Dopo tante chiacchiere, finalmente la musica. È uscito stanotte Cowboy Carter, il secondo act, come lo chiama Beyoncé, di Renaissance. Se il primo era un omaggio alle radici nere e queer della club culture, il secondo è un’operazione di riappropriazione culturale del country, ma anche un discorso sullo stato della nazione da parte di una regina.
È mostruosamente lungo (un’ora e 20 minuti) e ricco di musiche, stimoli, riferimenti, c’è qualche canzone fuori tema di troppo, molti momenti notevoli. Lo capiremo fino in fondo risentendolo più volte, ma è chiaro che si tratta d’un gran disco, frutto tra l’altro di un lavoro di selezione e rifinitura di quasi 100 pezzi durato cinque anni. Ecco cinque aspetti chiave che emergono dal primo ascolto.
Riappropriazione
«Non è un album country», ha scritto Beyoncé. È vero. In Cowboy Carter la popstar si riappropria del country, rivendicando le radici in parte nere e progressiste di un genere che è presidiato da un establishment conservatore, ma di certo non lo fa da purista. Afferma anzitutto l’adesione personale, per via della sua storia, ai motivi ricorrenti nel country, dal legame con la terra al tema della lontananza da casa. Beyoncé in fondo è una ragazza del sud. “Se non è country questo, dimmi, allora cos’è?”, canta lei. C’è anche l’idea giustissima che catalogare la musica in generi rigidi, cosa tipica del mercato discografico americano, è limitante. Sbaglia Azealia Banks a dire che Beyoncé fa la cosplayer di una ragazza bianca. Fa un’altra cosa: prende la narrativa tipica dal country e la sovrappone alla propria storia, dimostrando che la segregazione culturale è sempre sbagliata. E hanno torto i fan di Madonna a dire che è una cosa che la loro star preferita ha già fatto: in Cowboy Carter c’è tutt’altra ricchezza musicale e concettuale, a partire dal titolo. Se non è Cowgirl Carter, come ci si aspetterebbe, è anche perché un tempo gli ex schiavi venivano chiamati in modo sminuente boy.
A differenza di Renaissance, il disco ha il feeling della musica suonata: potete sentire il riverbero attorno alle voci, le corde che vibrano, le mani che battono. È riappropriazione anche d’un vecchio modo di fare musica, con la sensazione di gente che canta e suona qui-e-ora. Senza essere un disco tradizionalista, e non lo è per niente, Cowboy Carter evoca un ideale di purezza andato perduto. «Più il mondo si evolve e più sento un legame profondo con ciò che è puro», ha detto Beyoncé. «In tempi di intelligenza artificiale, filtri digitali e programmazione, volevo tornare agli strumenti veri, e ne ho usati di molto vecchi. Non volevo strati di strumenti perfettamente intonati. Ho mantenuto volutamente canzoni grezze, mi sono orientata al folk. Tutti i suoni sono naturali e umani, cose quotidiane come il vento, schiocchi, persino il suono degli uccelli e delle galline, della natura». E sì, è anche un po’ cinema per le orecchie.
Cinema
Se si poteva immaginare il primo Renaissance ambientato in un club, Cowboy Carter ha una diversa cornice concettuale. Non è una cosa particolarmente evidente, ma l’album sembra organizzato come una rappresentazione cinematografica, teatrale o radiofonica in cui c’è chi trasmette (lei e i suoi ospiti, e quindi la sua comunità) e chi riceve (noi). L’iniziale e potente Ameriican Requiem (la doppia i per via del riferimento è all’act ii) sembra l’introduzione al primo atto di un musical o la prima scena di un kolossal cinematografico. In alcuni passaggi c’è il grande vecchio del country Willie Nelson impegnato non a cantare, ma a fare lo speaker d’una radio chiamata KNTRY Radio Texas dove i confini tra i generi sono annullati. E così, canna in bocca, Nelson passa artisti neri come Son House, Sister Rosetta Tharpe, Chuck Berry, Roy Hamilton e naturalmente Beyoncé, che da essi discende.
C’è pure Linda Martell, la prima donna di colore a suonare al Grand Ole Opry, istituzione country per eccellenza di Nashville. Finge d’essere su un palco a introdurre tra gli applausi del pubblico un pezzo. Si tratta dell’esilarante Ya Ya, un pastiche di soul psichedelico che va dalla citazione del Chitlin’ Circuit, il giro dei locali in cui si esibivano gli artisti di colore nel periodo della segregazione razziale, a quella di Good Vibrations dei Beach Boys. C’è l’idea del rodeo come luogo inclusivo e interculturale, ci sono rimasugli degli anni ’70 in cui si cantava su basi di chitarre e archi, ci sono echi di vecchi film western. Anzi, sembra quasi che ogni canzone sia un piccolo film, con certe percussioni ispirate alla colonna sonora di Fratello, dove sei?. Beyoncé ha detto di avere lavorato all’album ispirandosi a Urban Cowboy, Hateful Eight, The Harder They Fall, Killers of the Flower Moon, Space Cowboys, Five Fingers for Marseilles. Se fosse una pellicola, Cowboy Carter sarebbe un mix di blaxploitation e western.
Sincretismo
Una delle tradizioni a cui si rifà Cowboy Carter è quella country-soul. Non è un filone particolarmente popolare da noi, ma comprende una lunga serie di artisti che nei loro dischi, in maniera continuativa o sporadica, hanno cercato di superare i confini tra country, soul, R&B, funk, gospel, rock, pop, cancellando di fatto il peccato originale del mercato del disco americano, ovvero la distinzione tra musica hillbilly e race music. È una tradizione formidabile che va da Ray Charles (presente Modern Sounds In Country and Western Music?) alla più recente Allison Russell (l’eccezionale Outside Child). Musicalmente, Cowboy Carter supera ogni distinzione di genere – ecco perché non è un album country in senso stretto – e cumula spesso con gusto notevole country e gospel, cantautorato e rap, zydeco e folk, tutte musiche che in qualche modo sono iscritte nelle radici culturali e geografiche di Beyoncé. «La gioia nel creare musica» ha detto lei «sta nel fatto che non ci sono regole».
Ad aiutarla in quest’opera ci sono grandi musicisti tra cui Rhiannon Giddens, la premio Pulitzer da sempre in prima linea nel rivendicare le radici nere della musica tradizionale americana. Ed è un’operazione che funziona, tant’è che negli Stati Uniti, dove le classifiche sono (ehm) segregate, il singolo Texas Hold ‘Em è entrato in ben nove charts, dal quella pop a quella country e quella urban, una cosa allo stesso tempo esaltante e ridicola. Entrandoci di forza, Beyoncé ha dimostrato il carattere artificiale di queste divisioni. In quest’opera di sincretismo musicale appare anche anche un’aria settecentesca italiana, Caro mio ben di Tommaso Giordani che è intonata in Daughter e che in passato si è sentita cantata da Mina come da Sting (a proposito di figlie, la voce della piccola Rumi appare in Protector). Anche qui, come in Renaissance, Beyoncé è una studentessa di storia americana, non solo musicale.
Voci
Le voci sono una delle cose forti di Cowboy Carter. A partire da quella di Beyoncé che dimostra di potere interpretare di tutto, offrendo una masterclass su come si canta senza strafare, se hai talento. Si pone, qui, come la voce di chi declama una verità ed è credibile e autorevole, sempre. Ci sono poi i cori che punteggiano tante canzoni, non sono abbellimenti, ma parte integrante del disco, momenti comunitari, passaggi liberatori, riferimenti alle radici soul-gospel. E ci sono le voci dei tanti ospiti. Se Post Malone interpreta una parte sexy nella leggera e disinibita Levii’s Jeans, Miley Cyrus è co-protagonista nel duetto notevole II Most Wanted dove l’immaginario tradizionale delle coppie di fuorilegge diventa femminile, passando per Thelma e Louise e il video di Telephone, e contemporaneo, evocando le tipiche vanterie dell’hip hop.
E insomma sono tanti e diversi, bianchi e neri, i cantanti che contribuiscono a rendere anche l’act ii la voce di una comunità magari immaginaria, ma schierata contro pregiudizi, conservatorismo, bigottismo. Questo è un altro punto forse non evidente, ma fondamentale: in 80 minuti Beyoncé e la sua comunità cercano di ridefinire le priorità della cultura americana. E quindi ci sta che nella foto di copertina la cantante a cavallo sventoli la Red, White and Blue: si pone come voce carica di emozione e allo stesso tempo razionale di una nazione in cerca di sé, è assieme la figlia reietta dell’Americana e la mother di tutte le mother. In questo senso, Cowboy Carter non è solo personalissimo, perché frutto della biografia dell’artista, ma è a suo modo anche politico e lo si capisce dall’introduzione in cui Beyoncé si chiede: “Can we stand for something?”. Verrebbe da risponde: yes, we can. E lo si capisce dalla reprise del requiem americano che è piazzata nel finale e che si intitola Amen. “Questa casa è stata costruita con sangue e ossa e si è sbriciolata, sì, si è sbriciolata, le statue che hanno eretto erano belle, ma erano bugie di pietra”. Ecco il senso ultimo del disco: la volontà di espiare i peccati dei padri e seppellire le vecchie idee, perdonare la vecchia America per costruirne una nuova.
Cover
Beyoncé riesce a trasformare due cover in altrettanti momenti forti. La prima arriva subito dopo l’introduzione di Ameriican Requiem ed è Blackbird dei Beatles, che diventa Blackbiird sempre per via dell’act ii. La canzone non è scelta a caso. Paul McCartney ha scritto il pezzo nel 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King in un periodo drammatico per la lotta per i diritti civili, il merlo del titolo nascondeva la storia di uomini e donne di colore. Se Blackbird era un dialogo di un inglese con l’America nera, Blackbiird ne è la sua appropriazione, revisione e sistemazione perfetta in un altro contesto culturale. Per sottolineare il concetto, Beyoncé ha invitato a cantarla con lei Tanner Adell, Brittney Spencer, Tiera Kennedy e Reyna Roberts, tutte cantanti di colore non notissime e vicine al country (vedi alla voce: costruzione di una comunità).
È ancora più forte la cover di Jolene di Dolly Parton. Un po’ come Willie Nelson, anche la grande star del country è chiamata non a cantare, ma a introdurre il pezzo. E lo fa citando un’altra canzone di Beyoncé, Sorry del 2016. All’epoca la popstar se la prendeva con una non meglio identificata “Becky with the good hair” amante del marito: “Mi vuole solo quando non ci sono”, cantava dando il via alla ricerca della colpevole, “e allora che chiami pure Becky dai capelli belli”. Nell’intro, Parton dice che la hussy (che tradurrei con sgualdrina) “with the good hair” le ricorda “una che conoscevo un tempo”, ovvero la Jolene della canzone del 1974. Cinquant’anni fa la cantante pregava letteralmente la bellissima rivale Jolene di non portarle via il suo uomo. Beyoncé non è una che prega una rivale e quindi cambia il testo che da supplica diventa intimidazione: “Jolene, t’avverto, non venire a cercare il mio uomo”.
Tutto torna: bianco e nero, tradizione analogica e gossip digitale, storia e presente, amore e star power, country e soul. Becky di questo mondo, fatevi da parte: Beyoncé è ancora la numero uno.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM