Perth, Australia sud-occidentale. Un luogo magico e affascinante, a metà tra passato perso nei ricordi del tempo del sogno degli aborigeni e futuro in una metropoli di stampo moderno, cresciuta dalle prime colonie inglesi. Lontana da tutti gli altri principali centri dell’Australia, come Sydney e Canberra (che stanno a est), Adelaide (che sta a sud) e Darwin (che sta a nord), Perth comunica un senso misto di isolamento e globalizzazione allo stesso tempo: conta più di due milioni di abitanti ma è situata vicino al grande agglomerato di deserti che ricoprono buona parte del continente, e si affaccia sull’Oceano Indiano, sconfinato: si potrebbe procedere in direzione ovest senza incontrare pressoché nulla fino a giungere in Madagascar, e in Africa. Questo il luogo magico in cui una serie di giovani musicisti appassionati di rock d’altri tempi, tutti poco più che teenager, iniziano a fare musica insieme verso la metà degli anni Zero. Alcuni nomi, quelli fondamentali: Kevin Parker, Nick Allbrook, Jay Watson, “Shiny” Joe Ryan, Cam Avery. Giovani entusiasti delle sei corde e del rock classico, specie quello psichedelico e acido anni 60/70, che presto diventano multi-strumentisti e iniziano a collaborare in jam session diluite suonando nei locali della città e dando vita a progetti cangianti i cui membri divengono intercambiabili. Unico fine: la musica.
Due di questi progetti si coagulano in un paio tra i principali nomi della musica degli anni 10, nomi che segnano la storia del rock australiano e della neo-psichedelia a livello mondiale. Tame Impala e Pond. Due band, inizialmente, che confluiscono una nell’altra scambiandosi idee, influenze, componenti e sviluppando un suono comune, ravvisabile anche nelle produzioni da solisti dei singoli membri. Poi, con il passare degli anni, Tame Impala diviene fondamentalmente un progetto da solista e personale per il solo Kevin Parker (tranne che dal vivo), mentre i Pond rimangono una band guidata specialmente da Nick Allbrook, che ne è anche il frontman ufficiale, e Jay Watson. In ogni caso, almeno per quanto riguarda i primi anni, è impossibile parlare di una formazione senza parlare dell’altra.
Macedonia lisergica
Il primo dei due progetti a prendere forma definita è Tame Impala, a cui Watson collabora fin dal 2007 inclusa “The Sun”, una delle primissime canzoni scritte da Parker e pubblicata nel primo Ep della band, che esce già nel settembre 2008. Questo l’anno a partire dal quale sono attivi anche i Pond, mentre il loro primo lavoro, già un Lp, arriva all’inizio del 2009 e si intitola significativamente Psychedelic Mango, un titolo che dice già tutto.
A questo punto, cioè all’inizio, i Pond comprendono solo Allbrook, Ryan e Watson, ossia i tre membri fissi della band per tutta la loro storia. Il disco viene registrato molto amatorialmente su un 8 tracce a casa dei genitori di Allbrook, come si faceva ai bei tempi, e ne vengono stampate solo 500 copie. Oggi è molto difficile trovarlo ed è possibile ascoltarlo solo su Apple Music. L’album è guidato da chitarre elettriche psichedeliche anni 60, che a tratti si perdono in jam acide che ricordano i Grateful Dead o i Love di Arthur Lee, come nella introduttiva “That Is How We Came”; altre canzoni invece ricordano qualcosa che si potrebbe ritrovare nelle famosa compilation Nuggets realizzata da Lenny Kaye, come in “Paisley Adams”; e altre ancora richiamano le sonorità delle band della British Invasion: in “Mick Manmoose”, per esempio. Per finire contiamo certe prominenti influenze hard-prog (in “Gringolet’s Drunken Baggage”, in particolare).
Come comunica anche la copertina, realizzata ad hoc, l’album nel suo complesso suona come qualcosa che potrebbe essere stato registrato tra il 1967 e il 1970, Il suono è di qualità amatoriale, spesso volutamente lo-fi e chiaramente ingenuo e sperimentale (al tempo dell’incisione Allbrook ha 21 anni, Ryan ne ha 21 e Watson ne ha 19), ma le intuizioni compositive e melodiche, seppur timide, qua e là già si colgono, condite da wah-wah sparso un po’ ovunque e armonie vocali molto beatlesiane. Il tutto è però ancora diluito in un miscuglio lisergico disorganizzato, che non si fa mancare una certa vena ironica (si può sentire anche nei versetti demenziali che Allbrook emette qua e là: diventerà un suo marchio di fabbrica) e una certa radicalità sonora molto giovanile, la quale, in ogni caso, non lascia spazio in questo primo album a un suono definito e che miri a qualcosa più di uno sfogo musicale naïf, senza pretesa o ambizione alcuna.
Free-form acid
Nel 2009 Allbrook e Watson diventano entrambi membri della live band di Kevin Parker, il quale ha nel frattempo pubblicato già due Ep e il singolo “Sundown Syndrome”. Nella piena confusione, Parker diviene a sua volta batterista dei Pond per un breve periodo, tra il 2009 e il 2011, mentre per lui Allbrook suonerà basso e chitarra fino al 2013 e Watson sarà batterista, oltre che seconda voce, fino al 2012 (prima di passare alle tastiere, ruolo che occupa tuttora). I membri delle due band suonano quindi sempre a stretto contatto alla fine degli anni Zero, lanciando la propria carriera insieme, imparando a suonare gli strumenti sul campo e facendosi le ossa con improvvisazioni e jam session.
Il suono del secondo album dei Pond, Corridors Of Blissterday, ne è il risultato e rispetto al primo album si presenta se possibile ancor più inafferrabile: solo sei tracce, la maggior parte delle quali belle lunghe, consegnano sonorità rock psichedeliche che si perdono in sé stesse. Il tratto lisergico è più marcato e spazioso, e più che i Grateful Dead sembra di sentire gli Iron Butterfly o i primi Pink Floyd di Syd Barrett. L’ascendente di quest’ultimo si coglie specialmente in “Caterpillar Mansion”, una canzone guidata da un riff ossessivo e decorata di suoni e rumori allucinati che potrebbe facilmente stare in “The Piper At The Gates Of Dawn”; e nella esaltata “Mist In My Brainforest”.
Le influenze dei Pond in questo disco varcano il 1970 e si affacciano sul crescente sperimentalismo della prima era del prog, abbandonandosi a composizioni più lunghe, rumorose, astratte. Di questo periodo alcuni anni più tardi, nel 2012, Watson ricorderà: “Eravamo solo una cosa free-form, una acid-rock jam band. Non avevamo veramente canzoni o niente, penso che tutti credessero che fossimo solo idioti drogati”. Del disco viene detto anche che viene registrato “in una frenesia” di cinque giorni “in qualche momento del 2009, nessuno sembra ricordare esattamente quando”. L’idea è davvero quella di richiamarsi ai giorni d’oro della psichedelia, quando le pasticche di Lsd venivano sciolte nel tè e l’erba si trovava in ogni studio di registrazione. Tuttavia, alcuni barlumi di “lucidità” emergono qua e là: “Sweet Loretta” dà mostra di una regolare struttura strofa-ritornello, pure se ancora decorata da una indefinita improvvisazione. Chiudono il disco l’hard-prog di “Lightning Hip” e il teso crescendo di “Ascending”, fortemente atmosferico e con un finale esplosivo.
La nuova psichedelia
Nel 2010 Jamie Terry entra in formazione come quarto membro ufficiale, principalmente alle tastiere, e nel settembre dello stesso anno i Pond pubblicano il terzo album, Frond. Il distacco dai precedenti è notevole: le influenze psichedeliche anni 60 e 70 ci sono ancora tutte e il suono è sempre più che altro chitarristico, ma si inizia a cogliere una chiara deriva verso uno stile più levigato, composto, organizzato. Il disco esce nello stesso anno dell’album di esordio di Tame Impala: raffrontando i due lavori la somiglianza è lampante. In questo terzo Lp dei Pond i brani sono più brevi, meno piegati verso le jam session (anzi, le improvvisazioni sono quasi del tutto assenti) e mostrano un maggiore lavoro sull’arrangiamento, sulle armonie vocali e sulla costruzione di un wall of sound dai caratteri acid-psych che definisce un suono solido, maturo e anche ambizioso. Chiaro esempio ne è “Cloud City”, pubblicata anche come singolo e grande classico nella storia del gruppo.
Per dare un’idea degli altri anfratti esplorati nell’album: “Torn Asunder” suona come qualcosa che potrebbe stare in “Their Satanic Majesties Request” dei Rolling Stones, mentre “Duck And Clover” richiama lo stile dei contemporanei Black Angels, altra band neo-psichedelica all’epoca in ascesa. “Sunlight Cardigan” è una delicata poesia lisergica che suona molto 1967 ed è la prima canzone dei Pond nella quale Jay Watson assume un ruolo prominente, anche come vocalist (di norma e specialmente fino a quel momento, a cantare è sempre Allbrook). Il brano spinge molto, nonostante il carattere nostalgico, verso la costruzione di un suono psichedelico nuovo e moderno e fa emergere le reali capacità di quella che fino a qualche mese prima sembrava solo una jam band particolarmente estrosa. Quest’ultima impostazione rimane solo nella breve “The Place Behind The Duck”, mentre “Mother Nigeria” fornisce anche a Joe Ryan un suo piccolo spot con una delle poche canzoni della band in cui è lui a cantare.
Il disco si chiude in grande stile con la delicata e quasi commovente title track, un crescendo guidato da una dolce melodia di piano che contrasta con una muraglia acid eretta solennemente dagli strumentisti, per poi risolversi in un improvviso silenzio. Quasi una dichiarazione di intenti, anche rispetto al resto di questa tracklist: siamo pronti a fare sul serio.
Barba, mogli, jeans
Il quarto album dei Pond, Beard, Wives And Denim, prosegue nell’elaborazione di una psichedelia rinnovata e moderna, sempre strettamente imparentata con gli anni 60 e 70 e con una primaria prominenza delle chitarre ma legata anche a una visione sempre più fresca, più pop e più accessibile della forma canzone. Il disco è molto rock ma anche molto orecchiabile, presentandosi come appetibile per i fan del genere e delle sue forme più classiche che ne riprendano i tratti più strettamente hard-psych. Già una canzone come “Fantastic Explosion Of Time”, che apre la tracklist, setta tutto l’umore della produzione dei Pond di questo periodo: un brano letteralmente esplosivo, euforico, volenteroso di aggiornare quella ingenua gioia del rock’n’roll da festival, pur non evitando una certa finezza nella composizione. Molto simili canzoni come “Moth Wings”, altro apice del disco, e “You Broke My Cool”.
Da questo punto di vista l’album in questione è forse quello nel repertorio dei Pond che si può definire più strettamente con il termine psychedelic rock, inteso come revival del genere in tempi recenti ma con un’etica (e un’estetica) molto legate a quelle di decenni addietro, senza privarsi, però, di quel certo carattere ironico tipico dei Pond, che emerge sia nel cantato (quello dello sguaiato Allbrook, soprattutto) che negli arrangiamenti e nelle armonie, passando anche per le copertine e i titoli stessi (questo disco è un buon esempio).
Comincia a delinearsi anche una differenza sostanziale nonché chiaramente riconoscibile all’ascolto, tra lo stile compositivo di Allbrook e quello di Watson, la coppia “Lennon/McCartney” del gruppo: il primo è più legato a un tipo di scrittura onirico e astratto, un po’ freak, che lasci spazio sempre a improvvisazioni e divagazioni, prediligendo spesso ballad, chitarre lo-fi o distorte e molti echi; il secondo si afferma presto come un perfezionista della composizione e della produzione, aspirando ad arrangiamenti ambiziosi e strofe pulite e conferendo una grande importanza alla componente melodica, complice forse il suo ruolo nei Tame Impala e la sua vicinanza a Kevin Parker, il quale, a proposito, compare per la prima volta nel disco appunto come produttore e in questa fase anche come batterista (con lo pseudonimo di Kaykay Sorbet). Parker produrrà i quattro successivi album dei Pond, rimanendo “in carica” in questo ruolo fino al 2019.
Razzo vagabondo
Con Hobo Rocket, il quinto album, i Pond sembrano compiere un deciso passo indietro o, meglio, di lato, nel loro percorso di costruzione di una nuova psichedelia anni 10. Il disco riprende come forma più i suoni anni 60 che 70, esplorando un ipotetico capitolo precedente rispetto a quelli delle loro prime pubblicazioni e nella sostanza abbandonandosi a un suono heavy-psych che richiama band come Iron Butterfly e Captain Beyond. Un altro disco fuori dal tempo, che recupera gli esperimenti free-form di qualche anno prima ma riproponendoli stavolta con un atteggiamento più adulto e in composizioni meno diluite e più concrete. Grande importanza in questo album assumono perciò i riff di chitarra distorti, decisi ed elettrici, che solo a tratti lasciano spazio a improvvisazioni nebulose e vaghi effetti di eco. Il tutto si risolve in un wall of sound che vede i Pond alla ricerca di una propria dimensione, ancora non definita, a metà tra la jam band, il complesso nostalgico e il gruppo alt-rock moderno.
Il risultato si sente bene in canzoni come “Xanman” e “Giant Tortoise”, quest’ultima una fan-favourite, che esplodono in mille colori compressi. “O Dharma” è un brano fortemente atmosferico e onirico, e contrasta volutamente con il resto della scaletta. presentandosi con tratti più folk e richiamando gli sprazzi hippie di Donovan e, ancora una volta, gli esperimenti degli Stones in “Their Satanic Majesties Request”. La title track, “Hobo Rocket”, sembra registrata nella Factory di Andy Warhol in quanto ricorda diversi brani dei Velvet Underground, con una narrazione cantata molto alla Lou Reed e alcune note di sitar appoggiate su una estesa perdizione rumoristica.
Nel suo complesso, questo quinto album è per i Pond come una sorta di pausa, un momento di recupero che rappresenta come una paura di spostarsi verso sonorità nuove, un rientro in una comfort zone già esplorata in ogni angolo e che in fondo inizia a sembrare troppo piccola. Del resto siamo ancora nel 2013, molti gruppi rock formatisi alla scuola classica degli anni 60 e 70 sono troppo innamorati delle chitarre e dei riff e sono restii ad abbracciare in toto le nuove tecnologie, i synth e le produzioni digitali, sia pure anche semi-ironicamente. Ma, come si rivelerà di lì a poco, per i Pond questo momento di raccoglimento sarà una specie di rincorsa prima del grande salto proprio dentro quel nuovo mondo di musiche inedite, luccicanti, futuristiche.
Di nuovo nello spazio
Giunta la metà degli anni 10, il successo e il buon riscontro dell’opera dei Pond sono tali che tutti i componenti decidono, ognuno con i propri tempi, di darsi alla carriera solista. Ovviamente i loro singoli sforzi difficilmente si possono paragonare al successo della band o a quello di Tame Impala, fatta forse eccezione per GUM, ossia Jay Watson, che esordisce in solitaria nel 2014 con l’album “Delorean Highway”. Sempre nel 2014 anche Nick Allbrook pubblica il suo primo disco con il suo nome, intitolato “Ganough, Wallis And Fatun”, e ancora nello stesso anno arriva anche “The Cosmic Microwave Background”, il primo lavoro ufficiale di “Shiny” Joe Ryan. Le loro produzioni hanno chiaramente tutte le qualità degli sfoghi solistici, non pretendendo altro che di tracciare i confini di un libero spazio di esplorazione al di fuori della band, mentre nel frattempo l’attività continua della stessa assicura un successo (e un ritorno economico) ormai costante.
Con Man It Feels Like Space Again, del 2015, arriva il vero salto di qualità. Parker è ancora alla produzione e in aggiunta nello stesso anno pubblica “Currents”, uno degli album più acclamati degli anni 10. L’influenza, una volta di più, si sente chiaramente: con la direzione di Parker, anche i Pond, parallelamente a Tame Impala, adottano un approccio più “plastico” nell’arrangiamento dei brani e nell’incisione delle parti musicali. Per la prima volta le chitarre iniziano ad avere un ruolo di secondo piano e le tastiere e i sintetizzatori vengono spostati in prima fila, andando a racchiudere con la complicità di una ritmica serrata, più organizzata e regolare, ogni pezzo in piccole scatole lucide e colorate, “confezioni”, per così dire, che creano un ordine nel disordine.
Se “Waiting Around For Grace”, il brano di apertura, è sempre un rock esaltato guidato da riff chitarristici con atmosfere energiche, le cose cambiano con “Elvis’ Flaming Star”, pezzo lisergico e acido guidato da potenti bassi e riff di chitarra distorti ma sfuggenti, in un’atmosfera trasognata. “Zond” e “Outside Is The Right Side” riprendono la vena più jam del gruppo, corretta tuttavia da numerosi interventi di produzione digitale che, pur apportando niente più, spesso, che modifiche alle voci o brevi glitch d’abbellimento, segnalano anche se liminalmente l’adozione di tutto un nuovo approccio.
Ma il vero gioiello del disco è “Sitting Up On Our Crane”: una composizione psichedelica di Jay Watson che racconta il timore delle altezze e di quando da piccolo si arrampicava con gli amici in cima a palazzi altissimi e abbandonati, guardando poi in basso con la paura di morire. Un brano intenso e metaforico, che a una strofa silenziosa ed evocativa alterna uno spettacolare refrain che esplode in un trionfo di synth perfettamente metà anni 10, con bassi fortissimi, come a voler negare a bella posta il retroterra rock della formazione e affermare l’inizio di un nuovo corso. Il brano è anche provvisto di una lunga coda con vocalizzi in falsetto veleggianti su pura materia psichedelica, un mix di tastiere, synth, bassi e chitarre, e di un riferimento molto colto a Dennis Wilson, il mitico batterista dei Beach Boys, autore estremamente sottovalutato e morto annegato nel 1983.
Non è tutto perché il sesto album dei Pond si chiude con una gustosa suite in tre parti, cioè la title track, che costituisce la conclusione perfetta di una tracklist innovativa in una cavalcata di otto minuti che fonde psichedelia e progressive e che potrebbe essere tranquillamente tratta da un album dei King Gizzard & The Lizard Wizard. Con questo lavoro i Pond si possono definire interpreti per eccellenza della neo-psichedelia, ossia di quella variante del genere anni 10 che, partendo da nostalgie anni 60 e 70, presto vi unisce una certa sensibilità indie, un’attenzione spasmodica alla perfezione produttiva, un gusto guilty-pleasure per gli inserti digitali, i synth, i ritmi ballabili e le nuove tecnologie di studio, e un estremo interesse nella costruzione di suoni nuovi, freschi, complessi ma anche coloratissimi.
Dipingimi d’argento
The Weather, del 2017, è una ulteriore evoluzione decisa in questa direzione. Lo stile di produzione nell’album diviene apertamente plastico, relegando le chitarre a elementi di decoro e costruendo perfette composizioni levigate dai contorni spiccatamente pop, conferendo alle melodie un ruolo più che prominente e giocando moltissimo con computer e software per creare effetti psichedelici digitali e futuristici, che più che agli anni 60 e 70 debbono molto semmai al synth-pop e alla new wave degli 80. Del resto siamo in un periodo nel quale moltissimi artisti, sia mainstream che non, esplorano proprio le estetiche e le musicalità di quel decennio nel tentativo di costruire qualcosa di nuovo con qualcosa di vecchio, e a loro modo i Pond non fanno eccezione. Il disco viene sempre (co-)prodotto da Kevin Parker e registrato anche nell’home studio customizzato del musicista a Fremantle, dove è stato registrato anche “Currents”: una volta di più, l’influenza si ode chiaramente e per intero.
L’album si apre in maniera grandiosa con l’apocalittica “30000 Megatons”, numero che identifica la potenza totale di detonazione dell’intero arsenale nucleare mondiale. Nel 2017 è presto per parlare di fine del mondo nel senso contemporaneo che conosciamo, ma la voce di Allbrook, cinica su un tappeto di astratti arpeggi synth, non ha dubbi: “30000 megatoni è proprio quel che meritiamo”, giungendo quasi ad auspicare l’estinzione della razza umana, con tutti i suoi difetti. Rimane uno dei più importanti sbilanciamenti politici della band (non l’ultimo, come vedremo) e fin da subito annuncia una tracklist ricca di idee e ambizioni.
Altro highlight dell’album, che segue subito dopo, è “Sweep Me Off My Feet”: introdotta da un prepotente basso synth, si evolve in una poesia psichedelica lucida e contorta, che esemplifica perfettamente lo stile pulito ricercato dalla band in questa fase. Lo si coglie bene anche in “Paint Me Silver”, che rimane uno dei brani di maggior successo dei Pond, e “Colder Than Ice”, unico pezzo con Watson alla voce. Una perfetta chiusura è affidata alla title track, che pare riprendere l’iconica, soleggiata copertina (che rappresenta il centro di Perth): una psichedelia sottile, nebulosa, rarefatta, che sembra evocare mondi onirici con il saggio uso di un non invadente wah-wah.
Secondo Allbrook, il disco nel suo complesso è un concept sulle contraddizioni sperimentate da chi vive a Perth, ai confini della civiltà occidentale, un po’ in bilico sull’orlo di modernità e antichità, tra realtà urbana e natura ancora (per poco) incontaminata. Ed è chiaro, dalle sonorità del disco, da che parte penda l’ago della bilancia.
Stella bruciata
L’ottavo album, Tasmania, esce nel 2019 e reitera gli argomenti affrontati nel precedente, ricercando nel frattempo un equilibrio sonoro che da una parte conservi e anzi estremizzi gli esperimenti synth del 2015 e del 2017, mentre dall’altra recuperi una dimensione psichedelica più “organica” e astratta, abbandonando la forma canzone pop e riprendendo almeno parzialmente lo stile rarefatto dei primi album, pur se sempre considerevolmente discosto dalle folli divagazioni acid di fine anni Zero, ormai del tutto abbandonate. È il caso dell’ambiziosa “Burnt Out Star”, uno space rock di alto livello che richiama il sogno in più parti di “Man It Feels Like Space Again” (il brano) e dimostra che anche con tastiere e computer i Pond possono ancora suonare come una jam band. Il discorso cambia completamente con “Hand Mouth Dancer” e “The Boys Are Killing Me”, canzoni che riflettono su temi relativi alle mutazioni nella concezione dei rapporti d’amore, della mascolinità e del ruolo del maschio nella società, temi affrontati con leggerezza e ironia ma su suoni synth nostalgici e artefatti dal carattere chiaramente malinconico.
Ancora più a fondo in questa direzione spinge il lamento di “Shame”, riflessione sulle colpe non pagate del patriarcato, che dà mostra di uno degli sfoghi più profondi e sinceri mai affidati alla voce di Allbrook. In tempi di chiara crisi ambientale interviene poi “Tasmania”, canzone dedicata all’omonima isola a sud dell’Australia, presa ad esempio del tipo di miracolo ambientale terrestre da preservare a ogni costo, contro ogni idiozia umana.
A livello argomentativo il disco reca le tracce delle più recenti influenze nei cambiamenti del pensiero e della cultura alla fine degli anni 10, dal movimento #MeToo al Climate Change, senza per questo rinunciare a una sottile linea psichedelica che percorre i bordi di ogni canzone, smussandoli e rendendoli meno definiti, ma adottando al contempo sonorità più morbide e meno invadenti rispetto al precedente lavoro, facendo filtrare nel songwriting anche una certa maturità che va di pari passo con l’avanzare di una carriera che, nel 2019, è per la band australiana ormai decennale.
Un brindisi onirico
Nel 2021 esce quindi 9, un album che pedissequamente indica già nel titolo la propria natura di nono lavoro del gruppo, facendo un po’ il riassunto delle ultime avventure sonore dei Pond. Allbrook ammette che per il nuovo disco in fase preliminare di composizione sono state sfruttate varie improvvisazioni con un approccio ritmico più uptempo, anche se nel risultato finale la cosa si coglie appena, se non quasi per nulla. Infatti la neo-psichedelia più digitale sopravvive, sia in forma volutamente gimmick come in “Pink Lunettes”, chiara auto-parodia synth che sembra ironizzare su tutte le passioni anni 80 di una generazione, sia in forma più impegnativa in “Human Touch”, canzone influenzata dal periodo di separazione della pandemia che riflette con un carattere euforico sull’importanza di quel tocco, anche minimo, tra due individui.
La canzone che sicuramente più risalta è la conclusiva, “Toast”, che disegna una delicata psichedelia nebbiosa sostenuta da un riff di chitarra sottile e trascinante, una summa perfetta di tutti i progressi nel songwriting compiuti dal gruppo in tredici anni di carriera: i giorni delle acid jam e dei primi esperimenti rumoristici naïf sembrano perciò ormai lontani anni luce, perché i Pond si possono a tutti gli effetti considerare un gruppo “pop” (rock?) emerso da un brodo primordiale lisergico nelle remote terre d’Australia e fattosi interprete di tutta una nuova concezione di un vecchio genere, e parallelamente portavoce di un genere completamente nuovo.
Nel frattempo, il successo della band prosegue: nel 2019 e nel 2021 vengono pubblicati due album live, e tutti i membri continuano a rilasciare materiale da solisti con un gran riscontro, specialmente per quanto riguarda Jay Watson, che come GUM si segnala tra le più interessanti realtà pop/neo-psichedeliche degli anni 20 assieme ovviamente a Tame Impala e agli stessi Pond. Il gruppo continua a essere fedelmente seguito da una schiera di fan imperterriti, che non si contano forse a milioni ma che mostrano di capire, conoscere e ascoltare attentamente la musica dei loro beniamini in tutte le sue sfaccettature e oltre la doppia anima della formazione, quella ironica e quella non, apprezzandone nel contempo la preparazione musicale, l’innegabile crescita e la natura, in fondo sempre conservata, di progetto indipendente e alternativo, slegato dalle maggiori logiche di mercato e fieramente attivo ai margini del mainstream.
Antonio Santini for SANREMO.FM