Si dice, lamentandosene spesso, che il cantautorato impegnato in Italia sia sparito del tutto. È falso. Incontro Lorenzo e Antonio, alias Colapesce e Dimartino, alla Sony in Milano: chiacchieriamo di tutto, dall’uscita del nuovo album Lux Eterna Beach al senso dell’impegno civico e politico di due intellettuali prestati alla canzone spesso anche leggera (leggerissima?).
Ragazzo di destra, lanciato da qualche giorno, è già un inno criticato e amato, usato per video-meme e citazioni di ogni genere sui social. Ma Antonio e Lorenzo, in questo pomeriggio milanese pieno di pioggia, mi dicono davvero di tutto: chiacchieriamo di Franco Battiato e della loro gavetta, della scomparsa del fisico catanese Ettore Majorana a cui hanno dedicato una canzone straordinaria, e poi delle loro letture di Roberto Bolaño o di Bufalino, di una Sicilia espansa e mistica, e infine della necessità di prendere posizioni politiche rilevanti anche per musicisti che non disdegnano in nessun modo la produzione di musica da intrattenimento.
Per me, che provo a fare il filosofo e altre cose anche a me poco chiare, Lorenzo e Antonio sembrano chiaramente il miglior esempio italiano di cosa significhi esplorare diversi livelli di lettura nell’arte di massa: un’idea potente, che in qualche modo deve arrivare a tutti, e che usa la musica per trasportare parole altrimenti ascoltate solo da pochissima gente.
Sentite, ma è vero che pensate di tornare un po’ da soli per la vostra strada dopo quest’ultimo album?
Colapesce: Beh sì, però anche in questo progetto in due in realtà manteniamo sempre una nostra individualità, non ci siamo preclusi nulla, viviamo alla giornata e non programmiamo troppo le cose che facciamo insieme. Sicuramente ci prenderemo una pausa dopo questo percorso che dura da quattro anni. Abbiamo fatto tre dischi, il film, abbiamo bisogno di respirare però non sappiamo cosa succederà con le nostre carriere da soli, non c’è ancora un progetto specifico.
Dimartino: Sì, non ce lo siamo chiesti neanche noi… scriviamo entrambi canzoni quindi magari faremo dei dischi solisti e poi magari ci rincontriamo, non si sa. Il nostro rapporto è veramente basato su “vedere, fare”. Quando abbiamo fatto I mortali e abbiamo portato a Sanremo Musica leggerissima, e poi il successo strano che ha avuto, è sempre stato tutto basato sugli umori della giornata, quindi vedremo.
Invece, per trasformare questa domanda in qualcosa di più concreto, quanto riuscite o quanto avete l’esigenza di controbilanciare una ricerca profonda sui temi, sulla musica, che richiede penso anche un momento di silenzio, di pausa, di fine dello spotlight continuo, delle richieste perenni che vi arrivano? Immagino che una ricerca musicale come quella che fate voi abbia bisogno di un periodo di studio che non è soltanto intuitivo, ma è anche uno studio sia sulla ricerca musicale sia sulle tematiche. Questa cosa come la state vivendo? Cioè il fatto di essere proprio, come dire…
Colapesce: Sempre assorbiti…
Sempre avvolti letteralmente dallo stesso sistema che in parte voi nelle vostre canzoni criticate. Non siete due che fanno uno spot di quanto è bello il mondo.
Colapesce: Siamo diventati bravi nella gestione del tempo. Per dire, durante il film nelle pause abbiamo sempre lavorato, preso appunti per questo disco.
Dimartino: Splash l’abbiamo scritta mentre giravamo il film.
Colapesce: Praticamente sì, ci abbiamo lavorato tantissimo, tipo tre, quattro mesi, però ci prendiamo il tempo anche per studiare… Poi chiaramente più fai le cose, immagino anche nel tuo lavoro, più hai padronanza con la produzione. Quindi magari non ci stiamo su due mesi se abbiamo un’idea chiara. Anche il team di lavoro, per quanto riguarda la parte della produzione musicale, è rodato.
Dimartino: È poi lo stesso che ha fatto la colonna sonora, lo stesso team che ha fatto questo disco. Siamo io, Lorenzo e i due produttori, che sono Federico Nardelli e Giordano Colombo. Essendo tutti e quattro musicisti ci viene più immediato entrare in studio e registrare, perché abbiamo i microfoni già accesi, capito? Tutto più immediato rispetto a, che ne so, io che devo fare un disco mio e devo ricercare musicisti e capire dove farlo, banalmente. Invece, avendo finito la colonna sonora e avendo collegato il disco subito, è stato tutto molto più veloce. Forse l’idea di ottimizzare i tempi deriva anche dal fatto che negli anni abbiamo creato una squadra di lavoro che…
Colapesce: Che è anche una grande lezione rubata a Nick Cave. Lui tutte le mattine si sveglia, va in ufficio e scrive, l’ha presa come una professione seria. Non crediamo al fatto che all’artista arrivi ispirazione dal nulla.
Io non ci credo per nulla, per quello vi faccio questa domanda. L’esigenza dello studio e della ricerca.
Colapesce: La ricerca la puoi fare, però hai bisogno di svegliarti la mattina, andare in un luogo, scrivere, leggere, fare delle prove. E abbiamo fatto varie settimane così. L’ultima volta prima di entrare in studio, sono stati dieci giorni in Sicilia, in una villetta normale, dei miei, diciamo una villetta di famiglia, in cui avevamo questa tastiera anni ’90 di mio zio, una scheda audio, una chitarra, l’essenziale per poter scrivere l’ossatura di una canzone. Molti suoni di tastiera quasi posticci un po’ da… come dire… mio zio è buddista, questi suoni rarefatti che poi in parte abbiamo anche lasciato nel disco. La nostra idea è ottimizzare i tempi e a darci una costanza nel lavoro.
Perché l’idea dell’artista che si sveglia e deve scrivere un capolavoro è una scemenza.
Dimartino: Ci sono anche le canzoni che ti escono tutte subito… Capita nella vita di un cantautore, ma capita raramente…
Una volta ho avuto la possibilità di intervistare Franco Battiato, mi disse che Povera patria gli era venuta mettendosi al pianoforte e gli era uscita così, di botto, non l’aveva mai provata.
Dimartino: Capita.
Sì, l’ha partorita, mi ha detto proprio così.
Dimartino: In un progetto di duo è difficile che capiti. Ci può essere uno dei due più ispirato, però comunque il processo coinvolge due personalità diverse e quindi non è facile che accada una cosa del genere. Nel nostro caso, magari a uno viene l’idea del tipo di canzone che vuole scrivere, di cosa vuole parlare, e l’altro la sviluppa. Per esempio io ho due parole e Lorenzo aggiunge quelle dopo. Siamo diventati bravi a completare le mancanze dell’altro.
Colapesce: Questo è culo, eh, non è una cosa che impari o che succede sempre. Facendo gli autori da tanti anni spessissimo facciamo delle session con autori, musicisti di estrazione diversa e non sempre…
Ci si amalgama, diciamo…
Colapesce: È raro. Che poi alla fine scrivere è mettirti nudo e devi vincere quella… non so come dire… paura forse, è strano da spiegare.
Dimartino: Per certi versi è una seduta di psicoterapia.
Colapesce: Sì.
Dimartino: Per arrivare al concetto, all’osso, magari tu la puoi capire questa cosa perché forse anche tu nel lavoro di scrittore spogli tutto per arrivare all’essenza del discorso ed è un processo che fai da solo nella tua testa. Farlo in due è diverso. Però in questi anni siamo riusciti a elaborare questo tipo di processo in maniera abbastanza naturale, forse perché ci conosciamo, ognuno di noi conosce le debolezze dell’altro.
Immagino ci sia soprattutto una profonda amicizia di base.
Dimartino: Quella naturalmente ha aiutato. Però sai, in questi anni abbiamo fatto talmente tante cose, ci siamo trovati talmente in tante situazioni che se era solo amicizia poteva finire anche subito. In realtà c’è un’alchimia a cui teniamo molto e che vogliamo salvaguardare. È un’alchimia strana, quasi metafisica.
Ragazzo di destra ha cominciato a generare delle piccole polemiche, Libero, Il Foglio. Qualcuno, ho sentito, ha detto che è una canzone di impegno civile. Forse in uno strano paradosso lo è, cioè mostrando lo stereotipo del ragazzo di destra, voi comunque state prendendo una posizione, state raccontando qualcosa, e quindi finché cantate Musica leggerissima nessuno vi rompe le scatole, quando cantate Majorana lo capiscono in 15 che state parlando della scomparsa di Ettore Majorana e non dell’istituto Majorana dove ci si fa le canne. Ragazzo di destra invece arriva a tutti, e a qualcuno non piace, no? Prima vi ho fatto l’esempio di Povera patria di Battiato, tra l’altro di un cantautore che secondo me vi somiglia moltissimo su tantissime cose… forse c’è anche la Sicilia in mezzo a tutto ciò, c’è un controbilanciare i pezzi più facili, che in qualche modo possono essere più ecumenici e che arrivano a tutti, con pezzi molto più raffinati sia musicalmente che concettualmente e pezzi come Ragazzo di destra che pur magari nella facilità impattano su tematiche che non piacciono a tutti.
Dimartino: È una canzone sulla paura.
Colapesce: Sì.
Dimartino: Alla fine poi la politica c’entra fino a un certo punto. Noi non facciamo politica.
Colapesce: Diventa politica, però solo in un secondo tempo.
Dimartino: Diventa un messaggio politico nel momento in cui ci vuoi trovare per forza un messaggio politico, ma in realtà noi pensavamo a questa canzone come La guerra di Piero. Ci sono questi due soldati che si incontrano su un crinale e ognuno ha una divisa di un colore diverso, ma entrambi sono accomunati dalla paura. Nella nostra canzone a un certo punto nel finale lo diciamo proprio: “come me hai paura, ma è una splendida sera”. Perché è una canzone che vuole dire questo concetto: l’odio genera paura.
Io l’ho trovata molto affettuosa nei confronti del ragazzo di destra, questa canzone. Dopo che mi avevi detto che c’erano state polemiche, l’ho riascoltata due, tre volte: se uno la ascolta e non si beve il cervello, è un atto di profondo amore universale questa canzone. Cioè non viene fuori che il ragazzo di destra è un coglione che deve morire. Viene fuori che c’è un desiderio di comprensione comune. Perché secondo voi la percezione è «ah i comunisti che se la prendono»?
Colapesce: Forse per un ascolto sommario del brano. Noi non generalizziamo, si chiama Ragazzo di destra, quindi è la storia di un ragazzo di destra, non sono tutti uguali i ragazzi di destra. Gran parte delle cose che diciamo non fanno certo parte del nostro linguaggio, della nostra grammatica.
“Invasori” non è una cosa che diciamo, non siamo i paladini della “famiglia tradizionale”. Sono tutte cose che dicono nei loro programmi.
Tra l’altro è tristemente o forse non tristemente attuale questa cosa, no?
Colapesce: Il pezzo aveva anche una parte centrale diversa.
Dimartino: Sì c’erano altre parole.
Colapesce: Ci siamo confrontati con la comunità LGBTQ+, con gli amici, perché nella parte dove prende voce il ragazzo di destra, “andate tutti via adesso faccio un muro, non voglio più vedere…”, noi dicevamo all’inizio un’altra cosa.
Che immagino fosse il termine con cui si chiamano in modo dispregiativo gli omosessuali.
Colapesce: Esattamente, e anche la parte dei neri era…
Era con la G, diciamo.
Colapesce: Era con la G, però non volevamo prendere cose non nostre… ci sembrava una specie di appropriazione culturale, volevamo evitare questa cosa.
Dimartino: Non volevamo ritrovarci al concerto la gente che cantava questi termini.
Colapesce: Anche se era chiaro che era il ragazzo di destra che parlava.
Avete fatto bene perché in questo momento il dibattito è che non li puoi usare se non fai parte di quella comunità, per cui…
Colapesce: Ed è anche giusto, cioè da un lato inizialmente eravamo un po’ titubanti perché ci sembrava di autocensurarci. Poi abbiamo capito che non è una questione di autocensura. Tanto alla fine il significato arriva.
Qual era il desiderio comunicativo profondo? La paura, l’ho capito, però la canzone nasce anche nel momento in cui abbiamo un governo di destra.
Dimartino: Esatto, non so se questa canzone aveva senso farla dieci anni fa. In questo momento storico in cui al governo non c’è un centro-destra, ma la destra, cioè vuol dire che al governo ci sono i fascisti…
In che senso? Nel senso che sembra esserci una totale mancanza di presa di posizione rispetto alle cose che stanno succedendo, cioè che i cantanti vogliono piacere un po’ a tutti?
Colapesce: È così.
Dimartino: Tutto è legato al fatto che loro sono fascisti. Siamo seri… il concetto di sostituzione etnica non è di centro-destra o da Democrazia Cristiana. È un concetto legato a un periodo storico particolare. Per cui uscire con una canzone del genere vuol dire anche prendere una posizione. Ci siamo assunti la responsabilità di prendere una posizione vera. Potevamo benissimo uscire con un altro pezzo o questo pezzo metterlo nel disco senza valorizzarlo. Però ci sembrava giusto che in questo momento una canzone prendesse posizione. E anche noi come artisti, perché sarebbe bello sentire nei prossimi New Music Friday canzoni che dicono delle cose e non soltanto storie d’amore…
Il vostro ruolo nella comunità a cui appartenete come lo vivete, cioè come ne fate parte?
Colapesce: Non ci sentiamo i salvatori, però sentiamo la responsabilità personale di mettere sempre dei contenuti. Ma anche Musica leggerissima, che è un pezzo che ha avuto un enorme successo, in realtà parla di depressione. Vale anche per Splash, ci sono sempre vari livelli di lettura.
La strofa forse più ripetuta e pop della vostra carriera, “ma io lavoro per non stare con te” è un manifesto del fallimento della famiglia tradizionale profondissimo. Ci sono appunto cento livelli di lettura. Però per il pubblico diciamo non esperto di musica l’impressione è che ci sia stata quasi una pausa in Italia del cantautorato impegnato.
Colapesce: Siamo stati anestetizzati, ma pensiamo che il cantautorato italiano possa ritornare centrale. Nella storia della canzone e del cantautorato, non solo in Italia, la canzone di protesta nasce sempre in un momento di oppressione, di crisi, in periodi particolarmente violenti. Se pensi al Sudafrica, al ruolo di Rodríguez a sua insaputa o Víctor Jara che viene giustiziato. Dagli anni ’80 in poi, diciamo dal Drive-In un poi, c’è stata un’ondata di benessere e una sorta di anestesia totale della canzone. A un certo punto la canzone d’autore è morta, la canzone impegnata non aveva più senso di esistere. Così è stato anche per gran parte degli anni ’90 e tutto il ventennio berlusconiano.
Con una pausa nel rap mi verrebbe da dire, no?
Colapesce: Nel rap underground qualcuno qualcosa lo ha sempre detto, come i 99 Posse negli anni ’90.
Forse anche i primi Articolo 31 hanno avuto momenti di impegno profondo.
Colapesce: Però il ruolo del cantautore a un certo punto viene meno. Secondo noi in questo momento storico, in cui nessuno ormai dice più niente, sono tutti a rincorrere la radio, il social, l’edit di 15 secondi per TikTok e tutte queste cose qua. Pensiamo invece che può tornare centrale il ruolo del cantautorato in generale.
Dimartino: Anche perché la canzone è qualcosa di molto leggero, dura tre minuti, trasporta delle parole. È una grande magia perché puoi raffigurare un’immagine attraverso melodia e parole. È una cosa che non hanno altre forme, il libro te lo devi leggere tutto se vuoi capire di cosa parla, il film lo devi guardare, la canzone invece l’ascolti per tre minuti e in quei tre minuti c’è la possibilità che tu cambi idea su qualcosa. Cioè la canzone può agire nell’intimo, naturalmente non può fermare le guerre, non può cambiare l’ordine delle cose, non può cambiare la politica. Però può cambiare l’intimo delle persone. Può raccontare la tua storia d’amore, ma anche dire delle cose e a questa idea noi crediamo molto.
E cosa vuol dire uscire con un album in un momento in cui forse non vi immaginavate che ci sarebbe stata la pseudo Terza guerra mondiale? C’è qualcosa di contraddittorio in ogni lavoro creativo, però per voi che significa, come vi sentite rispetto a questa situazione?
Colapesce: Se mi astraggo, diciamo, mi sembra futile.
Dimartino: Non è che la musica italiana in questo momento può salvare chissà che cosa, però.
Infatti io dicevo proprio anche la retorica. In fondo voi siete, almeno per come vi vedo, due intellettuali prestati alle canzoni. Nel senso che il vostro media è la canzone, però chiaramente è un lavoro profondamente intellettuale il vostro. C’è ricerca nel testo, c’è ricerca musicale, non è una cosa fine a se stessa. Il testo come è calibrato, i temi di cui vi occupate, cose che confluiscono dentro… no? Eppure forse è più attuale che mai anche non aver voglia di niente quando ti sta crollando il mondo addosso.
Dimartino: Prendi “Posa il manganello e prendi un fiore”. È una frase super banale, e lo dico da autore assieme a Lorenzo, è una frase che mette in contrapposizione due elementi, che sono il manganello e un fiore, che sono due elementi che comunque riesci a visualizzare. Esprime un concetto di pace, che però non fermerà nessuna guerra. Ma è importante.
Nessuno di noi può fermarla.
Dimartino: Però in questo momento ha un senso. C’è del senso anche che qualcuno dica una frase banale come questa. Una parte la devi prendere, non puoi rimanere inerme.
Infatti i media, gli stessi giornali che non hanno visto proprio di gran cuore Ragazzo di destra sono anche i giornali che stanno raccontando questo conflitto in modo molto particolare. Forse questa cosa ci dice qualcosa, no? Forse pensavamo di essere molto lontani dai tempi di censura o dai tempi di impossibilità di raccontare tutti i lati della storia…
Dimartino: Anche il fatto che il governo attuale si è astenuto nel voto relativo alla risoluzione dell’ONU…
È una cosa gravissima questa qua.
Dimartino: A questa cosa comunque ci pensiamo, questa cosa qua in questo momento per noi è importante, e mette l’Italia sotto una luce diversa a livello internazionale, è come se fossimo tutti a favore di Israele e nessuno sta pensando ai palestinesi. Questo è un momento storico particolare per cui il nostro ruolo in questo momento, che usciamo con un brano come Ragazzo di destra, è prendere posizione.
Colapesce: E prendere le distanze. Vedo per esempio qualcosa di simile nella scelta di Zerocalcare di non andare a Lucca.
Fumettibrutti ha detto la stessa cosa.
Colapesce: È giusto che la comunità di artisti e intellettuali di qualsiasi tipo prenda posizione. Negli ultimi anni è diventato tutto un grande post. Magari parli alla tua cerchia, quindi non stai spostando assolutamente nulla, perché io sono sicuro che quelli che seguono te come filosofo e che seguono noi come musicisti sono sempre le solite persone.
Però è anche vero che voi avete un potere che l’intellettuale di altri media non ha, la vostra musica può venire cantata anche dal ragazzo di destra, anzi, probabilmente lo è. Non è che uno si è mai preoccupato delle vostre idee politiche prima di ora. Forse è anche giusto così, la musica ha la sua democraticità, vi seguiva a prescindere. Ma ora cosa è cambiato?
Dimartino: Tanta gente ci ha scritto: «Ci avete deluso».
Pensavano foste apolitici, cazzate del genere.
Dimartino: «Non parlate di questa cosa», ci dicono, «dedicatevi alla musica, evitate di parlare». Però vaffanculo… La musica è rottura. Deve essere comunque qualcosa che che ci interessa.
Colapesce: Non dobbiamo per forza piacere a tutti.
Infatti quando Battiato fece Inneres Auge, la canzone in cui parlava del bunga bunga, un sacco di gente gli disse: «Ah, pensavo che lei, maestro, fosse al di sopra delle parti». E lui: «Stanno spendendo i soldi pubblici per andare a puttane e non posso non prendere posizione?». Voi state prendendo posizione per un tema molto più grave. E così che avete deciso di lanciare come seconda canzone dell’album proprio questa? Una canzone che già cantano tutti.
Dimartino: Ma sai che io non ho la percezione di sto pezzo?
Perché ne sei l’autore.
Dimartino: Non sto capendo realmente dove sta andando.
Colapesce: Meno male, nel bene e nel male, perché anche le critiche alla fine servono in questo caso. Non vogliamo piacere a tutti.
Invece io prima vi citavo questa bene canzone che io amo molto, quella su Majorana. La avrò ascoltata 200 volte, credo di avere una fissa con Majorana. Ed è uno dei tanti pezzi che avete scritto dove il livello di lettura è più sofisticato, no? Giocate con i doppi sensi, non è detto che la gente vi capisca, eccetera. Che cosa significa nascondere dei livelli di lettura delle canzoni per voi? Se significa qualcosa…
Dimartino: È fondamentale, è davvero fondamentale. Ne parlavamo oggi in pausa pranzo. Una canzone che dopo dieci anni ti continua a parlare perché ci hai trovato un altro significato è magia. A me capita spesso, con De André per esempio, ascolto le sue canzoni dopo anni e ci trovo altri significati. Riesco a capire una frase dopo tanto tempo. Le canzoni hanno questo potere di rivelarsi nel tempo e di dare nel tempo un significato.
Quando poi uno dice: ah ecco di cosa stavano parlando.
Dimartino: È una cosa incredibile. La musica che ti stordisce la prima volta all’inizio non ti fa capire le cose, che col tempo ti arrivano. E Majorana sicuramente … il doppio senso Majorana, marijuana.
C’è una scuola Majorana in ogni città d’Italia, ma in realtà parlate di un fisico.
Dimartino: Però quanti sanno che Ettore Majorana è scomparso su un traghetto?
In pochi secondo me.
Dimartino: In pochi e noi con quel pezzo ragionavamo proprio sull’idea della scomparsa dai paesi da cui entrambi veniamo. E nelle nostre comunità tanti ragazzi se ne sono andati.
“E anche tu scomparso da un po’”.
Dimartino: Quest’idea di scomparire dai gradini della scuola verso il nulla. Queste figure che a un certo punto diventano dei ricordi, diventano dei pensieri. Ci emozionava, sono delle cose che entrambi abbiamo provato. La canzone parla di questo, di quelli che abbiamo conosciuto e che a un certo punto non abbiamo più visto, non ne abbiamo più neanche sentito parlare.
Cosa vi aspettate da questo disco? Sinceramente, che cosa vi muove questa volta?
Colapesce: Ci auguriamo che rimanga nel tempo, nel momento in cui oggi i dischi sono soggetti a sparire dopo due settimane. Ci auguriamo che queste canzoni. rimangano. Restino e maturino. Questo mi auguro io dal disco.
Dimartino: Oggi anche i dischi importanti escono giovedì e tipo venerdì sono morti.
Questo capita con tutti i prodotti culturali, no? Con il libro, con le mostre.
Colapesce: Siamo consapevoli di questa cosa, che sono effimeri come oggetti. Per questo negli ultimi anni abbiamo cercato di diversificare il nostro lavoro, lavorando anche con l’audiovideo, abbiamo fatto il film, abbiamo fatto il cortometraggio, cerchiamo di espandere i contenuti nei media.
Per questo secondo me c’è una connessione profonda col lavoro di Battiato, magari voi non la vedete, però la Sicilia è osservabile in modo poderoso in voi.
Dimartino: Battiato ha parlato della Sicilia come se non fosse la Sicilia, ma un’isola del Giappone. Noi lo amiamo Franco. Cioè non lo so, è bellissima questa idea che c’è anche nel nostro film di parlare della Sicilia, ma allo stesso tempo non parlare mai di lei.
Come ve la portate appresso, nel vostro lavoro?
Colapesce: La Sicilia come fai a non portartela? Noi soffriamo di un eccesso di identità. Come te.
Sono d’accordissimo, ma voi nello specifico, cioè Antonio e Lorenzo, come ve la portate?
Colapesce: Io sono sempre là con la testa, pure se sono a Berlino. Comunque non te la la togli di dosso mai, la Sicilia. È qualcosa di viscerale.
C’è una connessione col vostro venire dalla Sicilia – che è una terra che costantemente contraddice qualsiasi desiderio di chiusura, di identità, di antagonismo nei confronti della diversità perché è costantemente attraversata, attraversabile, di tutti e di nessuno – e le vostre idee musicali e politiche? La Sicilia non la puoi afferrare mai come tua e basta.
Dimartino: Allora, sicuramente essere nati in Sicilia all’inizio degli anni ’80 ti metteva nella condizione di avere visto una serie di cose che accadevano in quegli anni che ci hanno influenzato molto come artisti. Entrambi veniamo da due paesini in cui toccavi con mano l’ingiustizia, non era il luogo più semplice dove vivere nell’86-’87. C’è da parte mia, ma anche da parte di Lorenzo, un’idea di rivalsa nei confronti di un’infanzia vissuta tra sparatine, morti ammazzati, eccetera.
Probabilmente se te lo avessero detto non ci avresti creduto che stavi qua oggi? Dico male?
Dimartino: Probabilmente no. Quando eravamo piccoli l’alternativa era diventare delinquente o andarsene, non c’era l’idea di di fare musica che probabilmente è nata anche dalla voglia di riscatto. Che non significa riscatto dall’ignoranza o dalla povertà, ma riscatto da una terra che non era il luogo più semplice dove vivere. All’inizio degli anni ’90 da noi la mafia uccideva i giudici, io mi ricordo l’esercito che è arrivato a Palermo. Camminavamo per strada e c’era l’esercito, non era normale. Per cui sì, l’idea del riscatto sicuramente c’è e probabilmente l’idea del Ragazzo di destra è connessa a tutto ciò: un certo impegno che deriva dalla nostra adolescenza in un luogo non semplicissimo.
E comunque ho visto che le prime date del tour che sono sold out sono quelle a Palermo, no?
Colapesce: È un club più piccolo rispetto agli altri perché in Sicilia non ci sono grandi club, però è vero.
La sentite ancora tanto la Sicilia in voi, eh…
Colapesce: Quando sono nervoso e mi devo rilassare penso a Ognina, vicino Siracusa, che è il luogo in cui sono cresciuto.
Secondo voi è possibile uno spostamento da Nord a Sud del lavoro di musicista? Voi diventate giocoforza dei modelli per quelli che vogliono fare il vostro lavoro e questa penso sia una responsabilità che sentite. Quanti ragazzi oggi vogliono fare il vostro lavoro? È possibile uno spostamento dell’economia musicale, dell’industria della musica verso il Sud?
Dimartino: Penso che il limite della Sicilia sia geografico. Palermo è una città super viva, accade veramente tantissimo, il teatro, il cinema, girano un film a settimana a Palermo, cioè sembra un set a cielo aperto.
C’è stata la rinascita, dicono, di Palermo.
Dimartino: Però ha un limite geografico, se devi promuovere un disco come stiamo facendo in questo momento da Palermo è un po’ difficile perché le strutture che si occupano di comunicazione sono a Milano.
Colapesce: Banalmente la discografia, gli editori non sono manco a Roma. Fuori da Milano è come se non esistesse nulla da un certo punto di vista. È triste come cosa, però… Vabbè, noi abbiamo vissuto io a Catania, lui a Palermo per tanti anni facendo questo lavoro e quindi abbiamo viaggiato. La nave era la casa, la nave Catania-Napoli.
Perché avevate gli strumenti, niente aereo dunque.
Colapesce: Partivamo in cinque o in sei…
E che rapporto avete con la vostra gavetta?
Colapesce: Tenerezza.
Dimartino: È bellissimo, ne parliamo spesso… i locali assurdi e i posti che abbiamo frequentato come cantanti.
Colapesce: Entrambi abbiamo fatto veramente di tutto.
Dimartino: La mia prima band è del 1998, sono 25 anni quest’anno. Fare la gavetta in Sicilia alla fine gli anni ’90 significava suonare nelle pizzerie. Tu immagina, era un disastro, il rock meraviglioso e la pizza capricciosa.
Colapesce: Oppure alla Festa dell’Unità o bar di periferia a Catania.
Devo dire che Catania alla fine degli anni ’90 qualcosa di musicalmente rilevante l’ha fatta. C’erano gli Uzeda, non doveva essere così male.
Colapesce: Per me Catania era il Taxi Driver, dove succedeva di tutto. E io a 16 anni non potevo accedere a niente, però i primi concerti importanti che ho visto al Taxi Driver mi hanno salvato, è stato il cuore della musica alternativa.
Dimartino: A Palermo invece c’era tanto jazz.
Colapesce: Però, se volevi suonare davvero ti dovevi spostare.
Dimartino: Guarda, ti facciamo ridere… Abbiamo un ricordo comune, che è questa mensa a Faenza, al meeting degli indipendenti nel 2002 o 2003. C’era questa mensa interaziendale e fuori pioveva. Allora ci dicono, tanto non contavamo nulla, che i gruppi li fanno suonare nella mensa. Noi due eravamo là con due band diverse e non ci conoscevamo, e non ci saremmo conosciuti fino a altri dieci anni dopo.
Ha avuto una funzione tutto ciò? Oggi l’idea è che a 20 anni prendi e sbam, diventi famoso, o la va o la spacca.
Colapesce: A volte penso sia servita a me come essere umano, come musicista, e poi altre volte penso: minchia, che sbatta è stato fare tutto questo. Per cui, quanta rabbia, quanta frustrazione. Non sempre è stato semplice, moltissimi talenti hanno mollato ed è un peccato e forse oggi sarebbe andata in maniera diversa. Perché alla fine ci devi campare con la musica e all’epoca non ci campavi. Siamo arrivati in un periodo storico in cui la discografia era morta, non si vendevano i CD, non si vendevano i vinili, non c’era lo streaming, non c’erano le radio, non c’erano le discografiche, non c’era niente. Siamo nati praticamente in questo nulla, nel vuoto totale.
Dimartino: Nel passaggio tra il disco e l’mp3.
Colapesce: Anche l’etichetta 42 Records, quando è nata con Emiliano Colasanti, era nata per esigenze pratiche, ma non sapevamo niente di edizione. Cioè non esisteva nulla. Era un mestiere che ci stavamo reinventando da zero in quegli anni perché non c’era niente.
Dimartino: L’idea di andare in radio era folle, la cosa più lontana che potevi pensare facendo musica. Sai quando dici «questo pezzo può andare in radio»? Noi ci ridevamo: «Impossibile, non lo passerà mai una radio seria!».
Colapesce: Infatti non lo passavano.
Sentite, ma cosa leggete voi? Cosa entra nella vostra musica dei libri, quali letture?
Colapesce: Lui ormai è entrato in fissa con i russi.
Dimartino: Ora sto leggendo I detective selvaggi di Roberto Bolaño. Lo conosci?
Certo, capolavoro. Io ho avuto il momento 2666, una fatica enorme.
Dimartino: Io Bolaño non l’avevo letto mai, pur essendo appassionato di letteratura sudamericana. Ma sì mi piacciono tanto anche i russi…
E ci entra qualcosa delle vostre letture nella musica?
Colapesce: Forse sì, di rimando qualcosa sì, sicuramente. Per esempio Bufalino secondo me ci è entrato varie volte, soprattutto ne I mortali. Anche in quel caso è sempre una riscoperta, quando vai a rileggere i libri è un po’ come quando riascolti le canzoni e trovi sempre una cosa nuova, nascosta dietro ai testi. Adesso sto leggendo un libro di Rick Rubin, una roba legata alla musica. Non è un produttore classico, ma un po’ mistico, quindi dà delle massime sulla psicoacustica ed è molto interessante… mi sono bloccato su questa cosa.
Dimartino: A me la lettura mi dà uno spazio di serenità. La cosa che mi dà più e poi mi ispira. Mi fa stare bene.
Colapesce: Una forma di educazione e di meditazione.
Dimartino: È una riscoperta di me stesso. Sto leggendo un sacco di classici, quest’estate ho letto per la prima volta L’idiota, che libro assurdo, incredibile.
C’è qualcosa di rivoluzionario nel leggere i russi oggi.
Dimartino: È che io i russi ho iniziato a leggerli a 16 anni, ma non ho capito un cazzo.
È che sei obbligato a leggerli, te li danno a scuola, ti danno L’idiota, ti danno Delitto e castigo.
Dimartino: Ho 40 anni, leggo Stalingrado di Grossman e volo. Ci vedo dentro la storia, riesco a capire delle dinamiche di oggi. È il consiglio che do a tutti: riscoprite tutti i classici. Sembra una frase di Augias, madonna che vecchio che sono.
Poi, nella speranza che si leggano questa intervista, che sarà chilometrica per gli standard del digitale, è bene comunicare a chi vuole fare un mestiere come il vostro che certe cose vengono anche dal fatto che uno guarda molti film e legge molti libri. Si va poi in modo sincretico in musica e vengono due minuti, tre minuti di canzone.
Colapesce: A me però piace anche la musica di mero intrattenimento, non siamo per forza dell’idea che la musica debba essere intellettuale.
Anche i libri sono intrattenimento alla fine, no?
Colapesce: Sì, però spesso quando si parla di musica colta c’è una forma di snobismo. In realtà la musica deve essere di tutti. L’altro giorno ho visto che hai pubblicato la recensione di Massimo Cacciari di Metafisica concreta e hai ragione te, è vero che non puoi fare una roba di supercazzole e poi non arrivi a niente.
Secondo me è una cosa molto grave, invece appunto gli oggetti musicali come questo, i progetti letterari di altro tipo alla fine devono estendersi su tutti.
Colapesce: Altrimenti l’arte diventa una “autosega”. E non ci piace.
È autoerotismo, diventa un’altra cosa. Va bene, grazie assai, buona fortuna.