C’è qualcosa di singolare in Figli delle stelle. È una di quelle canzoni che tutti conoscono, che torna ciclicamente tra noi come un satellite in orbita, che attraversa generazioni senza mai sembrare fuori posto. Eppure, proprio perché è diventata un simbolo di leggerezza, la sua vera essenza è rimasta nascosta sotto strati di revival.
In verità è probabilmente il tormentone più filosofico della storia del pop italiano. Può essere tanto un potente inno alla connessione con l’universo tutto, ma anche una delicatissima accettazione del rischio dell’isolamento; un peana intonato all’iperattivismo danzereccio e un monito al ghosting, ahimè, ineluttabile, che la vita riserva non solo alle relazioni sentimentali, ma all’esistenza stessa di tutti noi.
Per questo Figli delle stelle ha lo stesso significato che la stia canticchiando un giovane viveur in camicia di lino al circolo della vela o Franco Battiato mentre scrive Bandiera bianca. Quando Alan Sorrenti la scrisse, nel 1977, l’Italia era un Paese spaccato tra ideali e disillusioni, tra sogni di libertà e tensioni politiche, tra voglia di ballare e paura del futuro. E in mezzo a tutto questo, arriva una canzone che parla di amore semplicissimo e di qualcosa di più grande del semplice amore. Figli delle stelle è un manifesto esistenziale: siamo tutti vagabondi nello spazio, “senza storia, senza età”, destinati a incrociarci per un istante prima di continuare la nostra traiettoria.
Magari il segreto di Figli delle stelle è proprio questo: non è solo una canzone, è un quesito a risposta aperta. Siamo davvero liberi o siamo solo particelle che fluttuano nel tempo a casaccio? È un invito a vivere il momento o la consapevolezza che tutto è destinato a sfuggire?
Alan Sorrenti l’aveva composta riferendosi al cosmo di allora, ma l’universo di oggi è digitale. Una serie di spot per TIM, in questi giorni, ha voluto ripensarla proprio in questa chiave. Nel 2025 il brano continua a trasformarsi e a risuonare in un mondo che nel frattempo ha cambiato volto. In un’epoca dominata dalle tecnologie innovative e dall’intelligenza artificiale, siamo ancora figli delle stelle o siamo solo rampolli dei dati e della rete? O le due cose non si escludono a vicenda?
Di questo, e di molto altro, abbiamo discusso con Alan Sorrenti: il nonno patito della disco che tutti avremmo voluto avere e che non sapevamo di avere tutti avuto in lui.
Siamo ancora Figli delle stelle grazie alla nuova campagna di comunicazione di TIM. Sono quasi cinquant’anni che questo pezzo non invecchia, mentre invecchiamo noi, tranne nei momenti fortunati in cui ci è dato di riascoltarlo.
La bella intuizione è stata quella di scegliere un brano che si è trasformato, con il passare del tempo, proprio come la tecnologia. Nelle immagini si ripercorrono le trasformazioni tecnologiche della comunicazione negli ultimi cinquant’anni, ricordando che TIM, come Figli delle stelle, è stata sempre vicino alle persone. Il pezzo è così attuale che non fa strano che la possano intonare i robot dall’intelligenza artificiale più evoluta.
Ti senti ancora un astronauta in orbita, anche se per conto di nuove generazioni?
Ma certo. Non sarebbe possibile diversamente. Quando hai percorso una certa strada per tanto tempo risulta impossibile cambiare rotta. Ora siamo in un mondo digitale però fondamentalmente non cambia il fatto che tu comunichi con le persone attraverso la musica. Certo, è una comunicazione diversa, più veloce. Ma Figli delle stelle è riuscita ad adeguarsi al ritmo dei tempi. È rimasta sempre presente. Mi ha stupito che la rivista Focus, di taglio scientifico, abbia pubblicato in un articolo in cui, trattando il tema delle stelle, a un certo punto si scrive: “Come diceva Alan Sorrenti…”.

Foto: Vincenzo Valente per Rolling Stone Italia
Di questo pezzo mi ha sempre colpito quanto sia concettualmente profondo. Cosa avevi voluto infondere nel suo significato, al tempo, e come lo rileggi oggi?
Sento che dobbiamo andare oltre i confini che, a volte, ci creiamo da soli, per andare alla ricerca sempre dell’altro, del nuovo. Magari anche l’intelligenza artificiale ci aiuterà a cercare meglio questo altro, chissà. Non sento l’isolamento, né ora né allora.
Allora il vero significato del suo testo è che si è figli delle stelle, se cioè ci si sente connessi tra di noi, uniti nonostante le differenze, non dobbiamo temere nulla, neppure l’amore effimero, neppure la vita caduca.
Che dobbiamo intendere per amore effimero?
Figli delle stelle con una mano ci dà e con l’altra ci toglie. Ci dà l’amore di una notte che dura, appunto una notte. Ci dà la gioia per la vita che è destinata, purtroppo, a vedere solo un certo numero di albe.
Allora era così. Incontrarsi, amarsi e poi ognuno per la sua strada, perché ognuno aveva la sua strada. Oggi magari sento meno questo lato, perché naturalmente fa parte di un periodo di una certa età, di un certo modo di vivere. Vivendo sia a Los Angeles che a Roma, viaggiando continuamente in aereo, per forza di cose mi sentivo più connesso col mondo intero.
Il pezzo negli anni è stato mixato e remixato nei modi più disparati. C’è mai stato un momento in cui hai pensato di aver creato un mostro?
Devo dire di no, perché sono riuscito a distaccarmi da Figli delle stelle. Non è un caso se l’ultimo pezzo che ho scritto si intitola Io sono due. Figli delle stelle ha vissuto per conto suo, grazie a tutti quelli che lo hanno ascoltato. Naturalmente mi fa molto piacere che qualcosa di mio resti ancora così tanto in voga, soprattutto tra i giovani. Questo è l’aspetto della fortuna della canzone che mi è piaciuto maggiormente, anche perché realizzava un mio desiderio.
È il passare del tempo che può rendere immortale un brano musicale oppure deve essere il brano, coi suoi contenuti, la sua musica, ad andare oltre il tempo, per essere intramontabile?
Credo fermamente nella seconda ipotesi. Pensiamo a Nel blu dipinto di blu. Un grande classico a cui non potrei mai togliere niente che, però, forse oggi non è più un pezzo davvero attuale. Le emozioni che esprimeva erano molto forti ed erano espresse molto bene. Invece, ad esempio, di un pezzo come Forever Young degli Alphaville anche oggi non cambierei né una nota né una virgola.

Foto: Vincenzo Valente per Rolling Stone Italia
Sei nato a Napoli da madre gallese. Crescere tra due culture così diverse è stata sempre una marcia in più o talvolta ti ha fatto sentire fuori posto?
Sono vere entrambe le cose. Per tutta una prima fase mi sono sentito più fuori, anche perché la tradizione napoletana, di fatto, non mi apparteneva e non mi interessava del tutto. Non facevo parte di quella Napoli completamente concentrata su Napoli. D’altra parte, non me ne rendevo conto, ma quella cultura aveva un’influenza incredibile su di me. Ragionavo in termini di musica anglosassone però poi cantavo in italiano con uno slang partenopeo. Col tempo, insomma, ho saputo riconoscere l’importanza di Napoli nella mia vita e nella mia musica. La riconciliazione è avvenuta con Dicitencello vuje, nel ’74, un momento spartiacque. Solo allora ho potuto esprimere appieno la Napoli che sentivo, a modo mio. Tra l’altro, entrando pure in classifica.
Nei primi anni ’70 eri immerso nella sperimentazione. Il tuo primo disco, Aria, è stato un viaggio visionario.
Il secondo ancora di più! Ah, visto che avete fatto un riascolto di Aria, vi anticipo che Universal ha intenzione di produrre un nuovo master remix dell’album.
Nel tempo ti è capitato di pensare che il pubblico italiano dell’epoca non fosse ancora pronto per quel tipo di ascolto?
Nel pubblicarlo avevo pensato a questo problema: l’ho fatto e basta. Quando ho partecipato al Festival di musica d’avanguardia e di nuove tendenze, al Foro Italico, nel ’72, mi sono reso conto che una parte del pubblico mi fischiava e una parte mi acclamava. C’era qualcuno che mi seguiva. Quelli che mi fischiavano avevano su di me una presa che mi spronava a fare di più. Allora ho capito che ero pronto per lottare. E lotto ancora.
Questa lotta è avvenuta non attraverso la riproposizione di quel genere, ma con l’applicazione del tuo talento a contesti completamente diversi. L’approdo al pop internazionale. Questa decisione è stata presa in maniera più istintiva o strategica?
Nella mia vita e nella mia carriera tutto è stato molto istintivo. C’era un produttore, un compagno di viaggio, Corrado Bacchelli, che riusciva a capire dove stessi andando. Io non lo capivo: io andavo. Tornato dal mio viaggio in Senegal, nel ’75, dopo Dicitencello vuje, sapevo di aver scoperto qualcosa che non conoscevo: il linguaggio del ritmo. Fu Corrado a dirmi, allora, che bisognava cambiare strada. Andai in America, dove lui pensava mi sarei potuto realizzare. Oggi non so se esistano ancora binomi così, collaborazioni così intense. Figli delle stelle è nata per questa nostra voglia di osare. Ricordo una scena nel mio studio di Sunset Boulevard, allo Chateau Marmont. Corrado entra con una valigetta piena di dollari e mi dice: «Ecco come realizzeremo Figli delle stelle». Proprio come in un film.
Il mondo ti associa a pezzi come Figli delle stelle o Tu sei l’unica donna per me. Ma c’è un momento nella vita che è valso più di qualunque successo?
Sì, quando è nato il mio secondo figlio Sky Julian Marcus.
C’è una versione di Alan Sorrenti che non hai mai mostrato al pubblico?
Sto lavorando per cercare di esprimere in un progetto cinematografico alcuni miei stati mentali: il racconto di come tutte le cose che ho fatto sono nate nella mia testa. Non ho ben inquadrato ancora il format, se il docufilm o altro. La sfida è cercare di esprimermi con un altro mezzo rispetto al consueto.
Se potessi rivivere solo un momento della tua carriera, quale sarebbe?
È facile: quello che deve ancora venire.
Oggi qual è una tua giornata tipo?
È molto semplice. La mia giornata tipica è quella passata scrivendo, stando nel mio mondo. Però potrebbe anche essere quell’altra in cui prendo la macchina e vado a Fregene per stare vicino al mare.
In Italia, più che in ogni altro posto al mondo, si è tenuto a fare distinzione tra musica seria e musica leggera. Una distinzione che in altre lingue rispetto alla nostra, a volte, neppure esiste.
Infatti è strano.
Esiste ancora questa distinzione?
Forse no.
Forse perché in ogni verso di Figli delle stelle convivono una cosa e l’altra?
Sono leggero e sono serio (canticchia, nda).
L’umanità sta ancora ballando o ha perso il senso del ritmo?
Intanto non so se è ancora capace di sognare. Ballare è molto legato al sogno. Questa capacità l’abbiamo persa e dobbiamo formare una coalizione per farla tornare.
C’è qualcosa o qualcuno che guardi con sincera ammirazione nel panorama musicale contemporaneo?
Non lo so. Ammirazione mi sembra un po’ troppo. Sto ascoltando su Spotify della musica ambient nuova che ha un senso oltre ai suoni, che mira a trasmettere qualcosa. Questo mi colpisce molto: un sottofondo che è in grado di parlarci. L’ammirazione è una cosa diversa. È quella che provo per David Bowie: nei suoi cambi di vita, nella sue scelte. Ho sofferto molto per la sua morte. Non sono riuscito mai ad ascoltare l’ultimo album, perché mi fa troppo male.
C’è un artista di oggi, magari agli esordi, che ti fa venire in mente te alla tua età?
No, ma non ho molte occasione di incontrarne. Oggi però ho conosciuto Settembre che ha reinterpretato Figli delle stelle in chiave contemporanea per il nuovo spot TIM che lo vedrà protagonista. Mi ha fatto una bella impressione e mi hanno colpito la sua sincerità e luminosità di base. È importante che non le perda. Quando avremo occasione di passare ancora del tempo insieme glielo dirò senz’altro. È pure napoletano!

Foto: Vincenzo Valente per Rolling Stone Italia
C’è stato mai un momento in cui, nelle montagne russe della popolarità, tra tutte le volte in cui sei nato e rinato, hai pensato di mollare tutto?
C’è stato un momento in cui ho pensato di non fare musica e scrivere e basta. Ma mollare tutto, no. Mi sento fortunato perché non sono mai arrivato a quel momento lì. Anzi, ora sto vivendo per ripagare i miei debiti di gratitudine rispetto a tutto quanto di bello mi è accaduto.
Avresti mai scambiato la possibilità di essere completamente compreso e apprezzato per produzioni come i primi due album con il successo di pezzi come Figli delle stelle?
Un po’ sì. E ho sofferto anche perché il pubblico che invece mi aveva subito capito si è sentito in qualche modo tradito dalla mia seconda fase, come se fossi andato con un’altra donna. Ancora oggi incontro personaggi assolutamente improbabili che mi dicono che Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto ha cambiato loro la vita.
Pezzone da 23 minuti!
Quando ti dicono questo mi rendo conto di quanto potesse essere forte il rapporto con quel tipo di pubblico. Ma anche del fatto che loro non erano stati in Senegal con me, non erano gallesi e napoletani, non erano me. Non erano stati, in altre parole, nelle mie scarpe.
Se domani dovessi scrivere un nuovo pezzo, di che parlerebbe?
Vi dico semplicemente i pezzi che sto scrivendo. Il primo è Io sono due, sulle due facce che alimentano la mia creatività.
L’alto e il basso, il serio e il faceto?
E il ribelle e il visionario. Il ribelle in me è soprattuto quello di La strada brucia. Non so quale altro folle, oltre me, avrebbe fatto un cambio di passo così, nel 1981.
E che altro stai scrivendo?
Un pezzo in inglese e napoletano: Inquietudine vesuviana.
Ma Figli delle stelle suonerebbe bene anche in napoletano?
Forse sì, ma non sono sicuro che si ballerebbe tanto.
Chi è Alan Sorrenti oggi?
Non sono ancora in grado di sintetizzarmi in una risposta. Ma posso dirvi una cosa di cui sono certo, anche se non so quanto sia comprensibile per chi, tra voi, non conosce il buddismo: io sono un bodhisattva.
E cosa vuol dire?
Una persona che ha deciso, prima di venire sulla Terra, che avrebbe fatto qualcosa per gli altri. Per molto tempo mi è sembrato strano, perché in passato sono stato molto egocentrico, e pensare agli altri era quasi inammissibile. Ma gli altri sono entrati nella mia vita quando ho capito che solo attraverso gli altri aggiungi un valore reale alla vita.
Anche facendoli ballare?
È proprio quello il bodhisattva di oggi.
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Photographer: Vincenzo Valente
Art Director: Leftloft
Producer: Maria Rosaria Cautilli