Il ruggito del jazz elettronico italiano
di Matteo Contri
In una giornata d’incessante pioggia, ai tavolini di un bar poco fuori l’Auditorium Parco della Musica di Roma, abbiamo incontrato i C’mon Tigre prima della loro esibizione nel teatro recentemente dedicato al maestro Ennio Morricone. Il duo alla guida del collettivo che ha portato una ventata di cosmopolitismo e innovazione elettro-jazz nella scena musicale italiana è reduce da una lunga giornata di prove in vista del debutto live del loro terzo lavoro in studio, “Scenario” (Intersuoni, 2022), arrivato dopo l’esordio self titled (Africantape, 2014) e il sophomore “Racines” (BDC / !K7, 2019). Abbiamo scambiato due parole con loro sul nuovo disco, sul ritorno alla musica dal vivo e su questi ultimi, complessi anni…
Prima “Racines”, oggi “Scenario”, già la parola che avete scelto come titolo apre diverse strade all’immaginazione, in francese ad esempio – una lingua per voi familiare – vuol dire anche “sceneggiatura, script”… Potete declinarci i vari modi in cui “Scenario” riesce a descrivere le nuove canzoni?
“Scenario” è un termine collettivo che abbiamo trovato per descrivere un lavoro multi-sfaccettato che segue diverse linee narrative per tracciare diversi scenari. Ci siamo appoggiati nella scrittura all’ispirazione che ci ha fornito il lavoro di Paolo Pellegrin, un fotografo dell’agenzia Magnum che documenta da anni le cose che succedono nel mondo, principalmente le parti più potenti da vedere, quindi si parla spesso di tragedie, catastrofi, guerre… Abbiamo preso in prestito il suo occhio in un periodo di immobilità totale per tutti, il suo lavoro è stato continuare a viaggiare con noi, e abbiamo ricostruito una serie di scenari da esplodere, su cui abbiamo costruito il disco. Quindi per noi “Scenario” è una realtà, ma è anche un’immaginazione, è esattamente nel mezzo. Calza a pennello.
Ecco, che ruolo gioca la componente visiva/visuale nel vostro lavoro? Le immagini ispirano la composizione o vengono successivamente?
Alcune volte sì, altre volte no. “Scenario” è stato un lavoro a sei mani, le nostre quattro più le due di Paolo. La traccia “Migrants” è stata quella che ha dato il “La” a tutto il lavoro ed effettivamente si appoggia a un reportage sulle migrazioni dalla Libia verso l’isola di Lesbo del 2015 – su quello in particolare abbiamo lavorato per qualcosa che vedrà la luce fra poco – dopodiché abbiamo continuato la nostra produzione musicale collegandoci a diversi momenti del suo lavoro.
Una comunicazione tra il vostro e il suo lavoro…
Sì, in generale mentre gli altri lavori avevano uno stampo quasi prettamente artistico e solitamente l’immaginario visivo è venuto un po’ in conseguenza della musica, stavolta la differenza è stata che è venuto prima. Anche i temi sono forti rispetto all’attualità. Questa volta il lavoro di Paolo ci ha ispirato.
Esplorando l’apparato visivo, che è fondamentale, notavamo che Pellegrin lavora spesso in bianco e nero, mentre voi lavorate molto coi colori – la componente visuale è forte, la tigre, ad esempio – anche se “No One You Know” è un video in bianco e nero dove però il colore è intenso…
Dipende anche dalla mano di chi fa il lavoro: dall’autorialità di un fotografo come Paolo o da quella di un illustratore come Daniel, che tende a lavorare a china…
A proposito dei vostri video, dato che sono sempre coinvolgenti, forti e belli, come sono nate le collaborazioni con Danijel eelj e con Donato Sansone?
Deriva tutto dal nostro vissuto. Con Daniel abbiamo collaborato in passato, abbiamo fatto un video nel primo disco e diversi concerti con live performance di pittura dal vivo. Inoltre, con lui c’è stato proprio il nostro battesimo: la prima esibizione che abbiamo fatto al Tpo di Bologna – che è una seconda casa per noi, ci hanno sempre appoggiato e dato una grossissima disponibilità – e quindi fondamentalmente è un grande amico. Non viviamo vicini ma dall’America è tornato a vivere in Croazia, per cui la distanza non è neanche così tanta. La stessa cosa per Sansone: è un amico con cui volevamo collaborare già dai dischi precedenti e questa volta abbiamo concretizzato il tutto perché il brano era adatto alle sue follie. Questo per riassumere che tendenzialmente cerchiamo di rimanere in una condizione familiare e collaborare con persone che abbiamo già conosciuto o con cui abbiamo sviluppato un legame, perché l’intesa è sicuramente più forte e quindi è più bello per noi tutto il processo creativo. Nel corso degli anni abbiamo anche approcciato persone che non conoscevamo e le abbiamo incontrate con questo metodo. Nell’apparato del secondo disco, “Racines”, dove c’erano dieci collaborazioni, non tutte erano di “vicini di casa”, bensì di persone il cui lavoro era per noi assai importante, quasi da fan, e poi c’è stata una conoscenza, uno scambio… Fortunatamente il nostro lavoro viaggia su una frequenza che viene riconosciuta, per cui non abbiamo mai avuto difficoltà a chiedere di collaborare su un progetto, c’è stato sempre un grande slancio da tutte le parti, con un approccio sano e diretto, senza intermediari. È stato facile e ci ha dato risultati incredibilmente forti, oltre le nostre aspettative. Lasciare molto spazio all’apporto degli altri è la nostra base.
Per l’apporto visivo rimane fondamentale il lavoro con Pellegrin, però notavamo che in questo album ci sono più collaborazioni “esplicite” anche per quanto riguarda il comparto musicale: Xenia Rubinos, Colin Stetson, Mick Jenkins che era anche nel precedente “Racines”. Come è stato lavorare con loro? Rubinos l’anno scorso ha fatto un album bellissimo.
L’abbiamo scoperta all’inizio di C’Mon Tigre – ascoltiamo un sacco di musica – con il suo primo lavoro che ci ha veramente colpito. L’abbiamo conosciuta casualmente, perché eravamo interessati al marito – un batterista che volevamo nel nostro primo disco – e per casualità o poco tempismo non abbiamo fatto nulla assieme, però eravamo a New York, lo chiamammo e lui era con Xenia a una festa. Questo nel 2014. Ha una voce strana e particolare da associare alla nostra, quindi non c’era mai stata una vera e propria occasione prima di adesso. È venuto tutto abbastanza naturale. Anche i nostri ascolti si sono un po’ spostati dall’asse che faceva riferimento al mondo dell’Africa e della musica africana e, ragionando su alcune tracce che avevamo, abbiamo pensato a questi nomi e loro sono stati super-disponibili. Purtroppo nella situazione pandemica non siamo riusciti a collaborare insieme in studio, ma solo a distanza.
A proposito della voce, dato che si parlava di quella di Xenia, ci ha sempre incuriosito la scelta della voce filtrata, che è spesso sui vostri dischi e che è diventato quasi un marchio di fabbrica. Come mai?
Perché viene trattata come tutti gli altri strumenti. Alla fine, noi non lasciamo una chitarra naturale, non lasciamo un sassofono naturale, non lasciamo una batteria naturale e non lasciamo neanche la voce naturale. È il brano che decide se la voce è filtrata più o meno, più naturale, più riverberata, più distorta. In realtà viene anche da una sorta di modus operandi durante le registrazioni, perché la voce filtrata non è nient’altro che un microfono da armonica con cui vengono appuntate delle linee vocali, e quegli appunti a volte rimangono, a volte se ne vanno, e quando rimangono, determinano il carattere della canzone. Spesso diventano la parte definitiva, perché nel mix mediamente la voce tende a stare un po’ sopra: qui invece è trattata come una parte del tutto. In C’Mon Tigre è difficile che si sentano degli sbilanciamenti anche strumentali, è possibile sentirli in alcune parti soliste, su dinamiche che vogliamo accentuare, ma mediamente cerchiamo di avere un flusso coerente e coeso, e la voce rientra in questo modus operandi.
In questo disco ci è sembrato che ci fosse più attenzione alla forma-canzone, qualche melodia più diretta…
È vero. Una delle prime ragioni è che abbiamo lavorato al disco, prodotto il disco e chiuso il disco in un lasso di tempo inusuale per noi, molto più breve. Questo ci ha portato a finire di scrivere e a ritrovarci brani che avevano dei tempi inferiori rispetto ai nostri canoni. In realtà, anche la confezione era più vicina, sempre con le dovute differenze, alla forma-canzone. Perché sia successo, oltre a questi motivi qua, è difficile spiegarlo perché seguiamo molto il flusso del brano. Partiamo con un’idea, però spesso arriviamo a un risultato finale che non avevamo premeditato, quindi probabilmente abbiamo lavorato a canovacci, a bozze di brano che tendevano ad avere questa forma più breve e più concisa. Però interessante che ci siamo ritrovati.
La vostra musica ha sempre avuto il potere di creare scenari “altri” e di catapultare in realtà esotiche e spesso cinematiche, in “Scenario” ci pare di aver colto però un maggiore utilizzo di soluzioni che vi hanno avvicinato a suoni più classicamente cinematografici, da soundtrack, soprattutto attraverso l’uso degli archi che compaiono in modo più preponderante. C’è stato un effettivo avvicinamento a questo ambito?
Ci interessa sicuramente ed è uno dei motori che spinge questo progetto. Tutte le collaborazioni che sviluppiamo a livello visuale derivano dal fatto che crediamo molto nella fusione tra immagini e musica, quindi abbiamo un approccio cinematico naturale. E ci interessa sicuramente sviluppare questa cosa anche allontanandosi da una produzione discografica per entrare a braccetto con la produzione di un film, ad esempio. È da tempo che ne parliamo, è una cosa che credo possa avvenire abbastanza naturalmente. In questo caso avevamo del materiale che ci ispirava in quel senso, per cui la strada della soundtrack involontaria è stata una conseguenza diretta di questa collaborazione.
Ci ha colpito molto un pezzo come “Burning Down”, una fiammata elettronica ballabile che rimanda anche a certa rave music. Di sicuro la componente danzereccia non è mai mancata ai vostri pezzi, vi intrigherebbe però una futura svolta anche in questa direzione?
Sì, è un pezzo che, proprio come il fuoco, brucia in fretta. Anche il brano in cui ha partecipato Colin Stetson vira verso quel genere. Potrebbe capitare che in futuro si spinga più in quella direzione, non vogliamo darci dei limiti. Una traccia come “Burning Down” ha anche un senso a livello di struttura del disco. A noi piace suggerire delle provocazioni e lo facciamo con un gioco di contrasti, l’abbiamo sempre fatto. “Scenario” è un album che vuole seguire un flusso narrativo e qualsiasi storia che si rispetti ha dei colpi di scena: “Burning Down” è un colpo di scena, un punto di rottura. Serve per rompere il disco a quel punto e per cambiare il linguaggio con cui il brano successivo, “Migrants”, parte. C’è un reset che suggerisce un cambiamento.
Sembra faccia da spartiacque tra le due metà dell’album: la prima più legata anche a quello che avevate già fatto, la seconda, invece, sempre più esplorativa…
Sì, è vero. Anche il pezzo iniziale, che è l’anticamera del disco, ha lo stesso senso, anche se un ruolo diverso: è un “benvenuti”, un brano che accoglie, che prepara all’ascolto. Poi c’è un pezzo di rottura in mezzo e il brano di Colin Stetson alla fine, a chiudere con un’altra “provocazione” – sempre fra virgolette, non c’è nulla di estremo – ma è una cosa che forse non ti aspetti, che può avere un twist nell’assorbimento del disco. Di solito chiudiamo con delle suite piuttosto dolci che ti accompagnano alla fine, questa volta invece avviene tutto il contrario, è una cosa nervosa che ti lascia sospeso. Azzardiamo anche accostamenti che ci sembrano interessanti: quando lavoravamo a “Twist Into Any Shape”, il primo singolo, ci siamo immaginati questo incontro fra Caribou e Fela Kuti. Lo stesso vale decidendo di chiudere il disco con un pezzo strumentale con le parti di Stetson. Vogliamo creare delle sinergie che secondo noi hanno un senso all’interno del disco.
A proposito della narrazione, le copertine dei vostri album – in cui qualcosa ritorna e qualcosa cambia – sembrano i capitoli di un unico grande libro. C’è un filo rosso che unisce i tre dischi?
Non voluto, ma sicuramente c’è. Niente di quello che facciamo in C’Mon Tigre è razionalizzato dall’inizio. Per fare un esempio, quando ci siamo messi a lavorare a “Scenario”, volevamo confrontarci con qualcosa di nuovo, con un materiale fotografico denso di contenuti e politico, ambito in cui fino ad ora non ci eravamo mai addentrati. La politica è quindi entrata nel disco attraverso il lavoro di Paolo, una politica che potremmo definire naturale, quasi spontanea, umana: è un disco che parla dell’umano. Avevamo approcciato il lavoro di Pellegrin in maniera totalmente opposta rispetto a ciò che abbiamo poi ottenuto, c’eravamo detti “con questo materiale qua la cosa che ci verrà sicuramente spontanea sarà quella di fare un disco seduto, scuro, riflessivo”, quindi avevamo fatto già delle scelte, lo vedevamo già. Poi quando abbiamo iniziato a lavorare è venuta fuori un’altra cosa: cassa dritta, rave… Abbiamo riprocessato il contenuto in testa e involontariamente siamo andati da un’altra parte, questo per dire che non c’è nessuna premeditazione. O la premeditazione c’è, ma non la accogliamo. Dipende dalla collaborazione che hai in atto, da quello che succede quando inizi. Ti fai un’idea e poi questa cambia e si integra dell’apporto con l’altro. Anche l’idea di partenza che avevamo sul materiale di Paolo è bella perché rispecchia la sua visione, che non è quella di fermarsi a fotografare la tragedia che è in atto, ma di cercare di dare una visione più approfondita, diversa da quella che è suggerita da ciò che sta accadendo.
È un livello diverso. La cosa interessante è quando aggiungendo un passaggio crei un secondo livello narrativo e quindi la trama diventa più complessa e più avvincente se vuoi, il messaggio si complica ma diventa più potente, e la musica per il cinema tende a sottolineare, viene usata in questo senso. Ma c’è un’altra musica che è quella intradiegetica, che magari appartiene alla scena e ha un significato abbastanza contrastante, diverso, perché se lo può permettere: non deve accompagnare ma può irrompere, cambiare anche il pensiero e come viene metabolizzata quella determinata scena. Il contrasto fondamentalmente ci piace.
Questo è il motivo per cui abbiamo giocato per contrasto sul lavoro di Paolo, involontariamente. “Scenario” non è un lavoro costruito sugli scatti di Paolo Pellegrin, ne è suggestionato per larga parte ma non del tutto. Non lavoravamo con le sue foto davanti, quindi ci siamo lasciati influenzare e abbiamo iniziato un processo che poi è stato del tutto personale. Ci mettiamo a fare le cose e le cose arrivano, questa capitolazione forse c’è anche perché in fondo non vogliamo perdere le radici di quello che abbiamo fatto e tendiamo a una evoluzione per sfumature, perché all’interno dei lavori stessi e nel concepimento ci sono dei punti di rottura che ci sembrano già sufficientemente violenti da essere uno spartiacque per la prossima rilanciata. Però il prossimo disco non sarà un disco rave, magari ci sarà una dominanza, ma porterà in qualche altro luogo.
State per presentare “Scenario” dal vivo qui all’Auditorium Parco della Musica, come vi sentite a riguardo? Come avete vissuto da artisti il periodo della pandemia?
Per noi la pausa è stata relativamente breve perché abbiamo fatto l’ultima data qua a Roma lo scorso ottobre – siamo stati molto spesso qua negli ultimi mesi – e nella disgrazia della pandemia siamo stati anche fortunati perché non avevamo un disco in uscita quindi non abbiamo subito una battuta d’arresto così netta. Speriamo che si riesca a mettere un punto a un periodo che è stato complicato. È difficile anche dire tutto quello che è successo nel mezzo, perché è stato davvero un po’ come i secondi livelli, un momento particolarmente difficile che ha mosso altre cose all’interno di tutti.
Un vostro punto di vista su quelle che sono state le proposte e le misure per il sostegno al mondo della cultura e dello spettacolo?
Non viviamo indubbiamente in un paese troppo attento al comparto artistico, che è un paradosso per l’Italia, almeno storicamente parlando. Personalmente non siamo stati maltrattati e non ci va neanche di dire che il governo abbia lavorato maldestramente, perché era una situazione mai vista prima, con protocolli da attuare probabilmente su una serie di decisioni da prendere che scontentava l’uno e faceva contento l’altro. Non ce la sentiamo di puntare il dito perché “si poteva fare meglio”. Certo, si poteva fare meglio, questo è indubbio, ma non credo che sia un demerito in questo caso. Il punto importante, guardando avanti, è che ciò che è accaduto segni un anno zero nell’affrontare situazioni inaspettate in maniera diversa, sono emerse varie difficoltà sulle condizioni di molti lavoratori. Semmai è stata l’occasione per rendere pubblici certi argomenti che ci riguardano da vicino, perché la cultura in Italia è stata un po’ maltrattata negli ultimi decenni, quindi a questo punto, a carte scoperte, si è visto tutto ciò.
Un’ultima domanda, dato che tra pochissimo sarete sul palco: come lo trasponete in versione live un vostro disco? Che è molto complesso e ha varie stratificazioni…
Ci sentiamo di ringraziare i ragazzi con cui suoniamo perché capita che facciano molto più di quello che siano abituati a fare, o che ci immaginavamo noi potessero fare, quindi gran parte del lavoro di riuscire a riproporre il disco dipende da loro e dal loro talento. Non è facile, cerchiamo di cogliere l’anima dei pezzi e riportarla sul palco. Se riesci a captarla, funziona, quindi in automatico non ti accorgi che mancano delle cose, che diventano secondarie. Finora ci siamo riusciti, per fortuna!
(30/03/2022)
Daniel D`Amico for SANREMO.FM