Prologo
Ogni album di Beyoncé è un evento. L’annuncio dell’Act II di una programmata trilogia, avvenuto assieme al rilascio di due brani in anticipo (durante la notte dell’esibizione al Super Bowl del povero Usher), ha riacceso la miccia: Beyoncé is going country! Al netto delle opinioni, è ammirevole osservare l’operato di una popstar in giro da oltre un quarto di secolo che ancora sa creare peso attorno a qualcosa di sacro per quelli della mia generazione: il formato album. Dapprima, ci sono stati vari look disseminati lungo apparizioni pubbliche, poi l’arrivo dell’immagine di copertina, infine le dichiarazioni d’intenti e una criptica scaletta, tutto minuziosamente centellinato lungo mesi di speculazioni e dibattiti storico-musicali: “COWBOY CARTER” arriva a noi con tutto l’hype e la pesantezza che da sempre contraddistingue ogni mossa della sua autrice. Ma con ventisette tracce per quasi ottanta minuti di musica, l’ascolto era esagerato in partenza.
Chi può fare country?
“COWBOY CARTER” nasce in risposta alle critiche ricevute da Beyoncé ai tempi di “Lemonade”, quando presentò la propria “Daddy’s Lessons” assieme alle Dixie Chicks sul palco dei Country Music Awards, raccogliendo qualche rimostranza razzista. Ancora oggi, è bastato che una stazione radio rifiutasse di passare il suo nuovo singolo “TEXAS HOLD ‘EM”, facendo malcelatamente perno più sull’identità della cantante che non sullo stile del pezzo, per riaccendere il dibatitto “bianchi contro neri”, qui declinato in guerra culturale tra chi ha creato cosa e chi avrebbe diritto d’intonarla – la stessa questione che, qualche anno fa, ha trasformato il furbo country-rap “Old Town Road” di Lil Nas X nel n.1 più longevo nella storia di Billboard. La stessa “TEXAS HOLD ‘EM”, in America, ha graziato la vetta della classifica generale, ma soprattutto ha conquistato la vetta della Hot Country Songs – prima donna afroamericana a compiere l’impresa.
La domanda è anche pertinente, dal momento che il country non è solo un’espressione musicale bianca e d’indole conservatrice, come spesso ci viene venduta soprattutto fuori dai confini statunitensi. La storia d’America è anche la storia della schiavitù, e le espressioni del folklore locale sono frutto di scambi, rimandi e sotto-correnti tra le varie fette di popolazione. Ci sono stati contributi afroamericani nel country e, più in generale, nella cultura dei cowboy? Certo che sì, e Beyoncé, da fiera southerner e discendente di quelle genti che hanno allevato bestiame e lavorato i campi per secoli, adesso intende omaggiarne le gesta. Che poi, la passione per il rodeo si vedeva già nelle Destiny’s Child grazie ai costumi cuciti a mano da mamma Tina Knowles – e qualcuno ricorda le immagini che accompagnavano il progetto “When I Get Home” della sorella Solange?
Il problema, semmai, risiede nel modo in cui Beyoncé adesso s’immerge in questo nuovo omaggio, dal momento che il suo ruolo di popstar trasformista e miliardaria rischia di essere più performance che altro; la ballonzolante “TEXAS HOLD ‘EM” purtroppo è un concentrato di stereotipi country generati con l’intelligenza artificiale, per quanto legittima possa essere la presenza dell’autrice in tale ambito, il risultato lascia molto a desiderare. In tanti han fatto notare che nemmeno Taylor Swift ha mai zappato la terra e le sue uscite country/folk sono altrettante cartoline per turisti, solo la sua bionda immagine fa centro presso “quel” tipo d’America che invece non si vuol aprire ai contributi di Beyoncé. Sono discorsi ad altissima combustione, che hanno anche un fondo di verità, ma in entrambi i casi, dal punto di vista prettamente musicale, il country al momento sembra meglio servito direttamente da tutt’altre parti.
Più emblematica l’altra traccia in anteprima “16 CARRIAGES”, esangue ballata rock autobiografica non troppo dissimile da certi episodi di “I Am… Sasha Fierce”. Le sedici carrozze del titolo rappresentano i primi sedici anni di vita di Beyoncé, il momento in cui li osserva scomparire all’orizzonte è il momento in cui la gioventù smette di essere “sua”, e inizia la dura scalata che l’ha portata a diventare l’ingombrante personaggio di oggi. Un padre ambizioso, un marito esagitato, una società imbevuta nel sogno americano e nel desiderio di farsi accettare a tutti i costi: saranno anche lacrime di coccodrillo, ma “16 CARRIAGES” riesce perlomeno a illustrarne l’ossimoro senza scadere in facili escamotage, spetta all’ascoltatore stabilire se il risultato è onesto o meno. Peccato però che lo stesso Jay-Z, qualche settimana fa, si sia lanciato in un imbarazzante monologo sul palco dei Grammy, lamentando il fatto che la moglie – attualmente la donna più celebrata nella storia di tale premiazione – non abbia ancora vinto nella categoria di “Best Album”. Non c’è mai fine all’arrivismo.
Il fulcro tematico del disco si esplicita forse meglio nel rifacimento di “BLACKBIIRD” dei Beatles, qui condotto in punta di chitarra acustica ricalcandone fedelmente la melodia. I black birds del testo sono le ospiti: Tanner Adell, Brittney Spencer, Tiera Kennedy e Reyna Roberts, quattro giovani cantautrici afroamericane attualmente in attività in ambito largamente roots, che Beyoncé mette sotto ai riflettori per illustrare la ricchezza della scena. L’omaggio è certo calzante, la canzone molto famosa; viene però da domandarsi se, vista l’occasione, non fosse stato meglio creare qualcosa d’inedito per mettere in mostra stili e capacità delle presenti, invece di riproporre il tema di una vecchia band britannica. Ma questo album vive proprio nell’alternanza tra trionfi, cadute e strambi momenti interlocutori sparpagliati nel mezzo.
“COWBOY CARTER” non è un album country, è un album di Beyoncé
Vero, tolto qualche momento, il lavoro si legge più come una personale raccolta di tradizioni musicali; meglio quindi definirlo come americana – un termine-ombrello che racchiude country, folk, blues, rock, bluegrass, gospel e altre espressioni roots statunitensi.
Da notare la lentezza spesso acustica del lavoro, nonostante i tanti ospiti, una cospicua raggiera di sample e l’uso d’intermezzi per spezzarne il flusso: sia nei momenti campestri, che in quelli più ritmati o finanche d’estrazione hip-hop, l’ottavo album di Beyoncé si snoda come una prateria all’orizzonte.
Certo la magniloquente apertura progressiva di “AMERIICAN REQUIEM” scuote l’ascoltatore, con l’autrice che snocciola aggressivamente le intenzioni dell’album, tra cori gospel, filtri elettrici e schitarrate. Ma è l’acustica a dominare una prima parte d’ascolto, come nel ruspante ma genuino istinto materno di “PROTECTOR”, e nell’ambiziosa “DAUGHTER” che, dal lieve polverio cameristico, si apre con tono operatico nell’aria “Caro Mio Ben” di Tommaso Giordani (i fan della prim’ora ricorderanno una certa “Ave Maria”). Davvero povera però l’idea attorno a “JUST FOR FUN”, mentre Miley Cyrus su “II MOST WANTED” certo fa ambiente, anche grazie all’interpolazione di “Landslide” dei Fleetwood Mac, ma il pezzo snocciola stereotipi di ogni sorta. Quello con Post Malone, “LEVII’S JEANS”, più che sexy, è solo un brutto sogno di Ed Sheeran anche al netto della mano di Niles Rodgers. Fortunatamente, sia la buffa marcetta “BODYGUARD” che la spirale psichedelica di “ALLIIGATOR TEARS” mostrano più curiosità e un gusto sonoro che va oltre la semplice idea di streaming e radiofonia.
Non mancano momenti di pregio; è il caso dell’ipnotica e avvolgente “RIIVERDANCE”, col contributo in fase di scrittura di Raye, traccia abilmente legata alla successiva “II HANDS II HEAVEN” che campiona addirittura “Born Slippy” degli Underworld in un suggestivo tappeto folktronico. Impossibile non sorridere di fronte al botta e risposta di “YA YA”, sfacciatamente arricchita dei sample di Nancy Sinatra e i Beach Boys; qui la vocalist conduce il pezzo con la giusta dose d’energia per trascinare la folla sulla terra battuta in una versione da rodeo di James Brown. E poi c’è il pezzo che tanto ha monopolizzato le attenzioni dei social al momento dell’uscita: “JOLENE” dell’eterna Dolly Parton, riscritta da Beyoncé per aggiornarne le liriche col suo solito simpatico modo di fare da donna alpha. Eleganza poca, ma la sfacciataggine è indubbiamente divertente, la Rete è stato invasa di meme della povera Jolene che ancora si chiede cosa diamine abbia fatto.
Purtroppo “COWBOY CARTER” continua ancora per molto, spesso allungando il brodo con momenti di dubbia estrazione. Non ha peli sulla lingua “SPAGHETTII”, brano che sin dal titolo affronta la tematica della cosidetta “genuinità” facendo notare che, se Beyoncé non appartiene al genere, allora non lo sarebbe nanche lo spaghetti western – peccato però che sonicamente il pezzo sia un pastiche alt-rap senza capo né coda. La cosa si ripete sull’orribile medley “SWEET / HONEY / BUCKLIN“, che la butta in caciara tra Pasty Cline e Pharrell Williams. Molto deludente anche l’altra apparizione di Dolly su “TYRANT”, bizzarro momento liricamente spinto ma montato su una datata base (violin)trap. Spetta ad “AMEN” chiudere l’ascolto legandosi tematicamente ad “AMERICAN REQUIIEM” in apertura.
Conclusioni
Se “RENAISSANCE” era il fratello finocchio sonicamente coeso e straripante di ritmo e umorismo, il secondo capitolo “COWBOY CARTER”, a tratti, si prende troppo sul serio nel tentativo di giustificare continuamente la propria esistenza. Sarebbe stato opportuno applicare una buona sforbiciata alla scaletta, inclusi i tanti intermezzi che spesso aggiungono zero all’economia dell’ascolto.
Certo rimane a Beyoncé l’indubbio coraggio per aver consegnato, ancora una volta, un lavoro lungo e composito pieno di suoni e referenze disseminati come i tanti sassolini di Hansel & Gretel. Tra continui scarti stilistici e varietà di temi trattati, “COWBOY CARTER” si discosta dall’attuale idea di country radiofonico ed è molto meno ruffiano rispetto alle aspettative dettate da “TEXAS HOLD ‘EM” qualche mese fa.
Le scommesse su dove andrà a parare il prossimo capitolo sono già aperte: c’è chi pensa ad un nuovo album dei Carters, chi in una reunion delle Destiny’s Child, chi ancora punta a un album rock o a qualcosa di futuristico ispirato al prossimo arrivo su Marte (?). Staremo a vedere, la carne al fuoco al momento è già tanta anche così.
04/04/2024
Antonio Santini for SANREMO.FM