Durante la prima metà degli anni Ottanta, alcune band statunitensi come i Cryptic Slaughter, i Septic Death e i Siege presero a suonare un hardcore sempre più veloce e rabbioso, praticamente gettando i semi di quello che sarebbe stato poi chiamato grindcore. A differenza, però, del genere che gli inglesi Napalm Death avrebbero codificato nel 1987 con l’epocale “Scum”, le band citate poc’anzi facevano leva su di un sound in cui il rifferama thrash era ancora riconoscibile, per cui venne coniato il termine “thrashcore”, un sottogenere sotto la cui cupola è possibile far rientrare anche i texani Angkor Wat, per quanto il loro fosse un thrashcore più evoluto, perché affidato a partiture tortuose e ricche di spigoli.
Gli Angkor Wat provenivano da Corpus Christi, cittadina texana situata di fronte al golfo del Messico e a 130 miglia a sud-est di San Antonio, la capitale del “Lone Star State”. Fino al 1986, a Corpus Christi non c’era una vera e propria scena punk-hardcore: quei pochi appassionati che ascoltavano i Black Flag, i Dead Kennedys, i D.R.I. o i Corrosion Of Conformity (giusto per citare qualche nome che all’epoca andava per la maggiore in quelle zone) erano più che altro dei cani sciolti, che raramente facevano comunella. In città, se volevi suonare in qualche locale, dovevi presentarti o con una band che faceva cover rock, oppure con roba originale ma che fosse tassativamente blues. Per fortuna, durante l’estate del 1986, un giornalista in erba, Tim Stegall, fu contattato da Erik Tunison, l’allora batterista dei Die Kreuzen, una formazione di Milwaukee, Wisconsin, che aveva da poco pubblicato, su Touch and Go, il suo secondo disco, “October File”, in bilico tra proto-grunge e quello che già allora qualcuno definiva post-hardcore. Tunison cercava supporto per organizzare un concerto da quelle parti. In un primo momento, Stegall tentennò, perché a Corpus Christi di locali disposti ad accettare una formazione come quella era praticamente impossibile trovarne. Tuttavia, non si rassegnò. Così, dopo aver chiamato a raccolta una decina di altri appassionati di quel tipo di sonorità, riuscì a racimolare il denaro necessario per prendere in affitto il Galvan Ballroom. Amplificatori, luci e tutto il resto se lo fece prestare, invece, dai Boyz, una formazione del posto che bazzicava territori new-wave. Il concerto dei Die Kreuzen fu importante perché consentì agli appassionati e ai musicisti del posto di incontrarsi e dare vita a una vera e propria scena punk, per quanto con questo termine si indicassero, ormai, non soltanto formazioni che si ispiravano ai furori anarchici di fine anni Settanta, ma anche quelle che se ne discostavano in modo più o meno evidente, imbastardendo il proprio sound con soluzioni più o meno sperimentali o con la martellante energia del thrash-metal.
Fu proprio in quest’ultima direzione che vollero spingersi gli Angkor Wat, formazione nata dall’incontro, avvenuto alla fine del 1985 a un concerto dei Motörhead, tra il cantante David Brinkman e i chitarristi Adam “Bunnie” Grossman (originario di Austin) e Danny Lohner. All’epoca, Lohner aveva da poco compiuto 15 anni, eppure sapeva già il fatto suo, come dimostrò fin dalle prime prove che si tennero proprio nella sua camera da letto, dove i ragazzi ci diedero dentro suonando a ripetizione soprattutto i brani degli amati Cro-Mags, tra cui “We Gotta Know”, che il quintetto newyorkese aveva piazzato in apertura dell’esordio “The Age Of Quarrell”, uno dei capisaldi dell’hardcore East Coast.
Una delle prime cose che Brinkman, Grossman e Lohner fecero fu quella di scegliere, come moniker per la propria band, il nome del maestoso tempio khmer che si trova in Cambogia (l’Angkor Wat, per l’appunto). La scelta non fu casuale: la complessità architettonica del suddetto tempio doveva rispecchiare sia quella musicale (un mix di thrash, hardcore e progressive), che quella ideologica della band, intenzionata a trattare, attraverso i proprio brani, problematiche legate alla politica, alla religione e alla società in genere.
Assoldati il batterista Chris Chapa e il bassista Mike Treviño, gli Angkor Wat debuttarono dal vivo il 29 agosto del 1986, nell’ambito dello showcase “The End of Summer Slam Session”, cui parteciparono anche i thrasher Devastation e Rotting Corpse, questi ultimi provenienti da Dallas. Quella sera, la band fece un sacco di casino, suonando molte cover, tra cui “The Possibilities of Life’s Destruction” dei Discharge, “Right Brigade” dei Bad Brains e “Paranoid” dei Black Sabbath.
Nell’ottobre successivo, Grossman (che si era subito imposto come uno dei personaggi più carismatici della scena musicale di Corpus Christi) organizzò un altro evento al Southside club, invitando a suonare anche i concittadini Mercenary, gli MDC (furiosi hardcorers politicizzati provenienti da Austin) e i losangelini Rigormortis.
Uscito di scena Chapa (sostituito dal quindicenne Dave “Bambi” Nuss, adocchiato mentre suonava con una band formata con alcuni amici dell’oratorio!), gli Angkor Wat misero sul lato di una cassetta il demo Demonstration Under Duress, su cui vibravano le influenze di quelli che, all’epoca, erano i loro ascolti preferiti: il thrash-grind di “The Return Of Martha Splatterhead” degli Accüsed, “Beyond The Realms of Madness” dei Sacrilege e “Where Legend Began” degli English Dogs.
Nonostante gli sforzi profusi in studio, la band non si disse soddisfatta del risultato, non essendo riuscita a catturare la potenza di fuoco che era invece capace di generare dal vivo. Ma c’era di più, come ricorda Grossman: “Durante le registrazioni, regolammo il suono del basso in malo modo, e così in quel demo non si sente granché…”. In ogni caso, ‘Demonstration Under Duress‘ cominciò a circolare nel circuito locale. “Lo inviammo, insieme ad una nota biografica e ad alcune foto, alla Metal Blade Records e ad altre etichette, tra cui la New Renaissance”, ricorda Nuss. Alla fine, grazie al passaparola dei fan (che avevano preso a scambiarsi la cassetta secondo la pratica, allora molto in voga soprattutto tra i metallari, del tape-trading) e all’eco di concerti sempre più esaltanti, la Metal Blade Records si fece avanti con un contratto di tre album da sottoscrivere con la sua sussidiaria Death Records.“Eravamo entusiasti del fatto che una band proveniente da una piccola città come Corpus Christi potesse avere una così grande opportunità”, conclude Nuss.
Prima, però, che la band pubblicasse il suo primo Lp, tre dei suoi brani (“Emotional Blackmail”, “Died Young” e “The Box – Burners Of The Cross”) finirono, rispettivamente, sulle compilation “Complete Death II” (Death Records, 1987), “Satan’s Revenge II” (New Renaissance Records, 1988) e “Thrash Metal Attack III” (New Reinassance, 1988). Se i primi due saranno ripescati sul loro esordio ufficiale, il terzo, “The Box – Burners Of The Cross” (che lasciava sfilare una cavalcata punk e un thrashcore sfaccettato), non troverà altri sbocchi sul mercato discografico.
Sostituito Mike Treviño con Mike Titsworth, gli Angkor Wat si trasferirono negli Austin Recording Studios dove, tra il settembre e l’ottobre del 1988, registrarono, “su un nastro analogico da 2 pollici”, When Obscenity Becomes The Norm… Awake! (11 tracce; 38:52), che avrebbe visto la luce l’11 aprile del 1989. La copertina ritrae il viso di una donna cambogiana, stravolta per l’uccisione del piccolo figlio per mano dei guerriglieri del sanguinario dittatore Pol Pot. “Prendemmo l’immagine dalla Tv: ne alterammo i colori, mettemmo in pausa e Adam premette il pulsante della macchina fotografica” (Brinkman). Si trattava di un’immagine penetrante, che ben rispecchiava le tematiche affrontate dallo stesso Brinkman nei suoi testi: “Quando scrivevo, mi concentravo su cose che mi facevano incazzare. I nostri brani toccavano argomenti che andavano dall’abuso sui minori alla crudeltà nei confronti degli animali, dalla religione alla libertà di parola, passando per tematiche più generali come l’odio e la violenza. In alcuni casi, erano più introspettivi e riguardavano problematiche quali l’autocoscienza”. All’epoca, così invece si esprimeva Grossman: “Sentiamo che ci sono un sacco di cose che sono accettate come se rientrassero nella norma e che, invece, sono oscene. Cose come l’abuso sui minori, la fame e i senzatetto sono tutte considerate normali e invece non dovrebbero esserlo. Sono questioni che devono essere affrontate. Quando tutto ciò diventa la norma, allora è giunto il momento che la società si svegli!”.
Da un punto di vista musicale, When Obscenity Becomes The Norm… Awake! fece segnare un significativo passo in avanti rispetto a quanto proposto dalla band nelle sue prime incisioni. Ricorda Nuss: “Eravamo cambiati molto durante gli ultimi mesi, perché ci esercitavamo continuamente, scrivendo e provando sempre nuove canzoni durante i concerti. All’inizio, le nostre canzoni erano molto brevi ed erano divise in un paio di parti. Poco alla volta, però, diventarono più progressive e lunghe, nonché articolate in molte più parti. Lavorammo davvero sodo e la musica finì per dimostrarlo in maniera inequivocabile. ‘When Obscenity Becomes The Norm… Awake!’ fu la fotografia di una band che, mentre possedeva ancora l’energia selvaggia dei suoi concerti, era già entrata nella sua fase più matura e articolata.”
Per registrare e missare il disco, la band lavorò complessivamente dieci giorni tra le mura degli Austin Recordings Studios, assistita dal co-produttore Kerry Crafton che era stato consigliato loro dagli amici Scratch Acid, i quali lo avevano reclutato per registrare i loro due Ep, l’omonimo del 1984 e “Berserker” del 1987.
Introdotto dall’atmosfera drammatica, quasi thrilling di “Innocence ‘89” (tonfi, elettronica ventosa in crescendo, il pianto inconsolabile di un bambino e geometrie tech-thrash), l’album s’infiamma subito con “Something To Cry About”, che trasforma una probabile influenza di “Battery” dei Metallica in una scazzottata jazz-grind, in cui la frenesia dei riff di chitarra collide con il crudo tono vocale di Brinkman, impegnato a vomitare tutta la sua rabbia, dato che al dolore e al male non ci sono risposte.
Più cadenzata, “Seat Of Power” fa spazio ad allunghi vertiginosi, lasciandosi dietro messaggi cupi e desolati circa la decadenza sociale, indotta dall’odio, dall’avidità e dalla sfiducia.
Satisfaction for social decay
That’s the trade the trad we’ve made
The Seat of Power is carved of hate
Born of hate, greed & mistrust
Child of my semen & Mother Earth’s dust
Accept this Kingdom Hell I leave to you
Either way your future’s decided for you
The Seat of Power
It’s a Legacy
Se, da un lato, “Prolonged Agony/Ricky” evidenza come il retaggio hardcore della band li abbia condotti alle soglie del grindcore, un genere che nella sua versione “gore” amava destreggiarsi tra crudissime immagini di morte e disfacimento – come conferma, in questo caso, lo stesso testo di Brinkman, incentrato sull’agonia di un ragazzo adoratore di Satana il cui corpo, ormai senza gambe, è completamente andato in cancrena, per cui l’essere “appeso nella sua cella” è ormai tutto ciò che può offrire in sacrificio al Signore delle Tenebre) -, “The Search” porta in dote, invece, la versione tech-thrash degli Angkor Wat, naturalmente ricca di spigolosa frenesia e carica di pathos, soprattutto quando, durante l’ultimo minuto e mezzo, il brano assume una dimensione epica.
Da un punto di vista lirico, “The Search” è in pratica il manifesto spirituale della band texana: se il mondo che ci circonda è quello che è, impregnato di odio e di dolore, e se si è stufi del “lavaggio del cervello della predicazione”, allora l’unica strada è quella di avviare una ricerca interiore, perché “le risposte che cercate sono dentro di voi!”, come annuncia Brinkman proprio all’inizio del brano, più avanti invitandoci a “conoscere le domande / prima di trovare le risposte”, risposte che renderanno esplicita una verità basilare: “Non posso aiutare il mondo se non divento prima me stesso”.
The answers you seek are inside yourself!
Searching for a little sanity
Not too impressed with this world”s humanity
Looking within for my own reality
Can”t help the world with out being whole myself
Got to know the questions
Before you can find the answers
Sick of the preaching brainwashing disease
Not gonna let the pain bring me to my knees
The answers for usare within you & me
The answers you seek
Look where you”d expect the least
Inside youself
Ask yourself the questions you”re afraid to hear
It”s not as bad as you fear
Know self truth
Sono insegnamenti la cui eco si farà sentire anche nella successiva “Awake”, lanciata da un riff di chitarra che è come una chiamata alle armi, e ancora ispida, feroce nel suo sanguinare malessere, ma orgogliosa di combattere, perché “quando l’oscenità diventa la norma… Svegliatevi!”.
All’inizio del lato B, lo spavaldo riff che spalanca le porte alla passionalità torturata di “Under Lock And Key” risuona nell’aria come un richiamo ad una lotta senza quartiere, alimentata dalla consapevolezza che “le menti sono tenute sotto chiave”, “isolate”, oltre che offuscate da “ignoranza, apatia e odio”. Quello che l’umanità chiama “progresso” è, in realtà, un sentiero verso l’alienazione più assoluta.
Il prodigioso assalto thrashcore di “Emotional Blackmail” si scaglia con virulenza contro i televangelisti, abituati a dissanguare, come quel Jerry Falwell esplicitamente citato da Brinkman, orde di creduloni con i loro “ricatti emotivi”. Bisogna “aprire gli occhi”, perché “se c’è un Dio, come ci dicono,/ non credo possa essere comprato o venduto”. Falwell era stato responsabile, qualche anno prima, di un attacco diretto nei confronti degli Angkor Wat, accusati per colpa del brano “Burners Of The Cross”, di essere dei satanisti. Peccato, però, che in quel testo non vi fosse alcuna traccia di omaggi al Signore del Male, ma solo una feroce condanna del Klu Klux Klan…
Incentrata sulla figura di Hitler (“un uomo salito al potere con il male negli occhi”) e sui tragici fatti del ghetto di Varsavia (tra il 22 luglio e il 12 settembre 1942, i nazisti deportarono o uccisero quasi trecentomila ebrei), “Warsaw” accerchia una digressione dai connotati cinematici con altre due scheggie thrashcore.
Al tema del suicidio giovanile è, invece, dedicata “Died Young”, in cui l’ennesimo assalto in bilico tra hardcore e thrash si tramuta in ossessività matematica proprio quando il testo tocca il suo centro emotivo, invitando a trovare nel proprio cuore una risposta al desiderio di farla finita.
It’s so sad, it happens all the time
So many people walk that line
A suicide every day of the week
Another young mind put to sleep
The answers must be out there somewhere
Take the time and show we care
Where to begin, where to start
The place to start is in our hearts
Il momento più drammatico, nonché il brano più articolato e lungo del disco (poco più di sette minuti), si trova, però, proprio in fondo e si chiama “Circus of Horrors/Civilized”, in cui gli Angkor Wat sintetizzano un po’ tutte le proprie propaggini stilistiche, muovendosi con grande fluidità tra thrash tecnico, hardcore e progressive e toccando il vertice della loro carica passionale in un susseguirsi di immagini in cui si contrappone la presunta civiltà dell’uomo alle esecrabili gesta dei cacciatori di pelli. Tuttavia, nel testo emerge chiaramente che gli “animali indifesi” sono il simbolo di tutti gli innocenti della terra, uccisi da “Grandi cacciatori bianchi, con le pistole ai fianchi/ Bastardi felici del grilletto (…)”, votati alla “distruzione della vita” solo “per soddisfare il proprio orgoglio”.
Realizzato il loro capolavoro, gli Angkor Wat continuarono a suonare in giro, ma qualcosa nell’equilibrio della band stava iniziando a sfaldarsi, non solo per questioni legate allo studio, ma anche perché non tutti i membri si dissero entusiasti della volontà di Grossman e Lohner di tentare la strada di un sound influenzato dall’allora nascente industrial-metal, un ibrido già prefigurato da alcune formazioni di metà Ottanta (si pensi, ad esempio, ai Celtic Frost di “One In Their Pride”, traccia numero sette di “Into the Pandemonium”, 1987) e che alla fine di quello stesso decennio poteva già vantare un paio di lavori di assoluto rilievo, quali l’Ep omonimo dei Godflesh e “The Land of Rape and Honey” dei Ministry, entrambi usciti nel 1988. Ricorda Nuss: “Registrammo ‘Corpus Christi’ in circostanze molto difficili. Io avevo già lasciato il gruppo per andare al college, così come il cantante Brinkman e il bassista Titsworth. Grossman e Lohner, invece, continuarono a scrivere canzoni e mi chiesero di unirmi a loro per la registrazione dell’album. Dunque, non ebbi che solo pochi giorni di pausa dalla scuola per imparare queste canzoni complicate, per poi iniziare a registrare durante il periodo natalizio. All’epoca, gli Angkor Wat si stavano muovendo in una direzione più industrial, utilizzando la drum machine, cosa che non mi interessava affatto. Tuttavia, le canzoni metal di quel secondo album sono davvero forti e reggono nel tempo. Poiché la band non aveva un cantante, Grossman decise che si sarebbe occupato lui del microfono, ma all’epoca non aveva molta esperienza. Per quanto mi riguarda, il successore di ‘When Obscenity Becomes The Norm… Awake!‘ è un riscaldamento che prepara l’avventura degli Skrew”.
Anche se per certi versi più compatto e rifinito del suo predecessore, Corpus Christi (11 tracce; 48:37) – questo il titolo del secondo album degli Angkor Wat – non riuscì ad eguagliarne la carica dinamitarda e la schizofrenica creatività. Tuttavia, da un punto di vista lirico è sicuramente un disco più raffinato, le cui tematiche essenzialmente esistenzialiste sono affrontate con un taglio poetico non di rado di grande interesse (Grossman scrisse ben nove degli undici testi del disco).
Registrato nel dicembre del 1989 negli studi Firestation di San Marcos, Texas, e prodotto ancora con il supporto di Kerry Crafton, Corpus Christi si apre in perfetto stile Ministry con le scansioni meccaniche di “Indestructible: Innocence 1990”, un brano in cui le atmosfere cupe del loro primo disco sono affiancati a inquietanti richieste d’affetto.
Hate and war and blind despair
Tell me you love me
Tears and screams and unholy fears
Tell me you love me
I want you to look at me
Tell me you love me
Tell me you love me
We’re not indestructible
Con il brano che dà il titolo al disco, invece, si torna in territori crossover e anche con grande impatto, soprattutto se si tiene conto che il testo sembra voler evocare gli scenari non proprio idilliaci della loro terra d’origine: “Born into a hazy crossfire/ The end result of innocence and ignorance/ Flesh and blood cure for emotional strife/ Vision obscured by a soft skin curtain/ Torn and ripped youth in a glass case”.
La rocciosa “Turn Of The Screw” veicola la storia di un amore ormai finito ma che si stenta a dimenticare (“Hey I saw your mouth on, another’s face/ It told me sweet secrets and reminded me of the taste/ Of your skin upon my lips“), infiorettandola con una serie di immagini poeticamente cruenti (“My face and skull burst and bloomed/ We became the nighttime sky/ Flooded with millions of years of starlight”).
Cadenzata e groovey, nonché spigolosa come ai bei vecchi tempi, “Golden” evoca invece la possibilità di riempire il vuoto dell’esistenza grazie al “freddo e impetuoso vento di Dio”.
Emptiness became my house
Black cracked sight my line to life
I dreamt of angels and lightning flash
And cool, cool rain to wash my mind
Innocence seemed so far from home
I’d wish to rest in a bed of flowers
But hot black sands are where I’d lay
Bathed in the black of night
Eyes awash in a sea of starlight
The cold quick winds of God
Blow through my soul
Tra stop e go nutriti dalla solita, chirurgica furia, e impatto thrash, “Anne Marie” (il cui testo fu scritto da Nuss) si interroga, invece, sulla possibilità di costruirsi un futuro senza riuscire a fare i conti col proprio passato (“But will I ever find the future?/ If I can’t forget about the past?”), mentre la più cadenzata “Birdsong (Earth)” porta in dote un messaggio ecologista, richiamando l’attenzione sulla libertà innocente degli uccelli, il cui canto l’uomo non riesce ad ascoltare perché accecato da “complicazioni egoistiche”: “Deafened I couldn’t hear that birdsong/ Singing truth simple and strong/ My eyes blinded/ By selfish complications”.
Aperta dal cristallino suono di una chitarra acustica e chiusa dal suono solitario di un pianoforte (suonato da Don Seay), l’intricata “Ordinary Madness” va in gloria sulle ali di un evocativo “clean solo”, che sembra voler ribadire con più forza quanto messo su carta da Grossman: per proteggere la mente dalla “follia ordinaria”, non bisogna fare ombra alla nostra anima (quella che lo stesso Grossman definisce, con grande sensibilità poetica, “una moltitudine affamata”), privandola di quel sole (“l’occhio di Dio che osserva”) che è l’unico capace di “donare la pace”.
When we cast no shadow
And the heat’s baked our mind
Into lonely submission
Then is when we realize
Something as thin as the web of a spider
Holds us back from
Ordinary madness
Se in “Sinking” (ennesimo esempio di crossover-thrash scolpito nel marmo) a dominare è quel “silenzio della solitudine” che “ruggisce nelle mie orecchie”, in “Schizophrenic” si torna, come ai tempi di When Obscenity Becomes The Norm… Awake!, a trattare tematiche di natura sociale, quali l’impatto che la diffusione della Tv ha avuto sulle menti degli uomini, ormai trasformati in creature capaci soltanto di ricevere messaggi e, per questo motivo, del tutto passivi: “We’ve become message receiver mutated creature”. Nel suo testo, Grossman cita anche il nome del sociologo e filosofo canadese Marshall McLuhan, autore nel 1964 del saggio “Understanding Media: The Extensions of Man” (tradotto da noi col titolo “Gli strumenti del comunicare”), che il cantante-chitarrista mostra di aver letto con attenzione.
Dopo la rocciosa cover di “Barracuda”, singolo di successo pubblicato dagli Heart nel 1977, l’album si chiude con “Sour Born (Driving Wheel)”, un brano sorprendente per gli standard della band, grazie alla sua commistione tra echi di Killing Joke, chitarre psichedeliche e briciole di noise-rock sparse in giro con gelida indifferenza. A complicare le cose, ci pensa il testo scritto da Nuss, ricco di immagini stratificate e di non facile interpretazione, anche se il tutto sembra doversi leggere alla luce dei primi due versi, in cui si dice che “tra il bianco e il nero/ si trova un mondo di grigi”.
Nonostante sia stato spesso indicato come un disco di industrial-metal (addirittura, stando a quanto si può leggere sulla pagina Facebook ufficiale della band, sembra che la suddetta definizione sia stata usata per la prima volta proprio nell’ambito di una sua recensione), Corpus Christi è essenzialmente in bilico tra thrashcore e technical-thrash.
Corpus Christi fu anche l’ultimo lavoro pubblicato dalla formazione storica degli Angkor Wat, sulle cui ceneri Grossman e Lohner fondarono, dopo essersi trasferiti ad Austin, gli Skrew, con cui negli anni Novanta contribuirono a tenere bene in vista la bandiera dell’industrial-metal.
Dopo aver dichiarato di essere un grande fan dei Nine Inch Nails, nel 1993 Danny Lohner riuscirà a realizzare il suo sogno di suonare con la band di Trent Reznor, addirittura partendo per il tour di “The Downward Spiral”, disco su cui lo stesso Lohner aveva suonato la chitarra nel brano “Big Man With a Gun”. Negli anni successivi, suonerà, tra gli altri, con Marilyn Manson e Rob Zombie, continuando anche a collaborare con l’ormai amico Reznor. Spesso utilizzando anche il nomignolo di Renholdër, si farà vedere, invece, dalle parti degli A Perfect Circle e di diverse altre band.
Nel giugno del 2018, gli Angkor Wat tornarono all’attenzione degli appassionati grazie a un concerto tenuto alla House of Rock di Corpus Christi, cui fece seguito l’inaugurazione di una stella a loro dedicata sulla South Texas Music Walk of Fame. Subito dopo, i vecchi amici partirono anche per un piccolo tour locale, come band di supporto degli Accüsed A.D..
Tre anni dopo, Mike Treviño, W.M. Titsworth e Dave Brinkman tornarono in pista col nome di The Real Angkor Wat, realizzando l’Ep Worst Enemy (5 tracce; 17:09), ancora assistiti, in fase di produzione, dall’amico di una vita Kerry Crafton.
Prima di esplodere in granitico industrial-thrash, l’iniziale “Pressure Valve” si lascia ammaliare da un cupo cerimoniale per voci ipnotiche e rintocchi di pianoforte. “Walls” fa leva su un riffing incisivo e sulle urla sepolte di Brinkman. “Barrage” è tosta, così come la title-track e la conclusiva “Knock Out”, ma nel loro avanzare “meccanico” questi brani mostrano che il sacro fuoco degli esordi è stato ammansito dal vento della nostalgia (canaglia).
Antonio Santini for SANREMO.FM