Trent’anni senza l’angelo dannato del grunge. Il 5 aprile del 1994, quel colpo di fucile non spense solo la vita di Kurt Cobain, ma anche i sogni di un’intera generazione. Quella cresciuta indossando camicie di flanella e abbeverandosi ai ritornelli amari dei Nirvana. Come quello di “Smells Like Teen Spirit”, l’inno dei ragazzi apatici della Generazione X, come è stata raccontata nel libro-cult di Douglas Coupland. Una generazione che faceva del disagio e dell’inquietudine la sua bandiera, proprio come lo stesso Cobain. Lacerato dai traumi di un’infanzia tormentata e incapace di gestire l’enorme successo che ne aveva fatto una star da copertina, un’immagine da t-shirt, il cantante dei Nirvana si congedava dal mondo, entrando così in quel sinistro “Club 27” delle vite bruciate del rock, in compagnia di Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin (dopo di lui, toccherà ad Amy Winehouse).
Il grunge era musica di rivolta, di dolore e rabbia. Il ritorno alla furia iconoclasta del rock, in un periodo di confusione e smarrimento. Un ciclone che si era abbattuto sulla placida Seattle, ma che, dopo la sbornia iniziale, avrebbe lasciato una lunga scia di morti precoci: quelle di Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone, considerato il fondatore del movimento, di Layne Staley, il cantante degli Alice in Chains, di Scott Weiland, voce degli Stone Temple Pilots, di Mike Starr, bassista degli Alice in Chains, e infine di Chris Cornell, indimenticato cantante dei Soundgarden, suicidatosi nel 2017.
Cobain resta comunque l’icona più potente, quella che sintetizza un percorso collettivo. Merito del suo carisma, ma anche di una manciata di canzoni storiche che hanno infiammato il decennio 90, sdoganando la musica indipendente in vetta alle classifiche. Un ruolo forse troppo importante per un fragile ragazzo di 27 anni, già provato dall’“amore tossico” (in tutti i sensi) con la moglie Courtney Love, rampante leader delle Hole. “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”, fu il suo tragico epitaffio, ispirato a un celebre verso di Neil Young. Con lui andò in fumo il sogno di un’epoca intera.
Alla memoria di Kurt Cobain è dedicato questo approfondimento sull’album più celebre e amato dei Nirvana, “Nevermind” (1991).
“Nevermind” – Quando la Generazione X si specchiò nel Seattle-sound
Tutte le nevrosi di una generazione condensate in un disco solo. Tutta la rabbia del mondo rappresa in una sequenza di riff e melodie al cardiopalmo. Se non fosse un ottimo album, “Nevermind” sarebbe da ricordare anche solo come il perfetto manifesto di un’epopea musicale, oltre che la testimonianza definitiva di uno dei suoi interpreti più amati e sfortunati al contempo. Emblematico fin dal titolo (“Non importa”: svalutazione di tutti i valori) resterà la pietra angolare del grunge tutto.
Ma come fu possibile che tre outsider della provincia americana, con un background tecnico non certo ragguardevole, riuscissero ad assurgere a star mondiali, trasformando la remota Seattle nel centro dell’impero rock degli anni Novanta? Il merito, oltre che dell’indubbio talento di Cobain e soci, è di una di quelle magiche alchimie che nella storia del rock hanno partorito, quasi dal nulla, intere scene o nuovi generi musicali.
Liberazione grunge
Non sono stati i Nirvana, a inventare il grunge, anche se col tempo ne sono diventati gli alfieri più apprezzati e popolari. La scena musicale originatasi negli anni Ottanta nello Stato di Washington, in particolare a Seattle, e giunta al successo mondiale nei primi anni Novanta, era nata in realtà come evoluzione di altri generi già ben presenti nel rock, come hardcore e post-punk, specie quello californiano di inizio anni Ottanta (Adolescents, Mission of Burma, Flipper, X, Bad Religion, Dead Kennedys). Smussando alcune asperità di quei suoni, incorporando melodie e ritornelli pop, con un approccio quasi più nostalgico che avanguardista, il Seattle sound faceva risorgere il vecchio punk in forma non più rivoluzionaria, ma apatica e desolata, con una rassegnazione di fondo che si sostituiva alla furia dissacrante di Johnny Rotten e compagni. Anche nel look. All’armamentario aggressivo di giubbotti di pelle, borchie e creste dell’era del “no future”, subentrava infatti uno sdrucito guardaroba casual, fatto di camicie di flanella, maglioni sbrindellati, t-shirt e jeans strappati. Una scelta in linea con uno spirito pauperistico che rifiutava ogni manifestazione di sfarzo, legandosi idealmente all’origine sotterranea, suburbana e periferica del movimento.
In comune con Sex Pistols e compagni, restava proprio l’approccio anti-establishment, unito a un’indole rabbiosa e iconoclasta, condita da una spiccata predilezione per i suoni distorti, sporchi e rumorosi. La forma-canzone tradizionale veniva così aggiornata in forma desolata, trasandata e violenta, in quella che è passata alla storia come la formula “rumore-ritornello-rumore”.
Il termine grunge deriva proprio dall’aggettivo grungy, espressione gergale in voga dagli anni Sessanta a indicare qualcosa di sporco e sudicio. Fu Mark Arm, poi cantante di Green River e Mudhoney, a introdurlo per la prima volta nella scena musicale del luogo. A metà anni Ottanta, Bruce Pavitt della Sub Pop Records si servì del termine per promuovere proprio l’Ep “Dry As A Bone” (1987) dei Green River, che possono quindi essere annoverati tra i pionieri del genere, insieme ai Mudhoney (guidati sempre da Arm) e ai Melvins (gruppo cui s’ispirò proprio il giovane Kurt Cobain). Col tempo il termine inizierà a essere adottato dai media per descrivere un’intera galassia di band gravitanti attorno a Seattle, anche molto diverse tra loro, sia per ispirazione musicale che per attitudine.
Alla fine degli anni Ottanta, l’inquieto Kurt Cobain, nato in una famiglia di origini irlandesi e ancora segnato dal doloroso divorzio dei genitori, lavora come roadie per vari gruppi, tra cui i Melvins e i Bam Bam di Tina Bell, figura seminale della scena di Seattle. Nel 1987, con Krist Novoselic, forma The Stiff Woodies, con Aaron Burckhard alla batteria. Dopo vari cambi di nome, la band opta per quello che resterà nella storia: “Nirvana significa liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno e questo si avvicina al mio concetto di punk”, spiegherà il leader, ancora in preda a quell’entusiastico fervore giovanile che presto l’avrebbe abbandonato. Perché non ci sarà mai, per lui, la liberazione dal dolore e il Nirvana sarà solo un prolungato ed effimero momento di successo, prima della tragica resa dei conti con se stesso.
Dopo la pubblicazione del singolo “Love Buzz” (1988), i Nirvana si esibiscono nei locali di Aberdeen, Seattle e Olympia, distinguendosi per la rabbia delle esibizioni e per la distruzioni delle chitarre come atto performativo e provocatorio. Un anno dopo, con il batterista Chad Channing, giunto dopo una serie di cambi, registrano il primo album sotto le insegne della Sub Pop: “Bleach”, titolo ispirato da una campagna anti-Aids che invitava i tossicodipendenti a pulire gli aghi con la candeggina. Per realizzarlo basterà il risicato budget di appena 600 dollari, anticipati dal chitarrista Jason Everman, il quale poi, in realtà, offrirà un contributo musicale minimo al disco. I tre sono poco più che ventenni e in realtà nessuno di loro è di Seattle: Cobain è nato ad Aberdeen (Washington), Novoselic e Channing sono californiani. Ma le loro canzoni, insieme a quelle di Pearl Jam e Soundgarden, trasformeranno questa piccola città del Nord-Ovest degli States in una fabbrica di successi miliardari.
Cobain si rivela subito l’anima del gruppo. I suoi testi enigmatici, spesso assemblati con la tecnica burroughsiana del cut-up, e il suo stile compositivo agrodolce, in bilico tra John Lennon e Sid Vicious, impreziosiscono pezzi come “About A Girl”, ballata melodica che preannuncia l’esistenzialismo e la vena desolata del suo approccio (con una già chiara attitudine pop, destinata a emergere nei lavori successivi), come l’autobiografica “School” e l’incendiaria “Blew”, già più vicine a territori grunge. Difficile non intravedere le sembianze dello stesso Cobain nel ragazzo anti-sociale di “Negative Creep”, mentre la tesa “Paper Cuts” è l’omaggio ai “padrini” Melvins.
Questi brani, insieme alla cover degli Shockin Blue “Love Buzz”, fissano subito i parametri del suono dei Nirvana. Un sound grezzo e spigoloso, che mescola il blues-rock sporco di Rolling Stones e Stooges con la potenza dell’hard-rock (dai Led Zeppelin agli Aerosmith) e con il fervore hardcore di Husker Du, Pixies e Melvins.
Ancorché acerbo e immaturo, “Bleach” risulta un lavoro di cruciale rilevanza per gli anni a venire. Pur nel loro convulso e un po’ confuso rifarsi ai modelli del passato, i Nirvana contribuiscono a edificare una nuova tipologia di rock, che rispolvera a pieno titolo la forma-canzone tradizionale, puntando sull’essenzialità degli anni 60-70, a scapito di tutti gli artifici del decennio 80, dai synth (praticamente messi al bando) a tutte le forme di effettistica sulle chitarre.
Spirito adolescenziale
La gestazione del difficult second album richiederà 17 mesi. Sarà complessa e travagliata, ma alla fine ogni tessera del mosaico andrà miracolosamente al suo posto. Alla batteria, dopo una serie di avvicendamenti (Dale Crover dei Melvins, Dan Peters dei Mudhoney) entra in pianta stabile Dave Grohl, già nel gruppo punk hardcore Scream. “In un paio di minuti capimmo che era il batterista giusto per noi”, racconterà Novoselic. Grazie all’intercessione della carismatica Kim Gordon, bassista dei Sonic Youth, e ai consigli della manager Susan Silver, i Nirvana compiono il grande salto, passando dall’etichetta indipendente Sub Pop a una major, la Geffen, costola del gruppo Interscope-Geffen-A&M a sua volta posseduto dall’Universal Music Group. Non un fatto così insolito, all’epoca, anche per una band in tutto e per tutto “alternativa”. Le grandi industrie discografiche, infatti, stavano fiutando le potenzialità commerciali del movimento grunge, come testimoniavano i precedenti di formazioni di Seattle quali Soundgarden e Alice in Chains, già sotto contratto rispettivamente con A&M e Columbia. “Il disco cruciale fu l’esordio degli Alice In Chains (“Facelift”, 1990) – spiegherà Arm – fece capire che c’era aria nuova, che si stava creando un’alternativa. I Nirvana si trovarono nel mezzo di tutto ciò e giocarono bene le loro carte, favoriti da una personalità iconica come quella di Kurt Cobain”.
Pur in pieno fervore creativo, tuttavia, il Cobain che entra ai Sound City Studios di Van Nuys (California) nel maggio-giugno 1991 per registrare “Nevermind” deve già fare i conti con quei demoni che in seguito ne divoreranno l’esistenza. Nella sua biografia del leader dei Nirvana datata 2001, “Heavier Than Heaven”, lo scrittore Charles R. Cross rivelerà che molte delle canzoni scritte per “Nevermind” riguardavano la problematica relazione sentimentale del cantante con Tobi Vail, la sua ragazza dell’epoca, batterista del gruppo riot grrrl Bikini Kill. Quando il loro rapporto finì, Cobain iniziò a scrivere e disegnare scenari pieni di violenza, molti dei quali rispecchiavano il suo odio per sé stesso e per gli altri. “Nei quattro mesi seguenti alla fine della loro relazione, Kurt scrisse una mezza dozzina delle sue canzoni più memorabili, tutte riguardanti Tobi Vail”, racconterà Cross. Ad esempio, “Drain You”, che inizia con la strofa: “One baby to another said I’m lucky to have met you”, frase che una volta la Vail aveva detto a Cobain, e continua con: “It is now my duty to completely drain you”, riferendosi al potere che la ragazza esercitava su di lui nelle dinamiche del loro rapporto.
Ma il dolore, in “Nevermind”, si trasforma miracolosamente in canzoni accattivanti, in grado di catturare il grande pubblico del nuovo decennio, affamato di rock dopo la sbornia elettropop degli anni 80. Non più grezze e spigolose come quelle dell’esordio, seppur ugualmente potenti, le tracce di “Nevermind” risentono della mano sapiente di Butch Vig, preferito a Jack Endino, il produttore del debutto. Ai membri del gruppo era particolarmente piaciuto il lavoro svolto con i Killdozer dal futuro deus ex machina dei Garbage: “Vogliamo che il nostro disco suoni pesante come il loro album”, gli fanno sapere, ribadendo con forza la loro scelta di affidarsi al guru indie dei celebri Smart Studios, al punto da preferirlo a nomi importanti come Scott Litt, David Briggs e Don Dixon. Il budget, stavolta, è di 65.000 dollari. Impossibile stabilire quanti in più ne frutterà il prodotto finale. Quel che è certo è che bastò a Vig per affinare il loro sound, accentuandone i contrasti e rifinendone gli arrangiamenti, laddove Endino – anche a causa dei limiti di budget – non aveva fatto altro che riprodurlo così come si manifestava in formato live.
Come in ogni bestseller che si rispetti, anche in “Nevermind” non manca il singolo trainante. Solo che in questo caso si tratta anche di una delle canzoni più iconiche e rappresentative dell’intero decennio. Non lo immaginavano certo, i Nirvana, quando strimpellavano i primi accordi di “Smells Like Teen Spirit”, anzi. Quando Cobain presenta il primo abbozzo del brano agli altri membri della band, ci sono soltanto il riff principale e la melodia vocale del ritornello, che Novoselic liquida rapidamente come “ridicola”. Per tutta risposta, Cobain fa suonare al gruppo il riff per un’ora e mezzo. Una lunga session in cui Novoselic decide di rallentare il ritmo, iniziando a suonare la strofa mentre Dave Grohl lo accompagna con la batteria. Non a caso, il brano risulterà l’unico del disco ad accreditare tutti e tre i membri del gruppo come autori. Ma è possibile che anche Cobain non prendesse così sul serio “Smells Like Teen Spirit”. Altro che inno generazionale: quel titolo era il frutto di una notte di sbornie in compagnia della sua amica Kathleen Hanna, cantante delle Bikini Kill, che gli aveva imbrattato il muro di casa con la scritta a spray “Kurt smells like teen spirit” (“Kurt profuma di Teen Spirit”). Una frase scherzosa, riferita a un deodorante per adolescenti molto in voga all’epoca, il Teen Spirit, utilizzato anche dalla sua ragazza Tobi Vail. Non è dato sapere fino in fondo se Cobain avesse colto l’ironia dell’allusione, fatto sta che quel titolo gli sembrava perfetto per suggellare la lunga discussione avuta con Kathleen su anarchia e punk-rock. Secondo il critico Simon Reynolds, il brano sfrutta proprio l’ambiguità di senso di questo “spirito adolescenziale” che, da un lato rappresenta la voglia di ribellione giovanile, ma dall’altro è proprio quello che viene “imbottigliato” e venduto dal mercato per alimentare soltanto sé stesso. Ed è proprio da questa dicotomia che nasceranno tutte le paranoie e le frustrazioni del Cobain più adulto.
Quel che è certo è che nessuno intuiva come da quel semplice riff e da quel buffo titolo, rimbalzato da una notte di bagordi, potesse scaturire l’inno della Generazione X, quella che, stando al libro-cult di Douglas Coupland, faceva del disagio, dell’apatia e dell’inquietudine la sua bandiera, proprio come lo stesso Cobain. È altrettanto indiscutibile, però, che la canzone possieda un’energia primigenia e irresistibile. Quasi un urlo collettivo, disperato e trascinante, che nessuno potrà mai ignorare. Bastano quei quattro accordi appiccicosi, quelle chitarre ruggenti, quel lamento scorticato di parole nonsense, sorretto dalle rullate poderose di Grohl, e il gioco è fatto.
I Nirvana se ne rendono conto quando la eseguono dal vivo per la prima volta all’Ok Hotel di Seattle, il 17 aprile 1991: un’esplosione collettiva che manda in visibilio i presenti. Così Cobain e compagni scelgono proprio “Smells Like Teen Spirit” come prima traccia da suonare davanti a Butch Vig al momento di registrare il disco. Anche il produttore ne è entusiasta, suggerisce solo di sovraincidere la chitarra al momento del ritornello e per vincere le resistenze di un restio Cobain, gli ricorda che anche il suo idolo John Lennon era solito doppiare le sue parti vocali: “Sovraincidendo voci e chitarre, il suono sarebbe stato più potente”, garantisce l’uomo alla console.
Cobain diceva di averla composta cercando di fare una canzone dei Pixies, ma “Smells Like Teen Spirit” rappresenta in tutto e per tutto il manifesto del Nirvana-sound. Assai meno banale di quanto si possa pensare, con quel lancinante assolo di chitarra che rimarca la linea melodica del canto e quella peculiare struttura, nella quale i ritornelli anticipano le strofe (e non viceversa). E con un testo – all’apparenza una specie di mantra nonsense – che contiene però un nucleo amarissimo: “With the lights out it’s less dangerous/ Here we are now, entertain us/ I feel stupid and contagious/ Here we are now, entertain us/ A mulatto/ An albino/ A mosquito/ My Libido”. Cobain pare quasi irridere il concetto stesso di rivolta giovanile, rivelando in quel “mi sento stupido e contagioso” tutto il disagio di chi iniziava a percepirsi come parte integrante di un ingranaggio che detestava, quello del music business (“Ora siamo qui, intratteneteci”) che lo avrebbe progressivamente fatto sentire sempre più “scisso” e inadeguato, fino a quel tragico epilogo del 5 aprile del 1994. Anche il fortunato videoclip diretto da Samuel Bayer, che irromperà in heavy rotation su Mtv e tutti i canali video-musicali, ribadirà l’idea di una parodia della rivolta giovanile che tramuta la rabbia adolescenziale nella consapevolezza di una diversità insuperabile.
Sarà proprio quel singolo-manifesto, scelto come traccia d’apertura, il propellente per l’esplosione del secondo album dei Nirvana nelle classifiche mondiali. Con gran sorpresa degli stessi vertici della Geffen, che non crederanno ai loro occhi l’11 gennaio 1992 quando “Nevermind” spodesterà “Dangerous” di Michael Jackson dalla vetta della Billboard 200. Un brano talmente iconico da divenire quasi indigesto allo stesso Cobain, che spesso lo escluderà dalle scalette live. Nulla potrà però fermarne l’avanzata nella storia del rock, suggellata dalla quinta posizione nella classifica delle migliori canzoni di sempre della rivista Rolling Stone. Tra le innumerevoli cover, va segnata senz’altro quella in versione languida e sensuale dell’ispiratissima Tori Amos dell’anno 1992.
I dolori del giovane Kurt
Un disco che inizia come un uragano, dunque, “Nevermind”. Ma il resto della storia non è meno avvincente di quel travolgente incipit. Un saggio di adrenalinico artigianato rock, reso immortale dall’ugola rauca e tremolante di Cobain. A partire da quella “In Bloom” che avrebbe dovuto essere il primo singolo tratto dal disco e ne diventò invece il quarto. Un power-pop immediato e orecchiabile, che parte su un giro di basso depresso, con le parole desolate di Cobain (“Sell the kids for food/ weather changes moods/ Spring is here again/ reproductive glands”). E poi l’assolo fulminante e il refrain melodico che si conficca nella mente, con un nuovo urlo primordiale di diretta derivazione garage-rock, nel solco di Iggy Pop & The Stooges. Si sarebbe dovuta intitolare “Knows Not What It Means”, come ripete ossessivamente Cobain alla fine del ritornello, e ha un significato tuttora incerto: può essere interpretata come un attacco ai maschilisti, a chi abusa degli altri, ma anche come una presa in giro dei fan casuali, che cantano in coro i ritornelli senza sapere di cosa parlino. E a giocare su questo rapporto contraddittorio con i fan è anche il suggestivo videoclip in bianco e nero in cui la band, inizialmente ingessata nei panni di un pop-group anni 60, finisce con lo scatenarsi devastando il palco e strappandosi i vestiti di dosso nello sconcerto generale.
Sul versante più adrenalinico, non mancano altri cavalli di battaglia. Come il quasi-hardcore di “Breed”, con il drumming forsennato di Grohl e un “wall of noise” (schitarrate, campionamenti, vocalizzi stratificati) a condurre un pogo irrefrenabile dal primo all’ultimo secondo. E come soprattutto l’incendiaria “Lithium”, la canzone che mise a dura prova le corde vocali di Cobain – costringendolo a uno stop nelle prime registrazioni – ma anche il batterista, per via di quel ritmo troppo accelerato che Vig propose a Grohl di correggere attraverso l’uso del click (un metronomo che aiuta a tenere il tempo) in cuffia. A far da contrappunto alla carica dirompente del sound e all’apparentemente scanzonato “Yeah, yeah” del ritornello, è un testo drammatico, che narra la storia di un ragazzo depresso per la morte della compagna, che si rifugia nella religione per non abbandonarsi al suicidio (con più di uno spunto autobiografico ispirato a Cobain dalla rottura con Tobi Vail).
Trasudano furore e rabbia anche episodi del disco, come “Drain You”, tra dissonanze alla Sonic Youth e riferimenti autobiografici alla solita Tobi; “Territorial Pissings”, che inizia parodiando una canzone hippie degli anni 60 (“Get Together”) per poi esplodere in un altro terrificante urlo; il power-pop di “Lounge Act” con un Novoselic in stato di grazia; l’assalto punk di “Stay Away” con Grohl in cattedra e un verso definitivo come “Rather be dead than cool” (“Preferirei essere morto piuttosto che figo”) che in fondo riassume in cinque parole l’essenza dell’intero movimento grunge.
Ma il dolore non è solo rabbia. A ricordarcelo è “Come As You Are”, ballata malinconica e depressa, con quel giro di basso di Novoselic diventato ormai leggenda e la chitarra in flanger che reitera una melodia pericolosamente simile a quella di “Eighties” dei Killing Joke (ma la temuta causa da parte di Jaz Coleman e compagni non arriverà mai). La mania di Cobain di accordare gli strumenti mezzo tono sotto la scala normale trova qui un senso logico, facendo suonare il brano straniante come non mai, mentre il verso “I don’t have a gun”, che voleva esprimere soltanto intenzioni pacifiche, assumerà un ben più triste significato dopo il suicidio di Cobain.
A rilassare l’ascoltatore dai muri di suono precedenti è anche “Polly”, che però fin dai primi versi svela la sua anima torbida e straziata: la protagonista è infatti la quattordicenne rapita dopo un concerto punk dal pedofilo Gerald Arthur Friend, il quale la violentò e torturò per due giorni, fino a quando la ragazzina riuscì fuggire e il criminale venne arrestato. Un fatto di cronaca che Cobain decide di raccontare dal punto di vista del carnefice, scatenando polemiche e accuse assortite. I Nirvana si dovranno perfino difendere in tribunale, sostenendo che “Polly” (originariamente “Hitchhiker”, poi “Cracker”) era solo un brano di denuncia contro la violenza. Scarna e acustica fin dal principio, diverrà uno dei momenti centrali della storica esibizione della band agli Mtv Unplugged newyorkesi del 1994, con un approccio quasi da crooning che Cobain ribadirà poi esplicitamente nello struggente omaggio al bluesman Leadbelly di “Where Did You Sleep Last Night?”.
In questo filone acustico s’insinua anche il bisbiglio desolato di “Something In The Way”, in cui Cobain narra i giorni che ha passato sotto il ponte di Young Street, nei pressi del fiume Wishkah ad Aberdeen, cacciato di casa e in preda a uno sconforto inimmaginabile: “Underneath the bridge/ The tarp has sprung a leak/ And the animals I’ve trapped/ Have all become my pets/ And I’m living off of grass/ And the drippings from the ceiling/ But it’s ok to eat fish/ Cause they haven’t any feelings/ Something in the way” (“Al di sotto del ponte/ Il pesce ha mollato una pisciata/ E gli animali che ho catturato/ Sono diventati tutti miei animali domestici/ E non continuo a vivere d’erba/ E lo sgocciolio dal cielo/ Va bene mangiare pesce/ Perché loro non hanno sentimenti/ Qualcosa nella strada”). Anche se Novoselic avrà modo di mettere in dubbio la veridicità di quegli eventi, sottolineando che “Kurt aveva voluto un po’ esagerare”, resta l’indubbio fascino di questa scarna ballata acustica, che vede la collaborazione di Kirk Canning al violoncello e troverà anch’essa la sua sublimazione nella versione contenuta nell’album “Mtv Unplugged In New York” del 1994.
Dopo 10 minuti di silenzio, chiude il sipario la ghost-track. Una registrazione di chitarre dilaniate e annientate in studio, con distorsioni tremende e urla selvagge: “Endless, Nameless”. Rabbia allo stato puro.
Si chiude così “Nevermind”, l’album reso immortale anche dall’iconica foto di copertina di Kirk Weddle, che ritrae un bambino di 4 mesi (Spencer Elden), nudo in una piscina di Pasadena (California), mentre sembra inseguire una banconota da un dollaro appesa a un amo (elementi aggiunti in post-produzione). I genitori del piccolo ricevettero un compenso di 150/200 dollari. Il gruppo regalò poi al ragazzo il disco di platino dell’album in segno di riconoscenza. Nel 2006 Elden racconterà a Nme di essere felice di aver fatto parte dell’album e di essersi tatuato la scritta “Nevermind”, mentre due anni dopo si offrirà per rifare la foto dell’album, questa volta in bermuda, nella stessa piscina di allora. Peccato che, in occasione del trentesimo anniversario della pubblicazione dell’album, proprio quando verrà dato alle stampe un box celebrativo, Elden cambierà idea intentando una surreale causa da 150mila dollari di danni contro le persone coinvolte nella realizzazione della copertina, per via del suo presunto “contenuto pedopornografico” e dello “sfruttamento sessuale” della sua immagine. In tribunale, per ora, ha avuto torto, ma Elden non sembra deciso a fermarsi, in questa imprevedibile quanto sconcertante coda giudiziaria.
Martire del rock
“Abbiamo avuto più fortuna perché scriviamo canzoni orecchiabili e la gente le ricorda”, raccontava con ironia Kurt Cobain al suo biografo Michael Azerrad. Eppure, con “Nevermind” il biondo angelo dannato di Seattle pensava di essersi spinto troppo in là. Non l’aveva convinto la scelta del discografico Gary Gersh di affidarsi ad Andy Wallace (già produttore per gli Slayer) in fase di missaggio, per accentuare dinamica e profondità del sound, smussandone qualche angolo. In generale, Cobain si dichiarerà insoddisfatto del suono “troppo pulito” dell’album, arrivando anche a dire di “sentirsi imbarazzato” dalla produzione di Vig, più simile (secondo lui) a quella di un disco dei Mötley Crüe che a quella di un disco punk-rock. Ma proprio quell’equilibrio contribuirà alla magia di “Nevermind”. Un disco insieme dissonante e radiofonico, capace di mescolare con le giuste proporzioni furore e melodia, asprezza del suono e nitidezza degli arrangiamenti. Del resto, a rendere unici i Nirvana resterà proprio l’abilità nel saper associare al sarcasmo nichilista del punk un talento melodico sconosciuto a gran parte delle formazioni della galassia Seattle. E poi c’è quel suono della chitarra di Cobain che, secondo la rivista Guitar World, aveva “stabilito il tono di tutta la musica rock degli anni Novanta”.
Pubblicato negli Stati Uniti il 24 settembre 1991, “Nevermind” venderà oltre 30 milioni di copie (contro le 30mila dell’esordio) diventando uno dei maggiori successi discografici del decennio, ma senza alienare ai Nirvana le simpatie delle frange più oltranziste del loro pubblico. Cobain e compagni avranno modo comunque di ritrovare le radici grezze e sudice degli esordi nel successivo “In Utero” chiamando in cabina di regia Steve Albini, il profeta del suono duro e puro: sarà il loro vero – e agghiacciante – testamento musicale. “I Hate Myself And I Want To Die”, voleva intitolarlo Kurt, che aveva già deciso di farla finita.
Non sarà sufficiente neanche l’endorsement di Bob Dylan, che lo proclamerà “portavoce di una generazione”. Cobain non aveva mai nascosto il disagio per quello che era diventato: “Prima suonare era un’avventura, adesso è un circo che mi annoia”, aveva raccontato agli amici. Incapace di gestire l’enorme successo che ne aveva fatto una star da copertina, un’immagine da t-shirt, sfibrato dalle droghe e dalla relazione altrettanto “tossica” con la moglie Courtney Love, il cantante dei Nirvana si congederà dal mondo con un colpo di fucile, nella sua casa sul lago Washington, a Seattle, il 5 aprile del 1994, andandosi ad aggiungere a quel sinistro “Club 27” delle vite bruciate del rock, in compagnia di Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin (dopo di lui, toccherà ad Amy Winehouse). Da angelo maledetto a martire del rock: una parabola non certo inedita, ma che trafisse il cuore a una generazione. Una fine terribile e per molti addirittura inaccettabile. Al punto da provocare anche una sequela di improbabili teorie complottiste, tutte prontamente confutate dall’autopsia.
Abbattutosi come un ciclone sulla placida Seattle, dopo la sbornia iniziale, il grunge lascerà una lunga scia di altre morti precoci, come quelle di Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone, tra i fondatori del movimento, di Layne Staley, vocalist degli Alice in Chains, di Scott Weiland, voce degli Stone Temple Pilots, di Mike Starr, bassista degli Alice in Chains, e infine di Chris Cornell, indimenticato cantante dei Soundgarden. Resta comunque la certezza che Kurt Cobain abbia incarnato il vero eroe di Seattle, in grado da solo di trainare un’intera scena musicale. “Senza di lui il grunge non avrebbe avuto nemmeno un decimo dell’immensa popolarità conquistata tra il 1992 e il 1995 – sottolinea Eddy Cilia nella sua Guida – Orbo del musicista che l’aveva reso popolare e handicappato dai suoi evidenti limiti espressivi, il grunge ha progressivamente lasciato il centro della ribalta”. Dove nuovi fenomeni e nuove griffe di marketing musicale erano già pronti a contendersi la scena.
“It’s better to burn out than to fade away“, “è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”, fu il tragico epitaffio di Cobain, ispirato a un celebre verso di Neil Young (da “Hey Hey, My My”). Con lui andò in fumo il sogno di un’epoca intera.
(Tratto dal volume “1991” della collana editoriale “The Past”)
Daniel D`Amico for SANREMO.FM