All’improvviso, il buio. Venezia, il Teatro alle Tese, una edizione di Biennale Musica di quelle che se ne parlerà a lungo. E gli Autechre. Non che la performance del duo inglese abbia chiuso la manifestazione, ma ne è stata sicuramente il manifesto, ciò che tutto ha unito. Piove sulla Laguna e tira un vento tiepido, le pozzanghere che accompagnano il passo dentro l’Arsenale si increspano come a preannunciare tumulto in vista.
Si entra, in questa splendida architettura fatta di mattoni a vista, e questa luce bianca accecante, inflebilita solo dal fumo, proietta in uno spazio che spazio non è. Pare di perdersi nel teatro, le persone – in attesa dell’inizio – vagano, fanno foto, paiono confuse, perse in questa nebbia candida. Poi, all’improvviso, cala il buio. Un buio che non è apparenza, ma una vera e propria colata scura che si impossessa di tutta la sala.
Non vediamo più i vicini, né ci dovrà importar più di loro. Il duo che da 30 anni illumina l’elettronica fa calare le tenebre sui suoni che diventano moti ondosi. Se un tempo nei loro set c’era una intransigenza molto più marcata, un’elettronica più strutturata e con un filo logico portante, ora è l’opposto. Gli Autechre portano a spasso, senza nemmeno dare l’impressione di farlo.
Così, senza indugi, i suoni si fanno subito fluttuanti, con questi andirvieni e increspature che diventano architettura. Settantacinque minuti indefinibili, molto prossimi alle creazioni degli Autechre degli ultimi dieci anni (dalla maestosa “All End” in poi, per capirci), poco scheletrici, quasi randomici, ma con una morbidezza e con dei colori così caldi e cangianti quasi sorprendenti.
La spirale elettronica piroetta con una naturalezza incredibile, e avviluppa qualsiasi cosa si pari innanzi. Non c’è alcun esercizio di stile qui, solo il ribadire che questa cosa qui – quello che fanno Rob Brown e Sean Booth – è flusso allo stato puro, in un intreccio che – per complessità e amalgama – raramente m’è capitato di sentire. E che scorre, al netto di un ascolto all’apparenza complicato, con una facilità sorprendente.
Dicevamo: settantacinque minuti, passati in pochissimo. Si esce, piove ancor più forte, ma tutto tuona nelle orecchie. D’altronde siamo a Venezia, il naufragare non può che essere dolcissimo.
Antonio Santini for SANREMO.FM