Nella lunga e mai conclusa onda della musica rock, uno dei momenti più ambiziosi è stato senz’altro quello segnato dalla nascita della suite rock, culmine di un percorso tortuoso partito dal blues delle origini e dal rock’n’roll che verso la fine degli anni 60 finì per esplodere come un big bang nel decennio successivo. Una evoluzione che nasce grazie all’acquisizione da parte dei musicisti di una crescente coscienza dei propri mezzi: maggiore ambizione e conseguente maggiore voglia di osare e andare oltre, testando nuove influenze (avanguardia, classica, jazz) con una tecnica sempre più sofisticata. Questi aspetti hanno portato alla scrittura di brani mediamente più complessi ed elaborati, più lunghi e suddivisi in sequenze diverse in sovrapposizione tra loro.
Da sempre la parola suite è stata appannaggio dei compositori classici, ma i giovani musicisti rock se ne appropriano in un momento di grande bramosia di cambiamento e di minimo timore reverenziale verso le complessità compositive della musica classica. E’ la seconda metà degli anni 60, epoca in cui la psichedelia apre nuovi confini, ampliando il formato canzone a lunghi trip lisergici (Doors, Jefferson Airplane, Grateful Dead, Quicksilver Messenger Service), aprendosi all’avanguardia (Red Krayola, Velvet Underground), arrivando a sfidare la propria ambizione con nuovi formati di canzone che arrivano a superare i venti minuti, arginati solo dal limite tecnico della singola facciata di un vinile. Venti minuti che diventano un grande calderone di influenze e libertà compositive, dando vita ben presto a una stimolante sfida a distanza tra musicisti che cercano di superarsi vicendevolmente e segnando per certi versi il vertice assoluto della musica progressive. Una lunga stagione che vede nel decennio 1968-1977 la sua epoca d’oro, con tante composizioni destinate a rimanere per sempre nella memoria.
Da questa lunga lista emerge chiaramente la grande eterogeneità del progressive britannico del periodo, in quanto ogni band interpreta la musica prog (e quindi l’idea di suite) in modo radicalmente differente da tutte le altre, in base alle proprie idee o intuizioni. L’elenco che segue non può dunque essere esaustivo di tutto il decennio, ma è comunque molto ampio e abbastanza rappresentativo. Le suite sono inserite in ordine cronologico proprio per dare l’idea di un percorso evolutivo che ha coinvolto un’intera generazione di musicisti e che ha lasciato un patrimonio di idee e fantasia probabilmente irripetibile. Quindi un movimento generazionale, non creato da una o due band in particolare. Proprio come ci dice il proverbio latino ripreso dai Nice, l’arte è lunga e la vita è breve.
“In Held ‘Twas in I” – Procol Harum (settembre 1968) durata 17.31
Prima ancora che la parola progressive entri nel dizionario della musica rock e che band come i King Crimson o gli Yes ne scrivano i canoni fondamentali, i Procol Harum diventano i paladini del rock barocco col loro esordio del 1967. Un anno dopo pubblicano la suite di diciassette minuti divisa in cinque movimenti “In Held Twas In I” all’interno dell’album “Shine On Brightly”. Proseguendo nel solco delle loro classiche sonorità romantiche e barocche, i Procol Harum mostrano per primi il coraggio di sperimentare il formato suite pur non riuscendo a togliere quella sensazione di trovarsi di fronte a cinque brani differenti più che a cinque movimenti di una suite. Le melodie pop accattivanti, i brevi cenni di raga psichedelici e i due movimenti finali sono ormai molto vicini a quello che diventerà il rock progressivo. La storia sembra aver dimenticato questa suite, che ha comunque il merito storico di essere stato il primo coraggioso tentativo di superare le convenzioni pop per sperimentare nuovi spazi di libertà. Da questo momento sarà il diluvio.
“Ars Longa Vita Brevis” – Nice (novembre 1968) durata 19.26
Il testimone dei Procol Harum viene subito preso dai Nice di Keith Emerson con il loro secondo Lp “Ars Longa Vita Brevis”, dal celebre proverbio romano. I diciannove minuti della suite omonima, divisa in sei movimenti, sembrano però da alcuni punti di vista un passo indietro, in quanto danno chiaramente l’idea di uno sfoggio tecnico fine a sé stesso da parte dei singoli musicisti che si alternano tra loro (prima la batteria, poi il piano); da altri punti di vista rappresentano un passaggio positivo per il coraggio di avvicinarsi chiaramente alla musica classica. Pretenzioso in certi momenti (i concerti brandeburghesi di Bach), “Ars Longa Vita Brevis” è in certo senso una palestra per Keith Emerson, che a breve con le suite degli Emerson, Lake and Palmer raggiungerà livelli decisamente migliori.
“Valentyne Suite” – Colosseum (novembre 1969) durata 16.52
Se il 1968 può considerarsi un anno di prova, con due tentativi ancora non totalmente centrati, il 1969 è l’anno in cui il diluvio ha inizio. I Colosseum arrivano per primi a un formato suite compiuto, dando una nuova percezione di suite come piccolo concept omogeneo, dove all’interno vi sia la massima libertà del musicista, ma anche un filo conduttore in grado di tenere insieme i movimenti. “Valentyne Suite” apre davvero a territori inesplorati che poi diventeranno un terreno di incontro e scontro per tutte la band prog che tenteranno di registrare le suite più complesse possibili come in una continua sfida gli uni con gli altri. La title track di “Valentyne Suite” (diciassette minuti divisi in tre movimenti), più vicina al jazz che alla musica classica, inizia con il movimento “January’s Search”, con tastiera e vibrafono, a cui si aggiungono due sax, con ritmi vari dal jazz orchestrale all’improvvisazione, che diventano via via un vero tour de force strumentale che solo successivamente verrà chiamato progressive. Il terzo e ultimo movimento, “The Grass Is Always Greener”, si conclude con un imperioso finale strumentale che suona come una gioiosa fanfara, inaugurando inconsapevolmente un decennio di suite che passerà alla storia come il periodo d’oro del prog.
“Moon In June” – Soft Machine (giugno 1970) durata 19.06
Non proprio una suite in senso stretto, ma per certi versi accostabile, “Moon In June” – insieme all’album “Third” che la contiene – dà l’avvio a una nuova fase dei Soft Machine e in generale alla scena di Canterbury. Quattro brani lunghi e ambiziosi che culminano nella lunga composizione di Robert Wyatt, uno dei suoi massimi capolavori. Diciannove minuti divisi in due parti, in cui nella prima un Wyatt solista canta e suona le tastiere prima dell’arrivo dalla band, nella seconda parte si assiste a un maestoso inno alla creatività che è anche un manifesto dell’utopia e del sogno della musica totale.
“Atom Heart Mother” – Pink Floyd (ottobre 1970) durata 23.41
Nel 1970 i Pink Floyd hanno già pubblicato tre album che sono altrettanti pilastri della psichedelica britannica. In pochi anni hanno già sperimentato sonorità diverse, in un triennio che è tra i più creativi e avventurosi che il rock ricordi. Con “Atom Heart Mother” inizia un nuova fase, che si potrebbe definire progressiva e che prosegue sino a “Meddle” – appena prima di diventare la band più famosa del mondo. La title track è cronologicamente uno dei primi tentativi, tra i più ambiziosi, di coniugare una sinfonia classica con le intuizioni lisergiche dei lavori precedenti. La suite, divisa in sei movimenti, suonata con orchestra, cori e musica concreta, rimane uno degli esperimenti più arditi della musica giovanile dell’inizio degli anni 70, aprendo a nuovi scenari, ma non trovando – in fin dei conti – veri emuli nelle band progressive successive. Ad ogni modo, da “Atom Heart Mother” fino almeno ad “Animals”, ogni album dei Pink Floyd conterrà almeno una suite (se si considera suite il lato B di “The Dark Side Of The Moon”, come dovrebbe essere), facendo capire quanto l’album della mucca sia stato fondamentale per carriera della band degli amici/nemici Waters e Gilmour.
“The Three Fates” – Emerson, Lake & Palmer (novembre 1970) durata 7.44
La carriera del supergruppo più celebre di tutti i tempi inizia subito con grandi ambizioni. Keith Emerson ha lasciato i Nice, Greg Lake e Carl Palmer hanno rispettivamente abbandonato i King Crimson e gli Atomic Rooster, per sentirsi liberi di provare un nuovo tipo di prog-rock peculiare e senza compromessi. Il loro esordio non delude affatto e – a parte i brani che sono diventati dei classici (“The Barbarian” e “Lucky Man”) – contiene almeno due suite. La prima è “Take A Pebble”, dodici minuti sublimi che coniugano tecnica e melodia come poche volte altre volte è accaduto nella storia del terzetto. I sette minuti di “The Three Fates”, divisi in tre movimenti, sono invece più emblematici della musica dei Elp, delle loro idee e delle loro ambizioni. Questa suite breve, prima della quadratura del cerchio di “Tarkus”, mostra in pieno le capacità di Emerson, in particolare nel secondo movimento “Lachesis” degno di una sonata classica di un compositore del 900.
“Lizard” – King Crimson (dicembre 1970) durata 23.19
Dopo i primi due album dei King Crimson, autentici manuali d’istruzioni per chiunque volesse avvicinarsi al progressive, Fripp decide di chiudere con “Lizard” quella trilogia prog fiabesca incentrata sui testi del paroliere Peter Sinfield. “In The Court Of The Crimson King” e “In The Wake Of Poseidon” non avevano ancora una suite (tranne forse “The Devil’s Triangle”, undici minuti in tre movimenti), quindi Fripp decide di seguire le orme dei Pink Floyd e pubblica nel lato B la title track “Lizard” di ben ventitré minuti. Con in prestito Jon Anderson degli Yes, la prima suite della band di Fripp è ancora in pieno territorio sinfeldiano, ma si discosta per i contenuti di improvvisazione jazz e free-jazz molto marcati. Gli intermezzi prog del terzo movimento sono invece tipici del sound primigenio della band e sarebbero potuti stare tranquillamente negli album precedenti. Stranamente questa lieve variazione non preannuncia il futuro di una band destinata a cambiare volto continuamente.
“Nine Feet Underground” – Caravan (aprile 1971) durata 22.44
Se Canterbury è stata una pagina alternativa al progressive, ma comunque affine – di certo questo lo si deve soprattutto ai Caravan e a tutte le band epigone di quel tipo di sonorità (Egg, Camel, Quiet Sun, ecc). Abbiamo già inserito i Soft Machine nello speciale, ma è evidente come i Caravan abbiano interpretato la suite rock in modo più vicino a quello che ci si aspetta da una band di prog classico, se paragonata all’eretica “Moon In June”. “Nine Feet Underground” (ventidue minuti in otto movimenti) dal loro terzo album “In The Land Of Grey And Pink”, è il vertice del progressive canterburiano romantico, capace di coniugare gli elementi tipici delle classiche suite del progressive rock con l’aggiunta di alcuni stilemi tipici di quella scena, e in generale può essere considerata il manifesto della loro musica.
“Tarkus” – Emerson, Lake & Palmer (giugno 1971) durata 20.43
Dopo averci provato con i Nice con una suite non riuscita in pieno, Keith Emerson con il suo celebre supergruppo, dopo un buon album d’esordio e una prima ottima suite (“The Three Fates”), ci riprova con “Tarkus” e stavolta il risultato è assolutamente a fuoco. La suite “Tarkus” (venti minuti divisi in sette movimenti) rappresenta il vertice del progressive emersoniano, un genere di prog decisamente diverso da tutti gli altri, da vari punti di vista il più integralista, quindi il più autentico e conseguentemente il più osteggiato. All’interno dei sette movimenti, spiccano i tre strumentali (“Eruption”, “Manticore” e “Aquatarkus”), funambolici e magniloquenti dall’inizio alla fine, come è giusto che sia il progressive ipertecnico di Emerson. Due anni dopo con “Karn Evil 9” (quasi trenta minuti divisi in due parti) dall’Lp “Brain Salad Surgery” il super-trio proverà a ripetersi.
“Echoes” – Pink Floyd (ottobre 1971) durata 23.33
Una singola nota, quella nota che si riconoscerebbe tra mille, la nota perfetta. Inizia così, in modo inconfondibile, la seconda suite dei Pink Floyd che chiude la seconda fase della loro carriera iniziata l’anno prima. Questa chiusura del cerchio – prima del successo mondiale di “The Dark Side Of The Moon” – avviene con la suite ultra-psichedelica “Echoes”, probabilmente il capolavoro di Wright, che scrive la parte iniziale, e di Gilmour, che ci regala uno dei suoi assoli più memorabili, esempio assoluto della più pura psichedelia britannica e prova di un equilibrio perfetto tra le varie anime della band destinato a durare ancora pochi anni.
“A Plague Of Lighthouse Keepers” – Van Der Graaf Generator (ottobre 1971) durata 23.12
Se c’è stato un prog nero, un dark prog, questo è stato senz’altro incarnato dalla musica dei Van Der Graaf Generator. La musica di Peter Hammill e compagni è un deciso addio alle fiabe dei primi King Crimson. Adesso è la volta di mondi di tenebra degni di Poe o di Lovecraft e in questo la monumentale suite “A Plague Of Lighthouse Keepers” (ventitré minuti in dieci movimenti) è un punto di arrivo inavvicinabile. A testimoniare quanto sia stata vasta e variegata la scena progressiva britannica, ci troviamo adesso di fronte a musica sinfonica angosciante e claustrofobica, qualcosa di simile a una interpretazione di “Le avventure di Arthur Gordon Pym” di Poe in versione musicale, dove il protagonista è il guardiano di un faro. C’è talmente tanto in questi ventitré minuti da restare a tratti interdetti, tanto da sentire persino premonizioni della new wave e percepire come il prog si stesse trasformando in tragedia: per certi versi la fine dell’innocenza del rock tutto.
“Close To The Edge” – Yes (settembre 1972) durata 18.41
Nella “sfida” artistica tra Keith Emerson e Rick Wakeman, i due tastieristi più iconici del rock sinfonico, “Tarkus” ha rappresentato il vertice dell’idea di prog del primo, mentre “Close To The Edge” (magari insieme a “And You And I”) ha rappresentato il momento di massima ispirazione di Wakeman e di tutta la sua band. Un album straordinario (primo nella classifica prog della redazione di OndaRock) che prende la concezione di progressive della band britannica e la porta a definitivo compimento. La suite “Close To The Edge” è il momento in cui la band inglese raggiunge un equilibrio assoluto tra tecnica, melodia ed emotività, con riferimenti alle fiabe crimsoniane, virtuosismi estremi che si accompagnano a momenti di estasi religiosa assoluta (l’organo più sublime che si sia mai ascoltato nel prog). Da questo momento la suite per gli Yes diventerà una regola, quasi un’ossessione. Appena un anno dopo pubblicheranno “Tales From Topographic Oceans”, il celebre Lp delle quattro suite, per poi continuare con “The Gates Of Delirium” e “Machine Messiah”, prima di perdersi nel nuovo decennio.
“Thick As A Brick Part 1” – Jethro Tull (marzo 1972) durata 22.40
Ulteriore testimonianza dell’enorme creatività che il progressive ha stimolato nei giovani musicisti degli anni 70, sono i Jethro Tull di Ian Anderson, fautori di un tipo di prog alternativo, assolutamente diverso da quelli fin qui citati. Folk rivisitato, flauti, hard-rock e look da menestrello: tutto questo ha reso unica e riconoscibile la storia della band di Anderson. Dopo i primi album contaminati di blues e folk che tendono di volta in volta sempre più al progressive, dopo il successo clamoroso di “Aqualung”, consolidano il formato suite nel 1972 con uno dei loro album più riusciti, “Thick As A Brick”. La suite iniziale (ventidue minuti divisi in quattro movimenti) si trova in un equilibrio mirabile tra tutte le influenze storiche della band britannica, che si alternano di continuo in un susseguirsi di trovate e melodie a suggello di una delle pagine più nobili dell’intero progressive rock.
“Supper’s Ready” – Genesis (ottobre 1972) durata 23.05
I Genesis sono stati la band prog che ha ottenuto il maggior successo nel nostro paese e che più ha influenzato il progressive italiano. Mostrando una grande capacità di trovare melodie coinvolgenti e raffinati arrangiamenti classicheggianti, Peter Gabriel e compagni hanno sfiorato varie volte il formato suite in brani lunghi come “The Musical Box”, “Firth Of Fifth” o “The Battle Of Epping Forest”, ma loro vera suite resta “Supper’s Ready” (ventitré minuti in sette movimenti). In questo grande calderone fiabesco spicca l’alternanza di momenti classici con riferimenti letterari tipici della borghesia prog e sketch scherzosi che culminano in un tragico finale epico.
“Tubular Bells Side Two” – Mike Oldfield (maggio 1973) durata 23.17
Mike Oldfield ha fondato tutta la sua lunga carriera sul formato suite. Dall’iconico esordio “Tubular Bells” (1973) in poi, il compositore inglese non ha abbandonato i lunghi brani di una ventina di minuti che lo hanno consacrato come giovane musicista prodigio. Le due suite di “Tubular Bells” sono diventate una piccola leggenda della storia del rock ingigantita dalla amatorialità delle registrazioni e dalla giovane età del musicista. Se la prima traccia è la suite più celebre di Oldfield, piena di intuizioni e cambi di ritmo, è forse nella seconda, più bucolica e folk, che si gettano le basi per tutta la sua futura carriera. I lunghi arpeggi di chitarra vagano abbozzando melodie sfuggenti, creando paesaggi new age provenienti da mondi molto diversi dal classico progressive e dal sound di Canterbury, città che per anni è stata la seconda casa di Oldfield. In questo paesaggio incantato il finale infantile mostra la personalità ancora in formazione del musicista britannico, ma non nasconde le sue straordinarie potenzialità.
“Karn Evil 9” – Emerson, Lake & Palmer (novembre 1973) durata 29.36
Il trio più integralista del prog, per certi versi il più coerente e per altri il più dissacrante, due anni dopo “Tarkus” ritenta la strada della suite e – vista la consueta eccentrictà della band – non poteva che spingersi ancora più in là. “Karn Evil 9” risulta di certo più pretenziosa di “Tarkus”, ma almeno nella prima parte di tredici minuti (praticamente un rock’n’roll con tastiere indemoniate da lasciare senza fiato) riesce a mantenere ottimi livelli, unendo la tecnica estrema a buone dosi di ironia. I restanti sedici minuti sono un sfida di bravura da parte di Keith Emerson che cerca di superarsi minuto dopo minuto: una gioia per le orecchie degli amanti della band e del prog più funambolico, meno esaltante per altri tipi di ascoltatori. Ad ogni modo “Karn Evil 9” è un inno emersoniano al prog più puro e coerente sino all’eccesso, come solo Keith poteva permettersi di fare.
“Lady Fantasy” – Camel (marzo 1974) durata 12.43
Si parte subito con un’intro che ricorda Terry Riley per poi giungere a una delle più godibili suite del progressive melodico. Londinesi, ma profondamente canterburiani nei suoni, i Camel hanno trovato una sintesi invidiabile tra le sonorità dei Caravan e le bizzarrie canterburiane, che consente un ascolto più semplice e immediato. “Lady Fantasy”, suite di dodici minuti, è il loro brano perfetto, con lunghi assoli di tastiere che ricordano quelle dei Doors a cui si aggiungono rapide accelerazioni e un iperbolico finale. Magia pura per orecchie degli appassionati del prog-rock della prima ora.
“Starless” – King Crimson (ottobre 1974) durata 12.24
“Red” è l’album che chiude la seconda vita dei King Crimson. Dopo averlo appena pubblicato, la band di Fripp si scioglie, conclusa la sua trilogia oscura iniziata nel 1973 con “Larks’ Tongues In Aspic”. Un disco fondamentale, che ad alcuni sembra chiudere anche la fase storica del progressive britannico. “Starless” è l’atto finale di un disco straordinario: una delle opere più ambiziose di Fripp, da alcuni punti di vista una summa assoluta non solo della musica dei Re Cremisi ma persino di un’intera stagione musicale (cioè di tutto quello che il rock era stato capace di creare dalle sue origini sino a quel momento) racchiusa in dodici minuti indimenticabili di testi poetici, synth, chitarre distorte, batteria funambolica e soprattutto un suono di basso potente come non mai.
“The Gates Of Delirium” – Yes (novembre 1974) durata 21.49
Dopo il doppio concept “Tales From Topographic Oceans” con ben quattro suite, gli Yes tornano a un formato di album più tradizionale. Una suite di circa venti minuti nel primo lato e due brani di circa 9-10 minuti nel secondo (come “Close To The Edge”). “The Gates Of Delirium” è un altro capolavoro prog, forse l’ultimo della loro carriera. Meno freddo e distaccato delle algide suite del disco precedente, “Relayer” si presenta come un clone di “Close To The Edge” e – pur non toccando quel livello di perfezione – raggiunge un equilibrio tra estasi e complessità compositiva ottenibile solo in un periodo magico di ispirazione, mai più ripetuto.
“Song Of Scheherazade” – Renaissance (luglio 1975) durata 24.40
Una delle pagine meno celebrate del prog-rock è stata quella del suo versante più barocco e magniloquente incarnato dai Renaissance, ai quali serviranno ben cinque album per raggiungere in pieno le proprie ambizioni. Nel 1975 pubblicano la loro suite più elaborata (addirittura ventiquattro minuti divisi in nove movimenti), pomposa all’inverosimile, ma destinata a restare della memoria e nella storia come tassello fondamentale di quello che la musica giovanile era riuscita a raggiungere in pochi anni. Ispirata all’opera del compositore russo Nikolaj Rimskij-Korsakov, la suite dei Renaissance è pura musica classica sinfonica dall’inizio alla fine, una pagina senza compromessi figlia di una visione minoritaria e integralista del prog-rock.
“Shine On You Crazy Diamond” – Pink Floyd (settembre 1975) durata 25.53
Le suite psichedeliche-progressive sono ormai la norma nella discografia dei Pink Floyd. Dopo il lato B di “The Dark Side Of The Moon” – considerabile una suite a tutti effetti – la band britannica si trova in difficoltà, quasi terrorizzata dal successo mondiale. Ancora una volta il contributo di Wright è fondamentale. “Shine On You Crazy Diamond”, ventisei minuti divisi in due parti e in nove movimenti, suona come una versione britannica della musica cosmica tedesca, un’alternativa pop ai lunghi trip interstellari di Schulze o dei Tangerine Dream, trasformati in un viaggio nella psicologia, magistralmente descritto dai testi visionari di Roger Waters.
“The Necromancer” – Rush (settembre 1975) durata 12.28
I canadesi Rush sono riusciti a coniugare come nessun altro le sonorità hard rock dei Led Zeppelin con un’attitudine progressive, giungendo album dopo album alla fondazione dell’hard-prog. Dopo un primo album tipicamente zeppeliniano, provano ad alzare l’asticella già con “Fly By Night” (1975) che contiene la loro prima suite breve “By-Tor And The Snow Dog” (otto minuti in quattro movimenti). Manca ormai poco e sempre nello stesso anno pubblicano “Caress Of Steel”, momento di assoluta maturità della band, che osa ancora di più, addirittura con due suite, “The Necromancer” e “The Fountain Of Lamneth”. Tra le due è la più breve a convincere di più, sintesi mirabile dell’hard rock in fase di piena maturità con momenti di rudezza zeppeliniana ed estasi vicine agli Yes, senza considerare uno degli assoli di basso più avvincenti di tutti i tempi.
“Ommadawn Part One” – Mike Oldfield (novembre 1975) durata 19.05
Dopo il successo mondiale di “Tubular Bells” e del film “L’esorcista”, Mike Oldfield non abbandona la suite, anzi insiste sempre più su questa strada. Dopo “Hergest Ridge” (1974) che contiene ancora una suite per lato, il compositore britannico raggiunge una sintesi perfetta delle sue intuizioni con la celebre prima composizione di “Ommadawn”. Incentrata su una melodia di chitarra e banjo, la composizione prosegue in un crescendo sempre più vertiginoso di percussioni, arpa, sonorità celtiche e un finale con chitarra elettrica e canto femminile che è uno dei momenti più coinvolgenti della sua carriera.
“2112” – Rush (marzo 1976) durata 20.33
L’album della consacrazione mondiale dei Rush vede la luce nel 1976, dopo tre Lp ottimi ma passati relativamente in sordina. “2112” è l’apoteosi della suite hard-prog, basata una storia potente e coinvolgente, un’idea forte costruita passo dopo passo senza sbagliare un colpo. Una suite distopica in venti minuti, divisi in sette movimenti, che tracciano il percorso in un mondo futuro dove la musica è vietata da una dittatura religiosa che soffoca ogni forma di arte. Mai l’hard rock e il progressive hanno trovato un punto d’unione tanto alto e possente. Un inno alla libertà giovanile e alla libertà degli artisti che oggi suona come una premonizione.
“Dogs” – Pink Floyd (gennaio 1977) durata 17.05
Si chiudono dieci anni di suite con i Pink Floyd nella loro versione più watersiana, con l’album che sta vivendo una seconda giovinezza grazie al recente remix e alle ultime esibizioni live del compositore inglese. Non tutti forse interpretano “Dogs” come suite, ma i suoi diciassette minuti rappresentano uno dei vertici assoluti della terza (o forse quarta) vita della band e la sua struttura divisa in varie parti è assolutamente inquadrabile come suite. Il sound dei Pink Floyd del 1977 è ormai cambiato e aggiornato ai tempi, ma è ancora capace di mantenere la sua consueta potenza, forse persino di incrementarla. E’ il disco più politico della loro discografia, anzi è il momento in cui il prog – che tante cose era stato – supera il suo ultimo tabù, appunto la politica, che in generale non aveva mai interessato le band di quel movimento. “Dogs” rappresenta un culmine della capacità di Waters di comunicare pensieri complessi all’interno di un brano e segna un processo evolutivo fondamentale della musica rock, che passa da comunitaria e collettiva (la musica psichedelica e il primo prog) a individualista e solitaria, mezzo di autoanalisi delle proprie paranoie più efficace di qualsiasi psicoterapia. In pratica, un’opera d’arte totale. Dall’inizio acustico al sinfonismo di Gilmour, dall’intermezzo psichedelico sino a uno dei finali più iconici della storia del rock, tutto in “Dogs” è destinato a restare nella storia e a chiudere in grandezza un decennio stupefacente. Se a questo aggiungiamo testi tra i più importanti di Waters (la figura del cane che diventa servo dei potenti) e il fatto che dentro vi sia la sintesi di una visione, di una filosofia del mondo, allora possiamo dire di trovarci di fronte a uno dei momenti più alti della discografia rock di sempre.
Antonio Santini for SANREMO.FM