbalzanti, tastiere oblique, qualche aliena dissonanza digitale. Rapidità e concisione nelle canzoni peraltro cantate in buona alternanza femminile-maschile (Simone Stopponi perviene alla seconda voce). Testi ottimi. Ha certamente i suoi difetti, qualche limite di respiro stilistico soprattutto, ma rimane un vertice del melodico italiano degli ultimi anni. Ospiti di pregio: Nada, Pino Strabioli, Gianmarco Fusari, e Arturo Annecchino che cura brevi ma suggestivi intermezzi per solo piano (Michele Saran, 6,5/10)
LUCA TILLI – EMPTY SMILE (We Insist!, 2023)
free improvisation
Luca Tilli, violoncellista, dà una dimostrazione abbastanza completa delle sue capacità avanguardiste allo strumento con “Empty Smile”. Miglior esempio è forse la suite eponima in otto parti svariante da free-jazz misto a scrittura microtonale (“I”) a un folk-jazz frammentato in pause dementi e fughe irreali (“II”), fino al gestualismo astratto (“VIII”, la più estrema), e da una grave pacatezza anti-barocca pregna sempre di rigurgiti d’isteria (“IV”) a un breve sovracuto di armonici (“V”). Ma anche altri episodi espongono la sua sbrigliatezza di tecniche e impostazioni: i trituramenti incrociati di temi in cadenze acceleratissime con spunti Bach-iani in “Motivo” e “Gemini”, il piccolo melting-pot di tapping percussivo e accordi rubati di “In The Morning”, il pizzicato dilatato e puntinistico di “Providence”. Finalmente un disco solista a proprio nome per il virtuosista d’origini termolesi (primo maestro: M. Chiapperino) dopo le numerosissime collaborazioni, come “Down At The Docks” (2019) con Sabi Tramontana, e le svariate partecipazioni a complessi d’improvvisazione e festival. Col formato della raccolta d’improvvisi e capricci e il metodo della radicalità modernista nello stile di Sciarrino, vanta ceselli sonici d’alto livello, paga qualcosa come narcisismo autoindulgente, trattiene embrioni d’idee in “Ida” e qualche altra, trabocca col linguaggio ostico pur di riconfigurare lo strumento (Michele Saran, 6,5/10)
SETE – NEVERMIND (Talentoliquido, 2023)
urban-pop
Cantautrice all’esordio discografico nelle vesti di solista, laureata in canto jazz al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, buona tecnica anche alle prese con chitarra e pianoforte, Elisabetta D’Aiuto è una delle più promettenti novità della sempre vivace scena romana. “Nevermind” è un titolo impegnativo e molto rischioso, ma Sete – questo il nome con il quale si sta facendo conoscere – sgombera subito il campo da qualsiasi plausibile accostamento grunge e piazza nove tracce in poco meno di ventotto minuti, orientate verso una forma di urban-pop contaminata con hip-hop, trap ed elettronica, arricchite da melodie quasi sempre cantate. Il punto di riferimento più evidente risiede nell’esperienza di Madame, dalla quale Elisabetta mutua l’inconfondibile modalità di impostare la voce. “Finchè non spezzi le tue abitudini resti fermo lì, senza evolverti mai”: è un estratto dalle dichiarazioni dell’autrice che accompagnano l’uscita del disco, dichiarazioni che mostrano l’intenzione di rompere l’ordinaria quotidianità per spingersi oltre, sconfiggendo la noia che attanaglia le giornate di tanti post-adolescenti dei nostri giorni. “Nevermind” è edito dalla piccola ma intraprendente label Talentoliquido e distribuito da ADA Music (Claudio Lancia, 6,5/10)
SIX IMPOSSIBLE THINGS – THE PHYSICAL IMPOSSIBILITY OF DEATH IN THE MIND OF SOMEONE LIVING EP (Dear Gear, 2023)
alt-pop
Messa da parte la sbandata adolescenziale per l’emo-pop in “We Are All Mad Here” (2017), il duo lodigiano dei Six Impossible Things (Nicole Fodritto, tastiere e voce, e Lorenzo Di Girolamo, chitarra e voce) si ricompone su canzoni maggiormente meditate e certamente più mature nei due successivi Ep. Il terzo Ep consecutivo “The Physical Impossibility Of Death In The Mind Of Someone Living” li fa infine tornare al formato band, stavolta con una nuova sezione ritmica e, specialmente, un rinnovato spirito artistico. Nonostante ancora qualche lontana scoria emo, il singolo “Twenty Something” (2023) è una ballata dream-pop di tutto punto. Gli è superiore il loro primo vero inno, “Lemme Give Your Heart A Break”, capolavoro della vocalità di Fodritto, e in parte anche “Happy”, più nuda e di nuovo ancorata a un certo teen-soul. Come nei precedenti Ep c’è anche un pezzo-divertissement dal titolo introdotto dai puntini di sospensione, “…Min-Forg’D Manacles”. “What’s Left Of Me” è il momento di “high drama”, quasi un Jim Steinman-light, riuscito a metà. Lungi dall’essere veramente memorabili, le canzoni si sorreggono comunque su un suono godibilmente contagioso (Maurizio Baggio, oltre al fido Daniele Mandelli), e pur nella loro un po’ spersonalizzante esterofilia alternative (Delgados, Beach House, Still Corners) irradiano in giuste dosi uno spleen atmosferico di classe. “Twenty Something” incluso in “Rock Italia”, playlist di Spotify. Titolo preso da D. Hirst (Michele Saran, 6/10)
LE SACERDOTESSE DELL’ISOLA DEL PIACERE – 2002 (autoprod., 2023)
alt-rock
Il cantante e chitarrista Fabrizio Lusitani, di Piacenza, inizia il progetto Le Sacerdotesse Dell’Isola Del Piacere per un primo singolo. Dopo l’esperienza coi conterranei Flora e la trasformazione acustica-intimista come Houdini riprende a pieno giro con le Sacerdotesse, irrobustendosi con la ruvida seconda chitarra di Federico Pagani. La parte di carriera (col nuovo bassista Enrico Crippa e la batteria di Enrico Scrivani) che comincia col terzo “Alle onde” (2020) e prosegue col successivo “2002” è la più interessante perché i quattro passano da un’imitazione soft dell’emo-core italico a una via italiana ai Built To Spill e ai Van Pelt, e la più equilibrata perché incamera al meglio la vena cantautoriale del leader. Prova ne sono i loro pezzi finora più ambiziosi, quasi epici, il folk psichedelico a passo doom di “Totem America, tabù America”, quello passionale di “Cres” che s’incendia d’isteria distorta, e soprattutto “Post-Rock 2002”, binomio di ode chitarristica e inno canoro esaltato in una jam rutilante. Di poco secondi il “mottetto” “Povero cuore, cuore santo”, costruito su schitarrate chiaroscurali Jeff Buckley-iane, batteria tonante e un finale refrain a più voci Rem-iano, e il lamento quasi salmodiante di “Tenera è la notte”. Melodicamente deficitario e scarico di tinte forti, ma fregiato da una scrittura progressiva di cambi di tempo, dinamica e timbro, con una certa sbrigliatezza (registrato in presa diretta) che contrasta con testi minimi e formulaici, anche ermetici. La cosa migliore di questo album affettuosamente dedicato al 2002 – anno di rivolgimenti e fermenti artistici, anno della massima espansione del rock alternativo su suolo italico – è la potente e fonda produzione coadiuvata col torinese collettivo Dotto e la piacentina indie Cloudhead Records (Michele Saran, 6/10)
WOJTEK – PETRICORE (Flames Don’t Judge et al., 2023)
alt-metal
I Wojtek arrivano all’album lungo con “Petricore”, le cui specificità a questo giro stanno anzitutto nel galoppo tirato death-thrash con urlo anthemico di “Hourglass”. A parte una “Dying Breed” che lo replica con appena più articolazione ed enfasi (un coro aggiuntivo), altro incrocio col thrash-metal lo importano gli 8 minuti di “Hail The Machine” per produrre progressioni spezzate e interrotte di passi panzer e incitamenti belligeranti. Nella prima parte di “Now That You Are Gone” (la seconda è generico doom) virano l’estetica agli stilemi post-rock e post-metal, su un andazzo ternario folk-rock. Il quintetto patavino tralascia gli sperimentalismi d’avanguardia che imperlavano l’Ep predecessore “Does This Dream Slow Down Until It Stops” (2021) per votarsi all’ethos dei duri e puri, ma nell’esito ci sono più pose che urgenza, più umori su di giri che intensità. L’assenza di assoli è un bene fino a un certo punto. “Giorni persi” (2023), primo singolo, primo pezzo in italiano e prima scimmiottatura (Fine Before You Came), poteva starsene ben fuori. Copiosa co-produzione: Flames Don’t Judge, Fresh Outbreak Records, The Fucking Clinica, Dio Drone, Shove Records, Violence In The Veins, Teschio Dischi (Michele Saran, 5,5/10)
ANTON SCONOSCIUTO – TO MAKE ROOM (Coypu, 2023)
songwriter
Inglese di nascita e senese d’adozione, Anton Sconosciuto è prima di tutto batterista per Koko Moon, Adult Matters e Vera Di Lecce. Nel suo solista “To Make Room” si trasforma in crooner passatista lo-fi, col fiore all’occhiello di “Live In Your Eyes”, la più accesa nel ritmo. In quanto segue spesso si languisce nella nostalgia pop 60, con qualche episodica finezza nel la ballata di “Coat” che si trasforma in strumentale elettronico crepuscolare, nel refrain strascicato, quasi sacrale di “To Meet You”, nelle inserzioni di pop modernista alla Sparks in “What’s Your Name”, lo sfacciato tributo a Donovan temperato da decorazioni “concrete” digitali di “Tides”. Conservatorismo in stile tardo Beck, non innovazione in stile primo Eno. Difficili da prendere sul serio le canzoni, difficile anche sopportare un sound senza grandi guizzi. Ha però esecuzioni pulite e arrangiamenti elegantini. Registrazione casalinga, anzi “nomadica”, in varie abitazioni (Michele Saran, 5/10)
LACOSA – LACOSA (Dischi Soviet Studio, 2023)
new wave
Il nucleo solo strumentale dei Soviet Ladies (Matteo Marenduzzo, Luca Andretta e Paolo Trolese) inventa il progetto parallelo sperimentale Lacosa come tentativo di colonna sonora immaginaria sci-fi. Poi però passa la paura, riammettono la voce (stavolta Walter Zanon proveniente da Disfunzione e MiSaCheNevica) e ritornano all’ovile post-punk di sempre, soltanto con un nuovo nome. L’omonimo “Lacosa” annovera così l’anthem futurista Ultravox-iano sospinto da accordi elettronici di “Words” e, in un registro più chitarristico, la progressione marziale di “Telemachus”, mentre “Je Sus” si dota di ogni pomposità senza arrivare al dunque, e “410 AD” suona come gli U2 del periodo electro ulteriormente remixati e rallentati. Quantomeno in “Oaks” provano a distaccarsi tentando la carta della serenata quasi-psichedelica. La prova migliore, ma nulla di stellare, la dà il nuovo arrivato, gli altri debordano in una certa quale insicurezza amatoriale. Anni di lavorazione – compresi quelli della pandemia – hanno giovato alla ricercatezza dei suoni, non alla riuscita generale. Caduco, poca passione (Michele Saran, 4,5/10)
ATOM MADE EARTH – SONGS FOR A DREAMER (autoprod., 2023)
alt-rock
Passato un poco convincente “Severance” (2019) con nuova line-up, il marchigiano Daniele Polverini per il successivo “Songs For A Dreamer” prende in mano le redini della sua sigla Atom Made Earth fino a imporsi nella realizzazione tecnico-artistica. Dal punto di vista artistico tende a votarsi al pop, ma le uggiose ballate “Asleep” e la più rumorosa e migliore “Rain Market” (a tratti giostrina noise-pop) non s’impennano. Nel lato tecnico compie poi scelte errate di missaggio, per esempio quando spappola l’inciso di piano in “Her And Me” esagerando l’enfasi militaresca a seguire; idem per i pezzi della seconda parte (i più vicini al suo passato prog e post-rock), inni tediosi subissati di fanfare apocalittiche (“Climbing Up The Walls”), glissandi horror (“Night And Day”) o twang tex-mex (“Natural During”). Ad accomunare le parti di questo pasticciato disco di transizione (transizione dalla zona di comfort agli esperimenti, dai brani arzigogolati alla canzone melodica, da band a progetto solista) è il fattore negativo della pompa, una pesante armatura che non gli consente di librarsi con schiettezza in qualcosa di personale. Discrete ipotesi: la new age di chiusa, “Cloud Whisperer”, o il breve coro montanaro su ritmate distorsioni screziate di “Day And Night”. Seconda voce sottoutilizzata di Mariachiara Caraceni (Michele Saran, 4,5/10)
Antonio Santini for SANREMO.FM