Articolo di Marzia Picciano
Ma quanto sono belli i the best of? Quando si celebra un quarto di secolo, poi. Lo sa bene Davide Enrico Bernasconi Van De Sfroos, 25 anni di instancabile ricerca dell’essenza, che é poi il lavoro del cantautore, e che nel caso di Davide é anche una licenza poetica enorme, perché ha il potere di poter cantare in libertà delle proprie origini, di dove viene e dove tutt’ora risiede. Di dove ha partorito, in una due giorni di quasi follia produttiva cantautoriale, insieme ai suoi musicisti, il Van De Best, il suo greatest hits di quasi 50 (!) canzoni, uscito a novembre. Un cofanetto vinile e compact disk, il che puó sembrare un ritorno al concreto, chissà – eppure con Davide é possibilissimo, e assolutamente corretto – forse é davvero così. Un ritorno alle radici. Da festeggiare questo sabato 23 novembre all’Unipol Forum di Milano, per un concerto enorme, celebrativo di Van De Sfroos ma soprattutto del mondo del laghee.
Lo sentiamo a una settimana dell’evento. In macchina, nella sua casa (é un luogo più ampio delle pareti stesse, é un territorio). Mi viene da pensare che qualche settimana fa ero a un matrimonio e la musica, a Como, era la sua. Ne é contento, lo si sente. Mi dice che gli avevano raccontato di un matrimonio dove i nomi dei tavoli erano quelli delle sue canzoni, e di un maneggio con lo stesso gioco per i cavalli. É proprio come min dice lui: c’è tutto un popolo nascosto che continua a seguire in modo molto sanguigno e viscerale tutte queste cose che tu gli proponi. Neanche tanto nascosto, se si pensa ai tifosi del Como che hanno preso Pulenta e Galena Fregia e l’hanno resa il loro canto di battaglia per la Serie A. “Noi abbiamo ricantato la canzone in versione stadio, un pó più aggressiva, con le trombe, roba del genere, con anche i fan del Como che fanno il coro. In studio ci sono filmati e tutto quanta questa cosa fortunatamente ci ha accompagnato in Serie A e adesso se tu guardi una partita anche in TV del Como, quando il Como esce dagli spogliatoi l’inno suo é in questa canzone, costruita nella stadium version”.
Tornando al Van De Best, non posso trattenermi dal chiedergli: perché 49 canzoni?
“Quando ti trovi di fronte a un momento del genere, non è che tutto avvenga col contagocce o con un algoritmo o con una strategia di marketing. Grazie a Dio tutto avviene come una sorta di esplosione, un tornado o un… albero che fiorisce, insomma, qualcosa che tira, butta fuori tutto, e ti rendi conto che gli anni son passati, che le canzoni sono veramente tante. E queste canzoni tornano a bussare alla porta, specialmente quelle un po trascurate nel corso degli anni e che dicono: “insomma, noi siamo qui ed eravamo tutte tue figlie, perché alla fin dei conti siamo nate da alcuni momenti nei quali tu non vedevi l’ora di scrivere determinate cose e di poi cantarci, adesso non è forse arrivato il momento?” Momento di cosa? “Di riprenderle in mano e di metterle dentro uno zibaldone, dentro un contenitore”.
Insomma, é stata una scelta quasi dovuta. Una necessità. La produzione di Davide é vasta, vastissima. Incredibile la potenza di una terra così piccola, almeno in termini geografici, se la mettiama in paragone con altre realtà anche internazionali. Ma fortissima, un legame così solido che non smette di fiorire. E rifiorire. Perché, si, alcune canzoni diventano eterne, ma poi hanno bisogno, come anche le sempreverdi, di accortezze, amore, cura. E anche chi se ne occupa, l’artista, deve curare se stesso, capire se é ancora lo stesso.
“Per fare una cosa nella quale credo, dovrei reindossare queste canzoni, risuonarle e mettere in ballo musicisti, energia e vedere come suonano oggi, cantate da un quasi sessantenne. E grazie a Dio alcune sono risultate abbastanza identiche all’originale e altre per fortuna erano passibili di qualche mutazione, specialmente nei suoni nell’arrangiamento, tanto per giocare anche con la tecnologia che ha a disposizione oggi. Ci sono suoni, che nel frattempo sono cambiati, strumenti, la tua voce stessa, che col tempo magari cambia. Fortunatamente riascoltando, ho sentito una cosa che mantiene il suo sound. Poi nel momento in cui le devi scegliere… Anche lì sai benissimo a priori che non le potrai mettere tutte. Gran parte potranno essere destinate a beh, al resto del ‘The best’ che potrebbe essere il prossimo lavoro, nel senso che come abbiamo fatto questo, possiamo anche mettere tutto quello che qua non c’è stato in un’altra raccolta, ma quello non conta.” E allora perché 49?
Questioni tecniche. “Abbiamo capito che dopo 49 non ci stava più sul vinile e non si può fare un vinile con una sola canzone per farne 50. E allora siamo rimasti a 49”. Peró per Davide con questo numero strano si scoperchia il vaso di Pandora per eccellenza di tutti i ‘the best’, e non solo, quello della canzone che non c’é. “Ognuno ne ha una, dovrebbe essere quella che poi lui si sceglie e si e si canta da solo, perché tanto ormai resta, magari anche meglio di me! É la mitica canzone che non c’è, che è un po il simbolo del fatto che ognuno ha una sua preferita, che è sempre la classica che può rimanere esclusa. Proprio perché anche se fai un concerto lunghissimo, qualcuna rimane fuori e via dicendo, ma questa è la classica storia”.
Davide lo sa: hanno messo tanta carne al fuoco. Del resto si sono davvero chiusi in studio, e le canzoni lì sono venute fuori, naturalmente. Le persone che c’erano si sono dette assolutamente soddisfatte del lavoro. Un’opera omnia che attendeva da troppo di uscire. A cui é stato aggiunto un ulteriore “coccola”. Sono i suoi quaderni totem. “Io voluto inserire questo quaderno nello stile dei quaderni che faccio io, perché non volevo che dentro un lavoro così grosso e anche così costoso, uno trovasse un foglio striminzito con scritti i testi, i musicisti e basta. No, e neanche le solite due o tre foto dal vivo, che poi non è un disco dal vivo. Allora ho detto, mettiamo dentro un regalo, ci penso io, me ne occupo io”. Cosa c’é dentro un totem?
“A volte sono pezzi di canzone per farti vedere che sono nati in quel contesto, con quelle immagini. A volte sono delle poesie inedite, o poesie o pensieri, flusso di coscienza, ma anche solo parole scritte di getto nel momento in cui ti trovavi in quel luogo. Mentre raccontavi quella foglia, certe cose addirittura io le avevo scritte sulle foglie stesse. Quindi diventa una sorta di pop art molto libera. E io non sono né un disegnatore né una, però ho sempre disegnato e non sono un fotografo, ma ho sempre fotografato. É il punto di vista che ti porta poi a spezzare in qualche modo un testo, una situazione per farla diventare una canzone.” Un’operazione lunga? “In un in un mesetto, a casa d’estate, ho fatto ogni pagina come fosse un mio quaderno. Sono 28 pagine che poi portavo di volta in volta al grafico. Ho capito che stava uscendo il libro che avrei sempre voluto fare, ma che non riusciremo a fare perché gli editori storcono il naso sull’illustrazione… é costosa e non vende. Io adesso ho capito che anche a mie spese un lavoro del genere lo vorrò fare e prima o poi credo che la farò. Questa è già stata una bella soddisfazione perché molte persone che non hanno a casa nemmeno il piatto per ascoltare il vinile l’hanno voluto prendere, proprio come oggetto. Qui andiamo a parlare proprio di una cosa, che è la tangibilità e la musica in un periodo in cui è tutto liquido.”
Come ci si aggrappa alle proprie cose, quando tutto scorre via? Me lo vedo Davide, mentre mi parla di lui che gira per casa, nel suo studio che dice essere incasinato ma non come quello di Mauro Corona, raccoglie foglie, piume, strappa pagine, crea una mappa della sua storia cantautoriale, si rifugia nelle cose, e nelle loro storie. “Io comincio ad avere 59 anni, puoi immaginare… Penso alle corse con la corriera, 30 km ad andare, 30 a tornare da Como, per portare a casa il disco nuovo di Bob Dylan. Cioè era un viaggio, come andare a cercare l’oro. Quando tornavi, questo piatto aveva un peso e chiamavi la gente a casa per ascoltarlo. Era un evento e adesso la musica è molto più isolazionista. Le persone fanno sport, lavorano con la cuffia, e l’ascoltano dentro… il che è molto bello, lo faccio anch’io. Ma la musica d’ascolto con tutti in casa, sui cuscini buttati giù ad ascoltare il nuovo disco dei Led Zeppelin, cioè era una roba corale”. Ha ascoltato, e creduto, dice Davide, alle profezie sulla fine del vinile. “E come tanti altri idioti della mia età ho venduto, svenduto i miei vinili per comprare i famosi CD, poi ho assistito al momento in cui si profetizzava anche la fine del CD”. Oggi vede vendere più vinili agli show case. Certo, é una questione di moda, e ben venga. Ma anche un segno di un necessario attaccamento umano alle cose.
“Vediamo tornare macchine d’epoca, vediamo tornare oggetti in casa che teniamo come oro perché al tempo li buttavamo via nel nome di cose moderne, che poi sono diventate delle cose kitsch, che oggi come oggi non vorremmo più nemmeno vedere. Quindi se questo fa parte anche proprio della canzone stessa, cioè di queste canzoni che io ho ricantato, allora mi rendo conto che non sono scadute, col tempo non sono diventate acide o muffe, continuano ad avere la loro ragione d’essere perché erano già state scritte per il terrore che qualcuno venisse dimenticato e oggi, a maggior ragione, sono ancora più preziose.” Poi c’è di mezzo quella, dice Davide, “giusta pazzia controllata del collezionista che mi arriva a dire, ho comprato il CD, e questo è quello che ascolto, poi ho comprato questo cofanetto che ha un peso e ha un costo e mi fa firmare la copertina esterna sul cellophane perché tanto non lo aprirà mai. Ovvero, di queste cose qua tu puoi dire niente perché ognuno è pazzo”.
Non si pensi che Van De Sfroos sia un luddista tecnologico, per carità: é solo, come tutti noi poi, un gran nostalgico e come detto, quando fai il conto di dove sei in mezzo a tutte le meraviglie tecnologiche che viviamo, ti senti sfuggire via tutto, ti sfugge quello che per te era sacro. Dice Davide che é anche una reazione istintiva anche un pó, se vogliamo, selvaggia, isterica a una situazione in cui ti senti messo alle strette da un mondo che non ti appartiene più, per come è diventato. La sua voglia di salire in camera e provarti l’abito di nozze, anche se non gli sta più. Difficile da spiegare certo, immediato da capire.
Gli chiedo come si sente a rientrare in quell’abito, che oggi magari non gli sta azzeccatissimo ma é anche quello dell’Unipol Forum di Milano, insomma: fatto il check con sé stesso, vedendo che era sempre lo stesso anche se un pó cambiato, come si sente a essere arrivato a questo traguardo così grande?
“Ma la vedo come un percorso molto intenso, interessante e anche e anche se vogliamo. Coraggioso? Non sono mai stato un autore mainstream, non sono mai stato trasmesso particolarmente tanto dagli emittenti radiofoniche. Non sono stato mandato più di tanto in televisione o roba del genere. Sì, c’è stato un Sanremo, per l’amor di Dio, ma… tutto quello che è avvenuto è avvenuto realmente con l’aratro, palco per palco, città per città, e tutte le persone che sono venute l’hanno sostenuto con le spalle questo palco, e l’han portato in giro in questi 25 anni e quindi sono loro, io sono lì e sono qui. Aggrappato ancora a una chitarra e ad un microfono perché loro sono lì davanti a richiedere ancora quelle canzoni, canzoni che mi capitava di trovarmi addosso. Venivo aggredito da queste canzoni del passato, quando mi capitava di arrivare in quei luoghi dove erano stati concepiti o scritte e loro, in certi momenti che ti possiedono, tornano a circolare dentro e a farti capire che loro esistono ancora e tu le vai a ripescare. Prendi la chitarra, vedi se te la ricordi. A volte ti sfuggono gli accordi, poi ti tornano”.
E quando le ‘riconquisti’ queste canzoni sei contento? “Dopo aver cantato una dietro l’altra 49 canzoni in duplice copia, ho fatto quasi una seduta dallo psicologo, perché quando ne son venuto ci ho messo due giorni e mezzo, non trenta. Vuol dire che le ho fatte proprio una dietro l’altra. Ed è più andavo e più queste tornavano e mi dicevano, se vuoi smettiamo, andiamo avanti domani. No, no, ho detto. È proprio il momento di continuare”.
Anche perché molte canzoni vengono chieste, sono diventati inni (non solo calcistici) ma anche di speranza e riscatto. Come per la bellissima New Orleans, una canzone d’amore, su una storia d’amore, in un momento devastante. Pensa mai che questa cosa in realtà oggi è più attuale che mai? Andiamo con il pensiero all’Emilia Romagna, ma anche alla Spagna. Tutti questi fenomeni climatici di una violenza inaudita. “Certo. Tanto più che questa canzone, che ormai compie un pó di anni, anche lei è stata scritta sul volo di ritorno dall’America, dopo che io sono stato a New Orleans l’anno dopo del disastro di Katrina, nel Festival della ricostruzione, dove abbiamo suonato in New Orleans e via dicendo. Sul sul volo di ritorno, che tanto era abbastanza lungo, io l’ho scritta e quando sono arrivato a casa, l’ho proprio incisa in casa su un registratire e la canzone era già fatta e finita. Nel corso degli anni questa canzone é diventata una canzone simbolo soprattutto per i popoli della Valtellina, con quello che hanno avuto loro. Del Rubicone lo é diventata poi, quando avevamo presenti (ai concerti ndr) anche personaggi che arrivavano da Ravenna a Forlì e così via. Cambiavamo proprio le parole e mettevamo Rubicone invece di Mississippi, e tutte le volte facevamo lo stesso anche con la Sardegna, anche con la Liguria. Questa canzone spunta anche per ricordare nel momento del disastro una speranza finale di ricostruzione. È una canzone che ha sempre il suo posto e che è molto se non la canti in certe situazioni. Qualcuno te la viene a chiedere perché era quasi venuto apposta”.
Di ricordi e inni ci sarà da riempirsi bocca e gola il 23 al Forum. Perché si parte da un posto, e si arriva, con l’aratro, in tutto il mondo. Parola di Davide Van De Sfroos.
Daniel D`Amico for SANREMO.FM