Disgregate le illusioni della globalizzazione, anche l’arte si è ridimensionata e contratta, scegliendo linguaggi sotterranei, intimi e crepuscolari. L’indie-rock ha rappresentato in quest’ottica l’unica soluzione possibile per traghettare la musica rock fuori dal linguaggio massificante dei media. Anche il ritorno al vinile, nella sua primigenia identità non ancora carpita dalle major, ha narrato un atto di resistenza nei confronti della mercificazione dell’arte.
La dimensione artigianale della musica rock contemporanea ha ridato slancio all’immaginazione e all’autodeterminazione artistica, percorso senz’altro più complesso e arduo di quello coordinato e finanziato dalle grosse compagnie discografiche. L’unica deriva della fenomenologia indie è rappresentata da quello scollamento che non permette a lavori di rilievo di scandire i tempi correnti, ma ai più attenti non sfugge la reale portata di molte opere contemporanee, spesso nascoste dietro profili artistici apparentemente modesti.
Per l’ex-Coral Bill Ryder-Jones è giunto il momento di uscire allo scoperto dopo cinque anni di silenzio e di lavoro dietro le quinte come produttore, su tutti lo splendido “Dear Scott” di Michael Head, e di poter lasciare un segno nella caotica produzione contemporanea. “Iechyd Da” è per il musicista inglese l’equivalente dell’ultimo album di Meg Baird: al pari di “Furling”, catalizza il meglio di quanto finora espresso dal musicista e in eguale guisa rischia di essere accantonato nei consuntivi di fine anno.
Già dalle prime esternazioni solistiche, “If” (2001), Bill Ryder-Jones ha dichiarato il profondo amore per Ennio Morricone, Leonard Cohen, la letteratura e melodie sognanti, fino alla catarsi slowcore di “Yawn”, punto di non ritorno che lo ha convinto a rispolverare sentimenti e luoghi remoti. Quelle affinità con Elliott Smith e Nick Drake, che la stampa ha sempre citato in modo sommesso, sono ora la vera cifra di riferimento per “Iechyd Da”, album che trasuda spiritualità e romanticismo in nome di un unico verbo: la bellezza.
La citazione di “Baby” di Gal Costa che introduce la ballata in stile Velvet Underground meets The Archies “I Know That It’s Like This (Baby)”, gli avvincenti intrecci tra riverberi chitarristici e quartetto d’archi in stile Echo And The Bunnymen di “If Tomorrow Starts Without Me” e le fiabesche cadenze del valzer pianistico alla Woodpigeon di “How Beautiful I Am” sono solo una parte dell’immenso microcosmo armonico e lirico di Bill Ryder-Jones. C’è molto da scoprire nel settimo album del musicista della contea di Merseyside.
Accade di tutto, in “Iechyd Da”: dalle pur scarne trame melodiche di “A Bad Wind Blows In My Heart pt. 3”, che pian piano si adornano di struggenti echi strumentali e vocali dalle profumazioni tardo-romantiche, ai cori di bambini che cullano le dondolanti note di “We Don’t Need Them” o aggiungono una delicata eccentricità all’angelica “Nothing To Be Done”, che non disdegna una lieve citazione dei Rolling Stones, fino alle stranianti dissonanze dell’epica e barocca ballata goth-wave “This Can’t Go On”.
Armonie meste e indolenti si impossessano delle tracce più semplici dell’album, piano e batteria tengono il tempo alla gradevole malinconia di “Thankfully For Anthony” – e qui ci scappa una citazione dei Mercury Rev – violini e cori angelici fanno da sfondo al drammatico racconto di problemi mentali di “It’s Today Again”, e la leggerezza già ampiamente condivisa con Michael Head ritorna prepotentemente nei fraseggi acustici e nelle tentazioni chamber stile Love di “Christinha” (curiosa coincidenza con la “Christine” degli Shack inclusa nell’album “The Fable Sessions”).
“Iechyd Da” è per molti versi l’ennesima raccolta di ballate morbide e vellutate, a volte solari, più spesso intime, ma ha un’incisività finora non del tutto percettibile. Un disco che dà ragione alla scelta di Bill Ryder-Jones di abbandonare le gioie del successo, anche in virtù di continui attacchi di panico durante le esibizioni live, per una dimensione più artigianale e autentica. Il triplice ruolo di autore, musicista e produttore è stato senz’altro un fardello, ma il risultato è una musica che trasuda verità, empatia e sfrontata bellezza. Nel frattempo “Thankfully For Anthony” conquista fin da ora un posto nel consuntivo di fine anno (2024, ovviamente).
17/01/2024
Antonio Santini for SANREMO.FM